S&V SUICIDIO ASSISTITO | Audizione in Piemonte su “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito” | 12 febbraio 2024 Carmelo Leotta | Prof. associato di diritto penale – Università degli Studi Europea di Roma

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Scienza & Vita è stata invitata per l’Audizione in IV Commissione del Consiglio Regionale del Piemonte sulla P.D.L. di iniziativa popolare n. 295 recante “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019”  | Torino, 12 febbraio 2024 – Palazzo Lascaris  | Scarica QUI il testo integrale dell’intervento

A rappresentare S&V è stato il Prof. Carmelo Leotta, delegato dal Presidente A. Gambino

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Ill.mi Consiglieri,

nel ringraziare per il gradito invito, interverrò questa mattina sia in quanto delegato dal Presidente dell’Associazione Scienza & Vita, prof. Alberto Gambino, sia in quanto professore associato di diritto penale presso l’Università Europea di Roma.

Svolgerò tre distinti temi: 1) l’incompetenza legislativa regionale in materia di regolazione del suicidio assistito; 2) la necessità di definire in modo unitario e omogeneo su tutto il territorio nazionale il requisito del trattamento di sostegno vitale; 3) la possibilità e l’opportunità per la Regione di intervenire nella materia del fine vita legiferando in materia di cure palliative.

  1. La Regione è incompetente a dettare norme sui tempi e sulle modalità di erogazione del suicidio assistito

La questione della incompetenza regionale a legiferare sulla materia del suicidio assistito è già stata affrontata da numerose e autorevoli voci. È mia intenzione affrontare l’argomento sotto una particolare angolatura, rimasta un po’ in ombra, cioè l’incidenza della disciplina di cui alla P.D.L. sulla materia dell’autodeterminazione terapeutica, che comprende altresì, per il diritto vivente, il diritto al rifiuto della cura e anche la richiesta del suicidio assistito, seppur quest’ultima non qualificabile, stando alla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, come diritto soggettivo.

Prima di affrontare il tema nei termini ora detti, intendo fare un seppur breve richiamo al parere dell’Avvocatura Generale dello Stato del 15 novembre 2023, reso rispetto alla P.D.L. n. 7 della Regione Friuli-Venezia Giulia e alla P.D.L. n. 217 della Regione Veneto. Il richiamo in questa sede al parere dell’Avvocatura Generale, pur riferito ad altre P.D.L., è legittimato in particolare dal fatto che i testi delle P.D.L. del Friuli e del Piemonte sono corrispondenti.

Con il parere dello scorso novembre, l’Avvocatura Generale ha preso le mosse dalle affermazioni della Corte costituzionale – contenute nella sentenza n. 242/2019 (cioè la sentenza c.d. Antoniani-Cappato) e nella sentenza n. 50/2022 (sulla inammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p.) – che ribadiscono la centralità del diritto alla vita e la irrinunciabilità della sua tutela penale anche dinnanzi alla richiesta di morte del suo titolare. La tutela penale si arresta ove sussistano le condizioni, di cui al dispositivo della sentenza n. 242/2019 che fanno discendere la non punibilità della condotta di aiuto, quale ipotesi eccezionale[1]. Ne discende che una disciplina che dettasse norme su tempi e modalità per l’erogazione dei trattamenti di suicidio assistito assurgerebbe a disciplina sulla titolarità e sull’esercizio di diritti fondamentali, come tale, soggetta a competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett. l), Cost., ove si prevede, appunto, la competenza esclusiva dello Stato, tra le altre, in materia di ordinamento civile, cui appartengono senz’altro le norme che disciplinano gli atti di disposizione del corpo (tra cui la richiesta di suicidio assistito) che incidono su aspetti essenziali dell’integrità della persona.

Peraltro, la P.D.L. demanda alla Commissione medica interdisciplinare il compito di individuare, caso per caso, le modalità di erogazione del trattamento di suicidio assistito. È la Commissione, infatti, ai sensi dell’art. 3, comma 4, a definire, acquisito il parere del Comitato etico territorialmente competente, «le modalità per garantire alle persone in possesso dei requisiti di cui all’articolo 2, comma 1, interessate ad accedere al suicidio medicalmente assistito, la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile». Questa soluzione normativa comporterebbe a ben vedere una ulteriore frammentazione di disciplina, a fortiori inconciliabile con la disposizione di cui all’art. 117, 2° comma, lett. l), Cost.

