CARITAS IN VERITATE 1 / Lo sguardo del filosofo
NUOVA CONSAPEVOLEZZA: L’UOMO
PUO’ VALERE DI PIU’, ESSERE DI PIU’
di Paola Ricci Sindoni*
E’ sul terreno della valorizzazione dell’uomo e delle sue potenzialità antropologiche che la Caritas in veritate è convinta di avere una “parola da dire”, una parola di sua competenza che sa e che deve comunicare, e che consegna a quanti hanno il compito di concordarla con le altre parole. Una parola che non intende essere consolatoria, astratta o disarticolata, all’interno della complessa grammatica della vita sociale globalizzata, né presume di proporsi come scudo difensivo che faccia da gendarme alle dinamiche sociali e politiche, quanto piuttosto di esibire la sua marcatura teologica, il suo essere cioè discorso di Dio sull’uomo, così che l’operare umano rispecchi il punto di vista di Dio.
L’attenzione del Pontefice, insomma, quando interviene sulla centralità dell’uomo e del suo bisogno di essere di più, è soprattutto rivolta a valorizzare il rapporto trascendente della persona con Dio, senza cui diventa per lui improponibile ogni configurazione dell’umano. Questo, diciamo così, apriori metafisico, è l’indubitabile segno del carattere teologico della Caritas in veritate, che comunque non si ferma all’approfondimento della relazione “verticale”, ma si orienta decisamente a rintracciare quel di più nelle complesse trame delle dinamiche economico-sociali.
Questo nesso va colto e ben compreso, per evitare – come è capitato – che i commenti all’enciclica si fermino o sul primo polo, convinto che il documento papale sia una riflessione che rimane valida solo all’interno della comunità dei credenti, o sul secondo, che riduce l’enciclica ad una lettura etico-sociale delle problematiche attuali.
L’aver colto la struttura relazionale dell’uomo, nel rispetto costante della vita, soprattutto in riferimento alle grandi tematiche bioetiche di inizio e fine esistenza, è già una preziosa indicazione di come l’enciclica garantisca un canale di incontro tra la scienza, l’antropologia, le scienze sociali, senza cadere nella demonizzazione della tecnica, quanto vedendo quest’ultima come strumento necessario – se ben utilizzato – per garantire il progresso individuale e sociale.
Ogni esperienza umana, sia scientifica, politica o culturale, non può che essere ricondotta a questa “verità” sull’uomo; se si dimentica questo orizzonte – sembra dire Caritas in veritate – ogni ricerca sfuma nel delirio d’onnipotenza e può malamente condurre al nichilismo.
L’autentica “dignità” dell’uomo – lo ripete spesso l’enciclica ( cfr. nn.74-75) – non può essere guadagnata dagli obiettivi della scienza o dai traguardi della cultura, né da qualsiasi altro progetto sociale o politico ( come drammaticamente hanno insegnato le ideologie del Novecento), ma indicata dalla “Ragione creatrice” che ha voluto l’uomo per pura volontà di Bene e che continua ad orientarlo nella scelta di questo medesimo Bene.
La “questione antropologica” che guida l’enciclica non si riduce perciò ad un diktat etico, avulso dal desiderio umano, ma si sostanzia della ricerca costante di ciò che è “degno” di ciascun uomo, che è di più e che viene prima ogni presunto valore scientifico o sociale.
Questo sguardo sereno e pacato sul mondo e su coloro che lo abitano è di sicuro il messaggio più confortante di questo dono del Papa.
*Ordinario filosofia morale, Università di Messina, vice presidente Scienza & Vita
CARITAS IN VERITATE 2 / Lo sguardo del giurista
LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
INTERPELLA LA DEMOCRAZIA
di Luciano Eusebi*
L’enciclica Caritas in veritate colloca la bioetica entro l’ambito, che le è proprio, della premura complessiva manifestata dalla Chiesa per la questione antropologica, ovvero – in altra ottica – per un’affermazione autentica del concetto di democrazia. Non vi può essere, in questo senso, un interesse per i problemi bioetici scisso da quello per la giustizia sociale, economica, internazionale. Come non vi può essere un interesse per i poveri che prescinda da quello per la vita umana in ogni sua condizione.
