SUICIDIO ASSISTITO | Intervista al Presidente Alberto Gambino Avvenire 5 ott 2023 | di Francesco Ognibene

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DAI «TRATTAMENTI DI SOSTEGNO VITALE» ALL’INCERTEZZA DEL DIRITTO

Il presidente di Scienza & Vita, il giurista Alberto Gambino, denuncia la distorsione di un concetto al centro di leggi e sentenze. Decisivo quanto quello medico, l’aspetto giuridico degli ormai ripetuti casi di autorizzazione da parte di strutture pubbliche ad accedere al percorso di morte assistita esige che si faccia chiarezza. Anche perché di chiarezza, a ben vedere, ce n’è sempre meno. «Il diritto nutre certezze, altrimenti non è più un diritto ma un’opinione – argomenta Alberto Gambino, giurista e presidente nazionale di Scienza & Vita –. In Italia l’aiuto al suicidio è tuttora un reato, salvo che ciò avvenga nell’ambito di quattro criteri specifici dettati da una sentenza della Corte costituzionale (la 242 del 2019, il caso Cappato). Uno di questi criteri riguarda il fatto che il paziente sia sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, che sono presìdi sanitari invasivi come apparecchi e dispositivi applicati al corpo umano; nel più recente caso si tratta invece di una donna non autosufficiente e, dunque, assistita nello svolgimento della sua vita quotidiana ma non sottoposta a dispositivi medici. Interpretare tale assistenza come se fosse un trattamento medico di sostegno vitale introduce nel nostro ordinamento un diritto incerto, insidioso e drammatico. Incerto perché si allontana dalla lettura comune di cosa sia un trattamento di sostegno vitale sul quale la Corte costituzionale ha fondato la sentenza che legittima in alcuni casi l’aiuto al suicidio. Insidioso perché può portare a interpretazioni difformi e distanti con riflessi giudiziari anche in ordine alle responsabilità civili e penali. Drammatico perché fa intendere che l’aiuto umanitario che abitualmente si presta verso le persone non autosufficienti sia un atto invasivo e non dovuto così rompendo il legame solidaristico che invece la nostra Carta costituzionale afferma tra i principi fondamentali del nostro ordinamento democratico.

Già due corti (Massa e Genova) hanno assolto chi accompagnò un malato di sclerosi multipla a morire in Svizzera. È possibile torcere la sentenza della Consulta in questo modo?

In effetti anche sentenze di merito hanno ampliato la definizione di trattamento di sostegno vitale. Il problema rispetto al contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale sta nel fatto che essa ha dato per presupposto cosa si intendesse per “sostegno vitale” senza esplicitarlo. A questo punto ecco che il diritto nella sua applicazione diventa l’opinione dei giudici.

Qual è la ratio della sentenza della Corte?

La sentenza si radica nei meccanismi della legge 219/2017 sul fine vita: una volta ammesso che idratazione e alimentazione artificiali sono trattamenti sanitari e, dunque, rifiutabili, si è ritenuto ragionevole giungere alla morte del paziente con un’iniezione letale e non solo con la lenta sedazione del malato che rifiuta cibo e acqua per lasciarsi morire. La ferita è proprio questa: non avere considerato che avere cura di un malato prima che un protocollo sanitario è un atto umano di solidarietà.

Vale la pena mettere mano a una legge per fermare queste ripetute fughe in avanti?

Una norma sarebbe opportuna soprattutto per impedire che si crei un federalismo del suicidio assistito con applicazioni difformi e, dunque, incerte a seconda del territorio dove si richiede la pratica; per segnalare la distanza abissale tra aiuto umanitario e aiuto al suicidio e, infine, per scongiurare che le strutture sanitarie dove il paziente entra per essere curato vengano reinterpretate come luoghi dove si somministrano
veleni per morire.

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