Fermo restando quanto ora si è detto, sia consentito aggiungere che la P.D.L. n. 295 non detta comunque solo norme di organizzazione o di esecuzione del diritto vivente successivo alla sentenza n. 242/2019 né detta solo norme sulle modalità e sui tempi per il compimento dell’aiuto al suicidio. Se si legge con attenzione in particolare l’art. 1, 2° comma, si coglie, infatti, il contenuto inequivocabilmente “innovatore” della P.D.L.: diversamente da quanto ha fatto la Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019, il testo regionale qualifica la richiesta del soggetto di accedere all’aiuto al suicidio come diritto soggettivo individuale e inviolabile. Già solo per questo motivo, la P.D.L., se approvata, non sarebbe fonte di mere regole esecutive o organizzative del decisum della sentenza n. 242/2019, posto che – può essere utile ripeterlo per maggior chiarezza – trasforma la richiesta di suicidio assistito da mera libertà del malato, cui il medico può decidere, senza alcun obbligo, di dar seguito (sussistendo i requisiti di non punibilità indicati nel dispositivo della sentenza n. 242) in un vero e proprio diritto soggettivo, da cui discende, tra l’altro, un obbligo per il sanitario di dar seguito alle volontà del paziente. Pertanto, già solo per questo motivo, è fuor di dubbio che la P.D.L., operando tra diritto alla vita, dignità e autodeterminazione un bilanciamento nuovo e diverso rispetto a quello fatto dalla sentenza n. 242, produca i suoi effetti su una materia di competenza legislativa esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett. l), Cost., perché rientrante nell’“ordinamento civile”. Né mancherebbero effetti sul piano penale, anch’esso riservato dalla legislazione esclusiva dello Stato.

A quanto ora detto si aggiungono altri aspetti, quali la necessità di dettare una disciplina omogena in materia di obiezione di coscienza (non contemplata dalla P.D.L.) e in materia di composizione dei comitati etici territoriali e di procedure vincolanti per le Commissioni. Peraltro, per le stesse ragioni di competenza, la legge regionale neppure potrebbe dettare, a rigore, una norma introduttiva dell’obiezione di coscienza – lo affermo per ragioni strettamente tecniche, nonostante ritenga che, nel caso di approvazione di una legge (per forza di cose, statale) sul suicidio assistito sia necessario prevedere una norma sull’obiezione di coscienza. Pur essendo una simile norma (sull’obiezione di coscienza) imposta dagli artt. 19, 21, 33 Cost., non potrebbe comunque essere una legge regionale ad introdurla, perché ricadrebbe su una materia ancora una volta di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett. l) Cost.

In sintesi: una disciplina regionale in materia di suicidio assistito farebbe venire meno le condizioni di eguaglianza dei cittadini-pazienti su tutto il territorio nazionale in relazione al diritto alla cura e al rispetto della propria integrità fisica e psichica.

Ciò detto, ulteriore ragione di incompetenza è rappresentata dal fatto che la P.D.L. in esame investe, di necessità, la materia dell’autodeterminazione terapeutica, anch’essa esclusa dalla competenza regionale. Può essere di aiuto anzitutto approfondire perché è corretto asserire che la P.D.L. investe tale materia:

