S&V FOCUS | Cure Palliative Pediatriche: antropologia e comunicazione per la cura globale del minore Gli approfondimenti di S&V | di Francesca Piergentili

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Il progresso medico e biotecnologico ha raggiunto traguardi importanti. Uno di essi è sicuramente l’aver ridotto la mortalità dei bambini portatori di malattie gravi e potenzialmente letali, aumentando la possibilità di sopravvivenza dei pazienti pediatrici. Questi “nuovi” pazienti hanno bisogno di cure adeguate e specifiche, anche per lungo tempo: nella patologia complessa neonati e bambini crescono, attraversando le diverse fasi di sviluppo fisico, psicologico, relazionale e sociale.

Le cure rivolte ai minori devono, così, essere modulate in base alle mutevoli situazioni biologiche, cliniche, psichiche, sociali del paziente pediatrico, riferendosi, ai bisogni specifici, che cambiano nel tempo in funzione dell’andamento della patologia ma anche dello sviluppo evolutivo legato alla crescita.

Le cure palliative pediatriche (CPP) sono l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino affetto da malattia inguaribile e della sua famiglia. Le patologie potenzialmente eleggibili alle CPP sono sempre più numerose (malattie neurologiche, metaboliche, oncologiche, cardiologiche, cromosomiche, malformative, ecc.) come ampio è lo spettro dei bisogni correlati alla malattia. Le CPP non sono, così, l’assistenza nel fine vita ma l’assistenza precoce alla inguaribilità: dal momento della diagnosi accompagnano il bambino e la famiglia lungo il decorso della malattia, non precludendo in alcun modo la terapia curativa eventualmente concomitante. Dai dati più attuali emerge che in Italia, su 30mila bambini bisognosi di CPP, ancora solo una ridottissima percentuale riceve le cure necessarie: la Società Italiana di Pediatria ha stimato che solo il 15 % dei pazienti pediatrici ha effettivamente accesso alle cure.

In passato si sottovalutava l’impatto del dolore nei pazienti in età pediatrica affetti da malattie croniche. Si riteneva, in particolare, che il sistema nervoso del bambino o del neonato non riuscisse a tradurre e a percepire la sensazione dolorosa. Dal 1980, le ricerche hanno invece dimostrato non solo che dalla 23ª settimana di gestazione il feto è in grado di percepire il dolore, ma anche che, a parità di stimolo, più è giovane il paziente tanto maggiore è la percezione del dolore. Inoltre, è stato provato che il dolore fisico può causare uno stress emotivo che, se non adeguatamente trattato, ha conseguenze negative nello sviluppo fisico e psichico del bambino, anche a distanza di tempo.

Un recente articolo pubblicato sulla Rivista Italiana di Cure Palliative evidenzia il contributo che può offrire l’antropologia medica ai professionisti che si approcciano a questo ambito ancora relativamente nuovo ma in rapido sviluppo, soprattutto in riferimento al tema della comunicazione. Lo studio afferma che l’accompagnamento del paziente pediatrico si dovrebbe fondare su alcune basi: una profonda empatia, la capacità di attivare risorse multidisciplinari e forme di supporto a 360 gradi, la presenza costante della rete di operatori.

Nell’articolo si ricorda, inoltre, il ruolo chiave della famiglia per le CPP, ancora più centrale che nelle cure dell’adulto: la famiglia è “il centro dell’iter di cura” del bambino, essenziale per il suo benessere fisico e psicologico. Anche per questo motivo, quando possibile, la permanenza a e la riduzione del tempo di ospedalizzazione sono scelte da privilegiare per offrire ai piccoli pazienti una vita il più normale possibile. I genitori hanno inoltre la responsabilità relative alla cura del bambino e alle decisioni che riguardano l’iter terapeutico.