Quel che è proprio dell’umano si esprime attraverso il corpo. La realtà umana, nei suoi profili biologici e meta-biologici, è infatti unitaria. Da quando e fino a quando va svolgendosi una vita appartenente alla specie umana è in gioco, pertanto, la presenza dell’umano e della sua dignità. Si potrà trattare di una vita segnata dalla malattia, dall’indigenza o, perfino, dalla colpa: ma essa resterà sempre tale da identificare un «tu», cioè un portatore di esigenze relazionali proprie della comunità umana. Così che, ove il comportamento verso un individuo umano manchi di corrispondere alle suddette esigenze, non ne deriva solo una deprivazione per il medesimo, ma anche una non realizzazione esistenziale per chi avrebbe potuto agire umanamente e non l’ha fatto.
Già a una mera considerazione empirica, peraltro, l’essere umano non si produce «da se stesso» (n. 74). Ciascuno si ritrova in vita: in una vita che procede per forza propria. In nessun momento dà impulso alla sua vita, ma può solo salvaguardarla. L’esistenza ha, intrinsecamente, la natura di un dono, che si perpetua, senza origine umana, rendendo non conforme a umanità l’idea di un dominio tecnico sulle caratteristiche esistenziali di un altro individuo, e il cui momento generativo è posto, non a caso, nell’ambito di una relazione personale orientata all’amore.
Ma vi è un altro aspetto da non trascurare: «in ogni conoscenza e in ogni atto d’amore – così afferma Benedetto XVI – l’anima dell’uomo sperimenta un di più che assomiglia molto a un dono ricevuto» e che «non si spiega con la semplice materia» (n. 77). Ciò rimanda all’esperienza etica, ovvero alla capacità di riconoscere, oltre alle leggi immodificabili della natura, anche «una legge naturale» capace di offrire criteri all’esercizio della capacità tipica degli esseri umani di perseguire mete sempre nuove: così che l’uomo trova la sua grandezza nell’attitudine a cogliere il bene (n. 75). Ciò, tuttavia, rimanda altresì alla dimensione spirituale, cioè alla coscienza di una soggettività non identificabile con la materia, tale per cui si deve ammettere che «lo sviluppo dell’uomo e dei popoli dipende anche dalla soluzione di problemi di carattere spirituale» (n. 76). In radice, si tratta, secondo l’enciclica, di scongiurare la chiusura alla trascendenza, posto che «la razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra, però, irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore»: quel senso e quel valore che trovano la loro fonte nella «Ragione creatrice» divina, così da risultarne ribadita l’alleanza di fede e ragione per rispondere ai problemi che assillano l’umanità (n. 74).
Nel quadro delineato l’enciclica indica come filo conduttore dei maggiori rischi per il futuro in materia bioetica, quanto alla tutela della dignità umana, il diffondersi di una «concezione materiale e meccanicistica della vita»: concezione che apre al «dominio» su di essa sia attraverso la pratica da tempo diffusa dell’aborto, sia attraverso la prospettiva, già in nuce, di una «sistematica pianificazione eugenetica delle nascite» e il radicarsi di una vera e propria «mens eutanasica» (n. 75); profili cui si affianca la riflessione, in parte nuova, sui rischi del riduzionismo psicologico e neurologico (n. 76).
Si tratta di richiami che assumono il grave significato di un monito profetico, non già in nome della tutela di esigenze puramente religiose, ma come espressione di quel medesimo ruolo che la Chiesa assume quando alza la sua voce sui temi tradizionali della dottrina sociale, a salvaguardia esclusiva, nei confronti di tutti gli interessi in gioco, della dignità dei più deboli. «Stupisce – osserva con amarezza Benedetto XVI – la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’umano» (n. 75).