  1. anzitutto la richiesta stessa di suicidio assistito è atto di autodeterminazione terapeutica, anzi, si potrebbe dire che ne è l’atto più radicale, poiché consiste nel solo nel rifiuto di una cura, ma addirittura nella richiesta, appunto, di essere aiutati nel darsi la morte. È inevitabile, quindi, che disciplinare modalità e tempi di erogazione del trattamento esiziale, comporti legiferare in materia di autodeterminazione.
  2. Se ciò è vero su di un piano generale, nella P.D.L. si rinvengono, poi, norme che disciplinano l’esercizio del diritto di autodeterminazione terapeutica con un contenuto specifico. È, ad esempio, chiaramente una norma di tale natura quella dettata dall’art. 4, comma 4, dove si prevede che «la persona in possesso dei requisiti autorizzata ad accedere al suicidio medicalmente assistito può decidere in ogni momento di sospendere, posticipare o annullare l’erogazione del trattamento». Questa norma definisce, con portata normativa autonoma, il possibile contenuto della volontà del malato che ha già formulata la richiesta di suicidio assistito e che può chiedere la sospensione o il posticipo o l’annullamento della procedura. Sia detto incidentalmente che la previsione di una norma che consente di posticipare il trattamento, senza avviare ex novo l’intervento della Commissione e/o del Comitato etico, è chiaro indice del fatto che il requisito dell’attualità del consenso non è apparso così stringente e importante al legislatore proponente – il che desta non poche preoccupazioni – posto che, in caso di richiesta di posticipo, sarebbe proprio il principio dell’autodeterminazione individuale ad esigere l’avvio di una nuova procedura di verifica sulla sussistenza attuale dei requisiti, ai sensi dell’art. 2, comma 2.
  3. In terzo luogo, è corretto dire che la P.D.L. contiene una disciplina autonoma in materia di autodeterminazione terapeutica perché non richiama, diversamente da quanto fa la sentenza n. 242/2019, le norme di cui agli artt. 1 e 2, L. 219/2017, cui la Corte costituzionale aveva rinviato per indicare le modalità della condotta non punibile di agevolazione del suicidio, in presenza degli altri requisiti indicati nel dispositivo. L’omesso rinvio, sul piano strettamente normativo, non consente pertanto di ritenere vincolante l’applicazione dei due articoli di cui alla L. 219. Né si può dire che tali requisiti si debbano applicare in via analogica perché essendo requisiti che concorrono ad un effetto di non punibilità sul piano criminale, l’applicazione analogica avrebbe effetti in malam partem ed è quindi senz’altro esclusa dal principio di stretta legalità vigente nell’ordinamento penale (art. 25, 2° co., Cost.). Il richiamo, fatto dalla sentenza n. 242/2019, alla L. 219 è tutt’altro che formula “di stile”; la condotta agevolatrice, infatti, è non punibile solo se, in presenza degli altri requisiti di cui al dispositivo, è realizzata nel rispetto dalle modalità di cui agli artt. 1 e 2, che dettano norme in materia di:

– raccolta della volontà del malato (art. 1, comma 1);

– promozione e valorizzazione della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, con eventuale coinvolgimento dei familiari (art. 1, comma 2);

– contenuto dell’atto del consenso informato (compreso il diritto di rifiutare l’informazione) (art. 1, comma 3);

– modi di manifestazione del consenso informato (art. 1, comma 4);

– diritto al rifiuto dell’accertamento diagnostico e della cura; diritto di revoca del consenso alla cura; diritto alla interruzione del trattamento (art. 1, comma 5);

– in caso di rifiuto: a) obbligo per il medico di “informazione rafforzata” sulle conseguenze del rifiuto; b) promozione di possibile alternativa di cura e di ogni azione di sostegno al paziente (anche psicologica) (art. 1, comma 5); obbligo per il medico di astenersi/interrompere la cura e conseguente esenzione di sua responsabilità (art. 1, comma 6);

– superamento della regola dell’autodeterminazione terapeutica per le situazioni di emergenza o di urgenza (art. 1, comma 7);

– obbligo per medico di alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto del trattamento o di revoca del consenso del paziente (art. 2, comma 1);

– diritto del malato alla terapia del dolore e all’erogazione delle cure palliative (art. 2, comma 1)

– divieto per il medico di accanimento terapeutico (art. 2, comma 2);

– legittimità della sedazione profonda associata alla cura in caso di sofferenze refrattarie alla terapia, con consenso del paziente.

 

  1. Infine, la P.D.L. investe la materia dell’autodeterminazione terapeutica perché, modificando il requisito contenuto nella sentenza Antoniani/Cappato, all’art. 2, 1° co., lett. d), stabilisce che possono accedere al suicidio assistito le persone «che esprimono un proposito di suicidio formatosi in modo libero e autonomo, chiaro e univoco». I criteri della chiarezza e della univocità, che di per sé possono apparire anche opportuni, vengono qui richiamati per sottolineare ancora una volta il contenuto innovativo della P.D.L. rispetto al diritto vivente, dal momento che sono sì presenti nella P.D.L., ma non nella sentenza n. 242/2019.

Chiarito che la P.D.L. n. 295 certamente investe la materia dell’autodeterminazione terapeutica, non limitandosi a recepire (come da taluni ritenuto) il diritto vivente successivo alla sentenza n. 242, ma piuttosto innovandolo, si deve valutare se detta materia, cioè l’autodeterminazione terapeutica possa essere regolata da una fonte regionale. A tale quesito ha, in realtà, già risposto in senso negativo la Corte costituzionale con la sentenza n. 438/2008, che ha censurato, dichiarandola incostituzionale, proprio una legge della Regione Piemonte, la legge regionale 6-11-2007, n. 21, il cui art. 3 dettava norme sulla prestazione del consenso informato (in tal caso dei genitori o dei tutori per l’uso di sostanze psicotrope sui bambini o adolescenti) e le relative modalità.

