S&V | CONSIDERAZIONI SULLA PROPOSTA DI LEGGE CIRCA LA “OMOTRANSFOBIA” (DDL ZAN), IN DISCUSSIONE ALLA CAMERA 16 ott 2020

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Il testo unificato delle proposte di legge in discussione alla Camera dei deputati circa la c.d. “omotransfobia” (t.u. A.C. n. 107, 569, 868, 2171, 2255) mira a estendere l’ambito applicativo degli agli artt. 604-bis e 604-ter c.p. – che riguardano condotte di discriminazione o di provocazione alla violenza realizzate per motivi «razziali, etnici, nazionali o religiosi», nonché l’aggravamento obbligatorio della pena fino alla metà previsto circa reati commessi «per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso» – anche ai casi in cui i medesimi fatti siano posti in essere per motivi «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

In proposito, va innanzitutto rimarcato che l’intento di garantire il rispetto di tutte le persone, indipendentemente dal loro sentire o dalle loro opinioni in tema di affettività o sessualità, risulta del tutto condivisibile e va perseguito con impegno unanime.

L’interrogativo che si pone, tuttavia, è se le modifiche normative proposte – e in particolare l’enfatizzazione dell’intervento penale rispetto a condotte già penalmente sanzionate – risultino ragionevoli rispetto all’intento summenzionato, o finiscano per rispondere, invece, a una prospettiva in realtà diversa: con possibili effetti controproducenti sullo stesso intento di tutela predetto, ma anche con effetti molto delicati in merito alla certezza del diritto e all’esigenza di non incrinare il principio cardine per qualsiasi ordinamento democratico-liberale costituito, ai sensi dell’art 21 Cost., dalla libera espressione di opinioni su qualsiasi tema, purché ciò non avvenga attraverso linguaggi offensivi (con il solo limite costituito dal divieto della propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, la cui trasgressione è punita dallo stesso art. 604-bis, comma primo, lett. a, c.p. e risulta aggravata, ai sensi del comma terzo, ove si fondi su atteggiamenti di c.d. ‘negazionismo’).

È importante rimarcare, infatti, che non sussiste, nel nostro stesso ordinamento penale, alcun vuoto di tutela in materia, essendo già previste sanzioni applicabili sia per atti di violenza, sia per altri tipi di offesa perpetrati nei confronti di chiunque, nonché per il caso della denegazione verso chiunque di specifici diritti garantiti dalla legge: con possibile aggravio della risposta sanzionatoria ove simili illeciti vengano commessi sulla base di motivi particolarmente riprovevoli.

D’altra parte, il creare una reazione penale differenziata circa le specifiche categorie di vittime che il testo all’esame del Parlamento dichiara di voler meglio tutelare determinerebbe una palese violazione del principio di uguaglianza rispetto al trattamento sanzionatorio applicabile nei confronti delle medesime condotte illecite ove poste in essere sulla base di motivi riferiti alla condizione di altre categorie di persone (si pensi a quelle di anziano, diversamente abile, malato, immigrato, ex-detenuto, sostenitore di un data corrente di pensiero o di una certa opinione politica, e così via).

Il far leva sull’appesantimento della risposta penale per quanto concerne le particolari vittime di cui al testo unificato in esame appare rispondere ampiamente, pertanto, a un utilizzo ‘simbolico’ delle norme penali, rivolto ad accreditare sul piano sociale determinate opzioni in materia di affettività o sessualità. Il che, tuttavia, non risulta compatibile con i compiti propri di un diritto penale laico e liberale, essendo chiamato, quest’ultimo, a tutelare beni di rilievo costituzionale, ma non a promuovere (secondo un c.d. intento di ‘moralizzazione’) modifiche del costume sociale.

Un simile orientamento emerge, del resto, anche in rapporto alle norme promozionali di cui alla seconda parte del testo unificato, esse pure ignote ad altri settori della tutela di diritti: non senza che sorprenda, in proposito, la già avvenuta introduzione nell’ordinamento giuridico di una parte tra tali norme, attraverso la legge di conversione n. 77/2020 del c.d. decreto legge ‘rilancio’, rispetto al quale simili norme risultano del tutto non pertinenti e, come tali, suscettibili di un vaglio di costituzionalità.