*Ordinario di diritto penale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza, consigliere Scienza & Vita
Il tentativo di attribuire alle volontà carattere pubblico e vincolante
REGISTRI DEI TESTAMENTI BIOLOGICI
L’INVASIONE DI CAMPO DEI COMUNI
di Lorenza Violini*
Mentre in Parlamento si sta faticosamente tentando di imprimere un’accelerazione all’approvazione definitiva del disegno di legge in tema di fine vita già approvato dal Senato, in alcuni Comuni si è tornato a discutere di un tema alquanto delicato e controverso: l’istituzione di appositi registri comunali in cui autenticare, conferire un riconoscimento giuridico e conservare le proprie dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il punto centrale di tutto il dibattito è sicuramente quello della compatibilità delle decisioni comunali con il principio di legalità dell’azione amministrativa; inoltre si tratta di stabilire quale sia il valore giuridico di tali dichiarazioni.
Per rispondere a tali questioni, come non fare riferimento ad alcune prescrizioni del nostro ordinamento che concorrono a sancire l’indisponibilità del bene vita? Come si può ignorare norme di fronte a disposizioni che fanno divieto di disporre del proprio corpo in modo da comportare una diminuzione permanente dell’integrità fisica (articolo 5 c.c.), come restare indifferenti di fronte a norme che sanzionano l’omicidio di persona consenziente, l’istigazione al suicidio e l’omissione di soccorso?
E ancora: con quale autorità un Comune può pretendere di disciplinare un argomento così delicato, che richiede una dimensione unitaria, quale quello sul fine vita e quindi, anche se indirettamente, sul valore e sulla portata di tale diritto fondamentale alla vita al posto del Parlamento, che solo ne avrebbe la competenza?
Ma soprattutto, su quali basi si può imporre al medico di abbandonare la posizione di garanzia di cui è titolare? Potrebbe il primato assoluto della volontà del soggetto, il suo diritto all’autodeterminazione terapeutica – persino nelle sue proiezioni verso il futuro – mandare in frantumi gli obblighi di cui è detentore il sanitario?
In mancanza di una normativa specifica che modifichi lo status quo con le conseguenti responsabilità del medico di fronte al proprio paziente, non si può infatti applicare altra disciplina se non quella dettata dall’articolo 40 cpv del codice penale in virtù del quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. E quale obbligo giuridico è configurabile in capo al medico se non quello di prendersi cura della salute del paziente, nel contesto di un’alleanza terapeutica, così come sancito sia dalla stessa disposizione costituzionale dell’articolo 32, che dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario nazionale, che infine dal contratto intercorrente tra paziente e struttura ospedaliera o direttamente tra medico e paziente? Qualora un trattamento si configuri proporzionato, conforme alle regole dell’ars medica e, a fortiori, salvavita, il medico è tenuto a fare uso di tutti gli strumenti di sostegno e di persuasione di cui dispone tendendo alla salvaguardia della salute del proprio paziente.
Non si può chiedere ad un medico di diventare parte di una relazione orientata alla morte invece di rivestire il ruolo di protagonista di una relazione orientata alla vita e allo stesso modo non si può conferire efficacia giuridica a norme e provvedimenti che, con un intento marcatamente ideologico, cercano di superare il Parlamento nazionale ponendosi in contrasto con tutti quei principi che caratterizzano l’ordinamento vigente.
* Ordinario di diritto costituzionale e diritto pubblico comparato, Università Studi Milano, consigliere Scienza & Vita
LIBERI PER VIVERE 1 / Neppure il caldo soffocante ferma la campagna
DUE SERE D’ESTATE, IN PUGLIA
A PARLARE DI FINE VITA
di Domenico Delle Foglie
Reduce da due incontri in Puglia nel mese di luglio per la campagna “Liberi per Vivere” (sottolineo luglio solo perché gli italiani sono già in spiaggia o in montagna), vale la pena mettere in comune alcune considerazioni.
Il Manifesto di “Liberi per Vivere” ha la capacità di smuovere risorse intellettuali e organizzative in ogni angolo d’Italia, con una predilezione per i borghi e le comunità più piccole.
La devozione del luogo è un prodotto spontaneo della religiosità contadina e parlare in questa chiesetta romanica a un pubblico attentissimo, nonostante il caldo soffocante di una serata pugliese, è un’esperienza indimenticabile. Negli sguardi e nelle domande c’è tutta la voglia di farsi protagonisti anche per rinnovare insieme il valore della vita, soprattutto nella fase del suo tramonto. C’era preoccupazione, prima dell’incontro: chissà se l’invito sarà accolto… Eravamo in tanti, ma come ho detto aprendo la serata, mi sarei mosso anche solo per cinque persone. E’ questa la forza di “Liberi per Vivere”: dobbiamo incontrare il popolo, occorre parlare agli italiani e raggiungerli con la nostra proposta. E’ il compito che ci siamo dati. Così cerchiamo di mantenere fede all’impegno che abbiamo sottoscritto con il Manifesto.