In quella sentenza, la Corte costituzionale spiegava: la «circostanza che il consenso informato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione; discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale» (massima n. 33086 da www.cortecostituzionale.it). Pertanto, la legge della Regione Piemonte era dichiarata in contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, 2° comma, lett. m), Cost. laddove si prevede la competenza esclusiva dello Stato per legiferare in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

Se quanto detto è valso, nel 2008, rispetto alla disciplina del consenso informato in vista della somministrazione di una cura, a fortiori si deve ritenere che sia rimessa in via esclusiva alla legge statale la normazione avente ad oggetto condizioni e conseguenze dell’atto di rinuncia alla cura e di richiesta di suicidio assistito, che rappresentano l’espressione più tragica e radicale (e, quindi, l’ipotesi normativa più complessa) di autodeterminazione terapeutica.

In tempi più recenti, la Corte costituzionale ha poi affrontato la questione di compatibilità con l’art. 117, 2° comma, lett. l) Cost., di talune norme contenute nella legge della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia 13-3-2015, n. 4 [Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti] nonché nella legge 10-7-2015, n. 16 recante integrazioni e modificazioni alla legge n. 4 cit. La Corte costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 117, 2° comma, lett. l) Cost., affermando:

«Data la sua incidenza su aspetti essenziali della identità e integrità della persona, una normativa – necessariamente articolata – in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita […] necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento civile”. Ne consegue che, pur avendo il legislatore statale disciplinato finora solo la donazione di tessuti e organi (legge n. 91 del 1999), l’attuale mancanza di una normativa nazionale relativa alle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario non vale in alcun modo a giustificare l’interferenza della legislazione regionale».

La decisione del 2016, che ha escluso che la Regione abbia competenza per legiferare in materia di DAT, rappresenta un precedente particolarmente chiaro e sicuro per affermare che ad analoga conclusione si deve giungere anche rispetto alla odierna P.D.L. che ha ad oggetto modalità e tempi dell’erogazione del suicidio assistito. Se, infatti, per usare le parole della Corte, il tema delle disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita ha incidenza su aspetti essenziali della identità e integrità della persona e, pertanto, rientra nella materia dell’ordinamento civile riservato in via esclusiva alla legge dello Stato, ciò è vero, a maggior ragione, rispetto alla richiesta del suicidio assistito.

Alla luce di quanto si è detto, appare corretto affermare che, su di un piano strettamente tecnico, la disciplina di cui alla P.D.L. sulle modalità e sui tempi dell’erogazione dei trattamenti di suicidio assistito non possa essere dettata da una legge regionale, per contrasto con l’art. 117, 2° comma, lett. l) e lett. m), Cost. Ciò è indubitabile se si considera in particolare la portata modificativa della P.D.L. rispetto all’apporto della Corte costituzionale di cui alla sentenza n. 242.

  1. L’incertezza nella definizione di “trattamento di sostegno vitale” e preclusione di una definizione del requisito da parte della legge regionale

L’esigenza di uniformità di disciplina, quale garanzia di eguaglianza, è resa ancora più cogente dal fatto che il requisito del trattamento di sostegno vitale, quale requisito indicato dalla sentenza n. 242/2019, e nella P.D.L., all’art. 2, comma 1, lett. b), è oggi fatto oggetto di una lettura assai ondivaga dagli operatori del diritto.

La sentenza n. 242, peraltro richiamando l’ordinanza n. 207/2018, aveva individuato il trattamento di sostegno vitale nella ventilazione, nell’idratazione e nell’alimentazione artificiale (cfr. punto 2.3. del Considerato in diritto). Un noto quanto tragico caso della giurisprudenza di merito ne ha invece vistosamente ampliato i contorni, facendovi rientrare anche il trattamento, diverso da quello di sostegno per l’attività respiratoria, cardiocircolatoria o renale, in assenza del quale il malato andrebbe incontro alla morte (cfr. C. Ass. Massa, sent. 27 luglio 2020, dep. 2 settembre 2020; confermata da Corte di assise d’appello di Genova, 28 aprile 2021, dep. 20 maggio 2021, c.d. “caso Trentini”), specificamente ravvisando nella terapia farmacologica in atto e nelle operazioni di evacuazione intestinale la sussistenza del trattamento di sostegno vitale.

