Il disegno di legge sulla “Morte volontaria medicalmente assistita” (DDL 2553) è stato trasmesso al Senato ed è ora in attesa di assegnazione, dopo l’approvazione alla Camera del testo unificato dei vari disegni di legge in materia (C.2, C.1418, C.1586, C.1655, C.1875, C.1888, C.2982, C.3101), avvenuta il 10 marzo. L’articolo 1 indica la finalità della legge e, cioè, la “disciplina della facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita”, alle condizioni e limiti previsti dalla legge e “nel rispetto dei princìpi della Costituzione, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
La definizione di “morte volontaria medicalmente assistita” è espressa nel successivo art. 2, che la qualifica come “il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalle norme della presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale”. L’atto dovrà essere “il risultato di una volontà attuale, libera e consapevole di un soggetto pienamente capace di intendere e di volere”. Nel dibattito in Assemblea alla Camera – come anche in quello precedente in Commissione – si era tentato di emendare il testo con l’inserimento, già nei primi articoli, del pre-requisito dell’aver intrapreso il soggetto un percorso di cure palliative, così come richiesto anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n 242 del 2019 (nel noto caso Dj Fabo/Cappato). Si è, inoltre, tentato di non sottoporre la procedura per la morte volontaria al controllo del Servizio sanitario nazionale, per non stravolgere la finalità di cura e di assistenza del servizio nazionale stesso. I tentativi di modifica non sono riusciti. L’art. 2, infatti, contempla tale nuova finalità del SSN, che deve operare, come si legge al comma 3, “nel rispetto dei seguenti princìpi fondamentali: tutela della dignità e dell’autonomia della persona; tutela della qualità della vita fino al suo termine; adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia”. Si evidenzia a tal proposito una specifica interpretazione della dignità della persona, prettamente soggettivistica, sganciata dal bene in sé della vita umana.
L’adeguato sostegno sanitario, psicologico e socioassistenziale sarebbe stato garantito da quel percorso di cure palliative che si è voluto escludere dai requisiti fondamentali per l’accesso alla procedura della morte assistita, consentendo tale accesso anche con il semplice rifiuto delle cure palliative. I presupposti, infatti, per l’accesso alla procedura sono: la maggiore età, la capacità di intendere e di volere e di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli, l’adeguata informazione, nonché il previo coinvolgimento “in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate o le abbia volontariamente interrotte” (art. 3). Basta, pertanto, il rifiuto delle cure palliative per la morte volontaria assistita. La persona deve, poi, trovarsi nelle concomitanti condizioni di: a) essere affetta da una patologia attestata dal medico curante o dal medico specialista che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; b) essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente. Anche rispetto a tale ultima condizione, si era tentato di restringere l’ambito dei trattamenti di sostegno vitale ai “macchinari” che tengono in vita la persona, ma anche tale modifica non è stata approvata. In base all’art. 5, il medico che ha ricevuto dal paziente la richiesta di morte volontaria redige un rapporto dettagliato e documentato sulle condizioni cliniche e psicologiche del richiedente e sulle motivazioni che l’hanno determinata e lo trasmette al Comitato per la valutazione clinica territorialmente competente – da istituire con decreto del Ministro della salute in composizione multidisciplinare (costituiti da medici specialisti e da professionisti con competenze cliniche, psicologiche, giuridiche, sociali e bioetiche) – che entro trenta giorni dovrà esprimere un parere motivato sull’esistenza o meno dei presupposti e dei requisiti.
Il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita sarà equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti di legge. L’esercente la professione sanitaria non è tenuto a prendere parte alle procedure quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione. L’On. Trizzino, durante le votazioni sugli emendamenti per l’inserimento del pre-requisito delle cure palliative (al quale si è opposto), ha affermato che la legge riguarderà “piccolissime categorie di persone”, tranquillizzando sul fatto che “non succederà nulla di così grave, non si estenderanno i numeri, sono numeri molto limitati…che la Corte costituzionale ha individuato con grande attenzione”[1]. Tali affermazioni sono, in realtà, già smentite dai fatti: il disegno di legge va ben oltre le indicazioni fornite dalla Consulta con la sentenza n. 242. Il riferimento è in particolare a: l’aggiunta le condizioni per l’accesso al fatto che la persona sia “portatrice di una condizione clinica irreversibile”; allo stravolgimento dei compiti del SSN, non presente nella sentenza; al non aver definito oggettivamente l’ambito dei trattamenti di sostegno vitale (nel caso Cappato la Corte faceva chiaro riferimento alle macchine che tengono in vita il soggetto); al non aver inserito tra i requisiti per l’accesso il coinvolgimento effettivo ad un percorso di cure palliative. I confini, già ampi, delineati dal disegno di legge sono, così, evidentemente destinati ad espandersi in ottica eutanasica e di rifiuto delle situazioni di vulnerabilità.
Il disegno di legge che vorrebbe disciplinare il fine vita secondo le indicazioni fornite dalla Consulta nella sentenza sul suicidio assistito, in realtà, fa propria una interpretazione della sentenza n. 242 ampia, basata sul mero soggettivismo e volontarismo, smentita dalla stessa Corte costituzionale con la pronuncia n. 50 del 2022 sull’inammissibilità del referendum abrogativo sulla norma penale che punisce l’omicidio del consenziente, con la quale la Corte ha negato che sia avvenuta l’affermazione del principio della disponibilità della vita umana con la sentenza n. 242 e riaffermato la necessità di tutelare la vita umana rispetto alla libertà di autodeterminazione. L’invito è di recuperare, anche in vista della nuova fase che si apre con la trasmissione del testo in Senato, il rispetto effettivo dei principi della Costituzione, della Convenzione EDU e della Carta dei diritti fondamentali Ue, richiamati nell’art. 1 del ddl, che tutelano la vita e la dignità umana e non la morte. Il riferimento a tali principi, come a quello del rispetto della dignità, è, altrimenti, destinato a rimanere un richiamo vuoto.
Per approfondire:
[1] V. resoconto stenografico, Assemblea, Camera, 9 marzo 2022, p.17
ultimo aggiornamento il 21 Marzo 2024