Cambiamo scena: la settimana successiva sono a Monopoli, su invito di Mimmo Muolo, giornalista di Avvenire, organizzatore di eventi estivi nella bellissima cittadina del Barese. Piazza Palmieri che ci ospita è una quinta teatrale. Qui, dinanzi a oltre un centinaio di spettatori attentissimi, Muolo mi intervista sul fine vita e sul Manifesto. Un silenzio straordinario accompagna la lunga conversazione, in cui ha un ruolo di primo piano la vicenda dolorosissima di Eluana Englaro. Segue la presentazione di alcuni libri editi da due vivaci case editrici pugliesi (Vivere In e Schena) che richiamano il valore della vita.
Concludo la mia serata con la consapevolezza che ci vuole un bel coraggio per invitare il pubblico a riflettere su temi così impegnativi, in piena estate. Mi rincuorano non solo il coraggio degli organizzatori, ma anche l’interesse che questo nostro Manifesto suscita in ogni angolo d’Italia. Dappertutto, ci dicono gli amici che si adoperano nell’organizzare eventi e incontri, l’attenzione è altissima. Dunque, non ci fermeremo. La nostra campagna va avanti, non si ferma neppure ad agosto come ben testimonia il calendario degli incontri, e riprenderà a pieno ritmo a settembre per proseguire con slancio sino alla fine dell’anno. Ogni incontro, anche con una piccola porzione di popolo, sarà un tassello posto nella costruzione di una mentalità condivisa a favore della vita e soprattutto a sua tutela nella condizione di massima fragilità.
E’ il nostro modo, quello che privilegiamo, per partecipare al dibattito pubblico sul fine vita e per preparare magari una sorpresina ai sostenitori di eutanasia e testamento biologico. Così partecipiamo alla costruzione di quel senso comune degli italiani che, a dispetto di certe fughe in avanti, noi scommettiamo essere riconducibile nella cornice del “favor vitae”. Che a buon diritto può ispirare anche una sana e corretta legislazione sul fine vita.
LIBERI PER VIVERE 2 / L’oncologo a confronto con il Manifesto
MEDICINA PALLIATIVA E TERAPIE DEL DOLORE
SBARRANO LA STRADA ALL’EUTANASIA
di Arturo Cuomo*
Il manifesto “Liberi per Vivere” dell’Associazione “Scienza & Vita” esprime un chiaro “si” alla medicina palliativa. Le motivazioni riportate sono diverse e, sinteticamente, riconducibili a due considerazioni immediatamente condivisibili sia sotto il profilo della ricerca biomedica sia della riflessione bioetica razionale: esistono malattie inguaribili ma non esistono malattie incurabili; ogni persona ha diritto ad andare incontro alla fine dei propri giorni senza la schiavitù del dolore.
Questo interesse segna il superamento del falso positivismo che per anni ha accompagnato la medicina e che ha portato ad evidenziare solo i successi fino a sconfinare nel cosiddetto “oltranzismo” terapeutico, ovvero “medicina fatta per guarire e combattere la morte”. Altrimenti al medico non restava che ricorrere alla classica espressione “non c’è più niente da fare”, significando tutto l’abbandono in cui era “gettato” il paziente, in balìa della solitudine, del dolore e della sofferenza, della disperazione legata alla consapevolezza di una morte ineluttabile ed imminente.
Ogni uomo, per quanto malato in fase terminale in un processo che può durare anche a lungo con sofferenze fisiche e morali spesso inaccettabili, vuole poter vivere quanto gli resta senza doversi disperare: non si ha paura della morte ma del morire.