A breve, come noto, la Corte costituzionale dovrà esprimersi di nuovo sulla q.l.c. dell’art. 580 c.p., sollevata dal Tribunale di Firenze, il quale ritiene che sia irragionevole, e pertanto violi, tra gli altri, l’art. 3 Cost., esigere, ai fini della non punibilità dell’aiuto al suicidio, l’attivazione previa di un trattamento di sostegno vitale.

Le incertezze applicative cui ora si è fatto solo cenno rispetto al significato da attribuire al requisito “trattamento di sostegno vitale” – requisito che, peraltro, ha immediati effetti in materia penale – evidenziano ancor di più come l’intervento di una legge regionale (e, pertanto, di più leggi regionali) sarebbe fonte di una parcellizzazione di disciplina, in grave contrasto con l’art. 117, 2° co., lett. l) Cost. Né, per far fronte a tale incertezza, la legge regionale potrebbe definire cosa sia il trattamento di sostegno vitale, appartenendo senz’altro tale definizione alla materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato.

  1. Le cure palliative

La P.D.L. non contiene un richiamo esplicito alle cure palliative, come prerequisito all’accesso alla richiesta di suicidio assistito. È pur vero che l’art. 3, comma 4, recita: «in caso di rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa e di ogni altra soluzione praticabile ai sensi della legge 22 dicembre 2017, n. 219...» e che, tra le soluzioni contemplate dalla L. n. 219, vi sono anche le cure palliative. Tuttavia, l’art. 2 P.D.L. si discosta dal dispositivo della sentenza n. 242, la quale richiede che l’agevolazione dell’altrui al suicidio, ai fini della non punibilità, avvenga nelle modalità di cui agli artt. 1 e 2, L. 219/2017. Ed è proprio l’art. 2, 1° co., L. 219 che garantisce, apertis verbis, al paziente l’accesso alle cure palliative, definito dalla Organizzazione mondiale della sanità, un diritto umano fondamentale, come si legge nel parere sulle cure palliative del Comitato nazionale di Bioetica del 14 dicembre 2023[2].

Il previo coinvolgimento in un percorso di cure palliative è quindi, nell’impianto della sentenza n. 242, un imprescindibile pre-requisito di non punibilità che, pur non essendo escluso nella P.D.L., non viene valorizzato né promosso dal testo in esame, come invece richiede la sentenza costituzionale. Per tale motivo, la P.D.L. appare poco propensa non solo ad una lettura integrale del dispositivo della sentenza n. 242, ma anche a recepire lo spirito di quella decisione che rivolge grande attenzione al tema della palliazione, esprimendo per tale soluzione una netta preferenza rispetto a quella del suicidio assistito.

Si legge nella sentenza n. 242:

«Deve quindi, infine, essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele affinché “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza […] in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010”. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (come già prefigurato dall’ordinanza n. 207 del 2018). Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019 («Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito»), il Comitato nazionale per la bioetica, pur nella varietà delle posizioni espresse sulla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, ha sottolineato, all’unanimità, che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore – che oggi sconta “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie” – dovrebbe rappresentare, invece, “una priorità assoluta per le politiche della sanità”. Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative».

La P.D.L. non menzionando le cure palliative – certo neppure escludendole, perché esse rientrano tra i rimedi offerti dalla L. 219 – svela, accanto alla già rilevata carenza su di un piano tecnico (la materia, come si è detto, non è di competenza delle Regioni), anche la sua inadeguatezza su di un piano politico, perché disattende gravemente il dovere costituzionale di solidarietà, elemento aggregante di una comunità umana. L’alternativa che il sistema sanitario italiano deve poter offrire al malato sofferente non è la richiesta di morte, neppure dopo la sentenza n. 242, ma la cura del dolore, insieme alla tutela della vita, a riprova del fatto che, per lo Stato italiano e per le sue Regioni, ogni vita umana è degna di essere vissuta e protetta.

La priorità anche politica non è, dunque, favorire l’accesso alla morte, ma curare la sofferenza.

Grazie per l’attenzione,

Carmelo Leotta

 

[1] Per mera comodità si riporta il testo del dispositivo della sentenza n. 242/2019, con cui la Corte costituzionale «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

 

[2] Cfr. https://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri/cure-palliative/#:~:text=Nella%20sezione%20iniziale%20del%20Parere,misurano%20con%20patologie%20cronico%2Devolutive.

 

Carmelo Leotta

Prof. associato di diritto penale – Università degli Studi Europea di Roma

Avvocato del Foro di Torino

carmelo.leotta@unier.it  

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