L’enfasi accordata alla forma sanzionatoria classica che si focalizza sulla pena detentiva – in luogo della scelta di affiancare, piuttosto, alle pene già applicabili forme di giustizia riparativa o di mediazione penale idonee a conseguire il ristabilirsi di un riconoscimento della vittima, nella sua dignità, da parte dell’autore di un reato – finisce facilmente, del resto, per non contribuire alla revisione di stili comportamentali sbagliati, anche con riguardo al contesto delle persone vicine all’autore stesso: con prevedibili effetti ulteriormente divisivi e di radicalizzazione, in tali persone, del senso di ostilità verso determinate categorie di individui. Non dimenticando, inoltre, che i comportamenti offensivi dei quali di discute fanno capo, molto spesso, a soggetti scarsamente integrati o acculturati, nei confronti dei quali appaiono particolarmente necessari percorsi, pur impegnativi, orientati alla risocializzazione.

Fermo quanto s’è detto, le norme proposte soffrono, peraltro, di uno strutturale difetto di determinatezza, in contrasto col principio costituzionale di legalità. Ciò vale in primo luogo con riguardo all’intento di introdurre uno specifico delitto consistente nella commissione di generici «atti di discriminazione» (oppure nell’istigazione a commetterli) per i motivi di cui al testo unificato. Risulta, infatti evidente, a tal proposito, il rischio dell’apertura di processi penali, quale ne sia l’esito finale attraverso i diversi gradi di giudizio, in base alla mera espressione di punti di vista – sul piano etico, filosofico, pedagogico, psicologico, religioso, ecc. – circa il modo di vivere l’affettività e la sessualità.

Simili atti di discriminazione non sono nemmeno ancorati alla violazione di precisi diritti riconosciuti dalla legge e, data la formulazione legislativa proposta, rimettono di fatto il giudizio concernente la loro sussistenza a una discrezionalità giudiziaria della quale non è possibile prevedere a priori, per ciascun singolo caso, i criteri di utilizzo: col pericolo dell’apertura di processi aventi per oggetto l’espressione del pensiero, implicanti inevitabili contrapposizioni in sede sociale delle quali il nostro Paese non ha davvero necessità.

Né il problema è risolto dall’avvenuta introduzione di un nuovo art. 3 nel testo unificato della competente Commissione parlamentare, articolo il quale dichiara ‘consentiti’ – termine davvero paradossale – quelli che costituiscono ovvi diritti costituzionali (vale a dire «la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte»). Con ciò riconoscendosi in modo espresso che il problema in esame si pone, senza che tuttavia venga offerto alcun criterio utile per la distinzione fra ‘atti consentiti’ e ‘atti discriminatòri’: distinzione che rimane affidata, pertanto, all’incertezza delle soluzioni giudiziarie.

Non si dimentichi, d’altra parte, che la stessa introduzione delle norme attualmente previste agli artt. 604-bis e 604-ter c.p. suscitò a suo tempo ampio dibattito dottrinale proprio in rapporto al confine tra i divieti in esse previste e l’esercizio di diritti costituzionali: essendosi giunti, poi, a ritenere accettabile tale introduzione, sia per il carattere ben definito sul piano oggettivo dei motivi «razziali, etnici, nazionali o religiosi», in quanto non legati a mere sensibilità soggettive, sia per la eccezionalità di simili norme, in quanto occasionate dalle evenienze più tragiche nella storia dell’umanità.

Né si può trascurare, inoltre, come le ipotesi di ulteriore criminalizzazione introdotte restino fondate, a loro volta, su finalità soggettive labili nei loro confini e, soprattutto, di accertamento assai problematico.

Appare dunque auspicabile riprendere l’intera problematica con pacatezza, onde giungere a soluzioni in grado di poter essere largamente condivise, ove riferite all’obiettivo di consolidare nella nostra società la percezione del rispetto incondizionato dovuto verso qualsiasi persona, a prescindere dalle sue condizioni, dai suoi convincimenti o dalle sue scelte di vita: soluzioni le quali, in tal senso, assumerebbero una ben maggiore autorevolezza dinnanzi all’intero Paese.

Ciò anche in considerazione della scarsa opportunità di un impegno delle Camere intorno a un testo di legge che suscita in molti forti perplessità, proprio nel momento in cui è in atto un’emergenza sanitaria la quale esige forte unità d’intenti e il cui contrasto dovrebbe risultare del tutto prioritario per le istituzioni politiche.

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