La prima ricerca antropologica in tema di CPP è stata condotta nel 1978 da Myra Bluebond-Langner, partendo dall’interrogativo su cosa comunicare ai pazienti pediatrici rispetto alla loro malattia. Lo studio, che coinvolse 32 bambini affetti da leucemia, utilizzava diverse metodologie qualitative (interviste e conversazioni in ospedale con gli operatori sanitari, con i caregiver, con i bambini; play therapy e visite a casa). Gli strumenti consentirono di individuare alcuni aspetti cruciali sul piano della comunicazione: in particolare evidenziò la complessità della comunicazione nell’ambito delle CPP, caratterizzata da una molteplicità di livelli (verbali e non verbali), e da diversi soggetti coinvolti (il bambino, i genitori, l’équipe curante, ma anche gli altri membri della famiglia). Al tema della comunicazione è anche collegato quello della possibilità che il bambino prenda parte attiva nelle scelte che riguardano il suo corpo e la sua vita.

In Italia la legge n. 219 del 2017 è in linea con la promozione di una comunicazione aperta con il minore, a tutela della sua autodeterminazione, in considerazione dell’età, del suo grado di sviluppo e delle sue competenze, all’interno di un approccio fondato sul concetto di autonomia relazionale.

Nella pratica purtroppo la comunicazione degli operatori sanitari con la famiglia e con il bambino è problematica e non semplice, per la carica di sofferenza legata alla malattia: i pazienti pediatrici e i genitori di fronte all’inguaribilità sperimentano le difficoltà dal punto di vista clinico, psicologico, sociale, spirituale, etico che la malattia comporta.

Si tratta di situazioni a elevata complessità, con elevati margini di incertezza. Gli operatori anche nelle situazioni più difficili hanno il compito di sostenere il gruppo familiare nelle decisioni, ponendo al centro l’appropriatezza e la proporzionalità della cura, nell’ottica di tutelare al meglio il bambino. Medici, infermieri, psicologi che operano in ambito di CPP necessitano, pertanto, di una formazione specialistica, oggi purtroppo spesso carente. Un ostacolo serio alla comunicazione è rappresentato, per i pazienti non italiani, dalle barriere linguistiche e comunicative: un codice linguistico condiviso è indispensabile per la comprensione della situazione clinica del bambino e per la condivisione del percorso di cura. Sarebbe importante promuovere la presenza di mediatori interculturali qualificati, in collaborazione con l’équipe, per offrire al bambino la migliore cura globale.

La comunicazione pediatrica è profondamente diversa dalle altre forme di comunicazione medico-paziente: il sanitario interagisce sempre con almeno due persone (il minore e il genitore) e la partecipazione del paziente al processo comunicativo è spesso limitata (soprattutto nella comunicazione della diagnosi e del trattamento). Il ruolo del minore nella comunicazione pediatrica dovrebbe, quando possibile, essere sempre più considerato e valorizzato, soprattutto nell’ambito delle cure palliative, per poter meglio comprendere i bisogni specifici del paziente.

Quando è possibile tale comunicazione con il minore, è importante che il contenuto dell’informazione sia adeguato alla sua età, alle caratteristiche della sua personalità, alla patologia o stato di salute. Particolare attenzione andrebbe posta alla comunicazione con gli adolescenti, in considerazione della loro sensibilità, della loro vulnerabilità e della maggiore consapevolezza del loro stato di salute: l’ascolto dei loro bisogni è indispensabile per l’accompagnamento e la cura globale.

  1. Vargas C. Le cure palliative pediatriche e neonatali in Italia: quale ruolo per l’antropologia medica? Riv It Cure Palliative 2023;25(3):161-167.
  1. Hrdlickova L, Polakova K, Loucka M. Innovative communication approaches for initializing pediatric palliative care: perspectives of family caregivers and treating specialists. BMC Palliat Care. 2023 Oct 10

 

  1. ISS, Cure palliative pediatriche, stato dell’arte e criticità, Rapporto ISTISAN ISS 17-6

 

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