S&V FOCUS | Il divieto di maternità surrogata: la tutela del grembo materno GLI APPROFONDIMENTI DI SCIENZA & VITA | DI FRANCESCA PIERGENTILI

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Per maternità surrogata si intende, come noto, “un gruppo di pratiche, nell’ambito della procreazione artificiale, nelle quali un concepito viene portato in grembo da una donna che poi non sarà la madre legale[1]. Attraverso il progresso tecnologico la procreazione umana è, in tal modo, estesa oltre le possibilità biologiche e fisiologiche della coppia, con l’intervento di una donna che offre il proprio corpo per realizzare il desiderio di avere un figlio di altri: i c.d. genitori “intenzionali” o “sociali” (che saranno, poi, anche quelli legali).

Tale pratica apre scenari problematici dal punto di vista etico e giuridico, stravolgendo le categorie tradizionali di “maternità”, di “procreazione umana”, nonché gli stessi rapporti familiari. I soggetti coinvolti a vario titolo nella procreazione diventano, infatti, molteplici, andando ben oltre la dualità della coppia che caratterizza, invece, la procreazione naturale.

Nella surrogacy tradizionale la donna che porterà avanti la gravidanza “offre” anche il materiale genetico (l’ovocita destinato alla fecondazione) per la formazione dell’embrione: la “sostituzione” in questo caso riguarderà sia il concepimento che l’intera gestazione. Le donne potenzialmente coinvolte saranno due: la madre intenzionale e quella biologica-gestazionale. Alla pratica potrebbero avere accesso anche coppie omosessuali maschili.

Nella surrogacy gestazionale, invece, la donatrice di gamete, la gestante e la madre intenzionale potranno non coincidere nelle stesse persone: le donne coinvolte nella pratica potranno essere addirittura tre. In tale ipotesi la madre surrogata gestazionale accoglierà un embrione concepito da altri: la surrogazione di maternità riguarderà esclusivamente la gestazione.

Nella maternità surrogata gestazionale l’embrione potrebbe anche essere concepito con l’ovocita della madre intenzionale: tale pratica è nota in Italia con l’espressione “utero in affitto”.

I diversi modelli di maternità surrogata adottati a livello internazionale si differenziano, poi, per lo scopo di lucro o altruistico sotteso alla pratica: vi sarà in un caso la forma di surrogacy commerciale, nell’altro quella c.d. “altruistica”. In questo secondo caso la donna che offre il proprio corpo per la gestazione non riceverà un guadagno diretto per l’essersi sottoposta a tali pratiche ma un rimborso delle spese sostenute per la gravidanza; nella forma commerciale è previsto, invece, oltre al pagamento delle spese, un vero e proprio compenso per la gestante, con forti rischi di sfruttamento economico del corpo della donna, soprattutto nelle situazioni di indigenza. Entrambi i modelli comportano, in ogni caso, traffico di gameti e di embrioni umani, la distorsione dei legami di filiazione, la frammentazione della maternità, lo sfruttamento del corpo della donna, la “contrattualizzazione” del rapporto genitoriale e la reificazione del bambino.

Gli accordi di maternità surrogata sono veri e propri contratti – denominati generalmente “Gestational Carrier Agreement” negli USA – con i quali i soggetti coinvolti regolano, nel dettaglio, i rapporti e i “diritti” sul bambino.

In alcuni ordinamenti, come quello inglese, l’attribuzione dello status genitoriale a seguito di maternità surrogata avviene dopo la nascita del bambino, di solito per ordine del tribunale. Nel modello alternativo, invece, il genitore d’intenzione è dichiarato genitore anche prima della nascita (è il caso del Massachusetts e della California).

Un recente articolo pubblicato su Bioethics – dal titolo “Surrogacy and the significance of gestation: Implications for law and policy” – mette in luce come nella maternità surrogata non sia per nulla considerato il ruolo della madre gestazionale (“minimisation of the role of the surrogate”). Negli accordi, in particolare, la madre surrogata è spesso descritta come “portatrice” di un bambino per un’altra donna.

Nell’articolo si critica l’uso del verbo “portare” (“carry”) per descrivere la gestazione, ritenuto riduttivo rispetto alla grandezza della gravidanza e alla crescita del bambino nel grembo materno: il grembo non solo “trasporta” il bambino ma è il luogo proprio dello sviluppo dell’embrione. Anche l’uso delle parole “ospite” per riferirsi al bambino e “affitto” per l’utero, alle volte utilizzate negli accordi, non tengono conto del particolare rapporto che si instaura tra la donna e l’embrione sin dai primi istanti: il corpo della donna non è mai semplice “contenitore” e il figlio non è un mero prodotto, oggetto di scambio.

Nell’articolo si ricorda, inoltre, l’importanza della gestazione e del legale madre-figlio, confermata dalla scienza: è noto, ad esempio, che alcuni comportamenti materni in gravidanza, come il consumo di alcol e tabacco, influenzano il feto; la ricerca sull’epigenetica indica, inoltre, che le condizioni gestazionali possono influenzare l’espressione genica. Il corpo della donna contiene in sé le cellule del feto anche dopo la nascita, anche per decenni (c.d. microchimerismo).

La conclusione a cui arriva l’autore è che l’accordo dovrebbe riconoscere in qualche modo la relazione tra il bambino e la madre surrogata, proteggendo, ad esempio, il diritto del bambino di sapere che è nato da maternità surrogata e di conoscere i dettagli identificativi della madre surrogata, senza vietare la pratica. La “relazione gestazionale” dovrebbe divenire il principio “organizzativo” per le normative e le politiche in tema di maternità surrogata per promuovere la verità, la trasparenza e il contatto continuo tra la madre surrogata, i genitori committenti e il figlio.

Ma tali “correttivi” sarebbero veramente in grado di tutelare la relazione fondamentale madre-figlio nella maternità surrogata? In altre parole, tale pratica può essere considerata, ad alcune condizioni, eticamente e giuridicamente lecita?

In Italia, l’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio n. 40 del 2004, recante Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità.

La Corte costituzionale, anche nella sentenza n. 162 del 2014 che ha dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa, ha sempre ribadito la validità del divieto di maternità surrogata contenuto nella legge. Nella sent. n. 272 del 2017, la Corte costituzionale ha riconosciuto “l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”, una pratica che “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”.

La ratio del divieto è da rintracciare, in particolare, nell’offesa alla dignità umana e nella frammentazione delle relazioni umane fondamentali Tale pratica prevede sempre, infatti, lo sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, la reificazione del bambino, ritenuto oggetto di scambio, la contrattualizzazione delle relazioni umane, la lesione della dignità della donna ma anche del bambino. La “relazione gestazionale” è, pertanto, molto più che un mero principio “organizzativo” per normative e pratiche gravemente lesive della dignità umana.

Il grembo materno è, infatti, il luogo da proteggere, custode del nascere, delle relazioni umane e della vita: di una vita che si manifesta, sin dal suo inizio, come un “dono”, fuori da qualsiasi logica contrattuale o commerciale.

 

Per approfondire:

Mulligan, A. (2024). Surrogacy and the significance of gestation: Implications for law and policy. Bioethics, 1–10.

[1]M.P. Faggioni, voce “Maternità surrogata”, in Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, Napoli, 2015, Vol. VIII, 251

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