In realtà, anche quando non c’è più niente da fare per curare la malattia c’è ancora molto da fare: “prendersi cura” della persona, che è essere umano vivente fino alla morte, nella sua complessità e dignità di umano, intervenendo sui suoi bisogni fisici, psicologici, emotivi, relazionali, spirituali. E’ questo lo scopo delle cure palliative: medicina rivolta ai trattamenti dei sintomi – e non a guarire -, che pone al centro del suo intervento la persona colpita dalla malattia – e non la malattia che ha colpito la persona – e che, pertanto, non cura ma si fa carico “prendendosi cura” nel riconoscimento e nella tutela della qualità della vita e della sua intrinseca dignità.
Le cure palliative, secondo lo statuto dell’Associazione Europea per le Cure Palliative, “consistono nell’assistenza attiva e totale dei pazienti terminali quando la malattia non risponde più alle terapie ed il controllo del dolore, dei sintomi, degli aspetti emotivi e spirituali e dei problemi sociali diventa predominante […]. Le cure palliative hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il paziente, la sua famiglia e la comunità in generale[…] provvedendo alle necessità dei pazienti in qualsiasi luogo si trovino o abbiano scelto per essere curati, al domicilio o in ambito ospedaliero […]. Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di garantire la migliore qualità di vita, sino alla fine”.
Quanto più siamo in grado di aumentare quantitativamente e qualitativamente l’offerta assistenziale di terapia del dolore e cure palliative, quanto più evitiamo la solitudine, l’angoscia e il senso di ineluttabilità legato alla sofferenza e al dolore, quanto più siamo in grado di soddisfare i bisogni fisici e psicoemotivi, relazionali, sociali e spirituali dei malati inguaribili, tanto ridotte saranno le derive della mens eutanasica così le istanze di abbandono della “cura”. Si evince, pertanto, che il problema è sì di tipo assistenziale ma ancor prima di tipo culturale ed organizzativo e che ci interpella in ambito di politiche sociali e sanitarie.
Per troppo tempo in Italia si è data scarsa attenzione alla terapia del dolore e alla lotta alla sofferenza inutile, tanto che siamo agli ultimi posti in Europa nella spesa annua per gli oppioidi destinati alla terapia del dolore (eppure non esiste dolore, per quanto grande, che non possa essere trattato adeguatamente) e solo il 22% degli italiani è in grado di definire correttamente cosa sono e cosa riguardano le cure palliative (nonostante ogni Ospedale ed ogni ASL disponga di un Centro di Terapia del Dolore e Cure Palliative ed al dicembre 2008 risultino attivi oltre 200 Hospice, ancora insufficienti, su tutto il territorio nazionale).
Ma il 20 giugno 2009 segna un traguardo importante per i milioni di pazienti che soffrono di dolore cronico: in tale data è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n°141 l’ordinanza ministeriale che consente la possibilità di prescrivere gran parte degli oppiacei utilizzati nella terapia del dolore attraverso l’utilizzo della ricetta ordinaria del SSN. Cade, quindi, l’obbligo della prescrizione su ricettario speciale e l’accesso alla terapia con oppioidi viene molto facilitato.
In conclusione, possiamo certamente riconoscere che ogni essere umano ha diritto a non soffrire, specialmente quando la sofferenza è evitabile e senza ricorrere ad accanimenti o abbandoni.
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Responsabile Struttura Dipartimentale di Terapia Antalgica – Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori “G. Pascale” – NapoliLa calendarizzazione alla Camera subito dopo la pausa estiva
LEGGE SUL FINE VITA
ACCELERAZIONE IN VISTA
di Ilaria Nava
Sono ancora in una fase di discussione generale i componenti della Commissione Affari Sociali della Camera, che nelle ultime sedute hanno affrontato il tema delle “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”.
Un confronto che prevede ancora tre giornate di lavoro prima della pausa estiva, nelle quali è probabile verranno fissate alcune condizioni di sostanza e di metodo relativamente a questo tema, calendarizzato in commissione subito dopo l’approvazione del ddl sulle cure palliative che andrà presto in Aula. La prima questione riguarda il testo da adottare come punto di partenza. E’ probabile che nella seduta di oggi pomeriggio (martedì) si stabilirà se dare corsia preferenziale al ddl già approvato al Senato – ipotesi più accreditata, per ovvie ragioni, soprattutto nella maggioranza tranne qualche defezione come quella dell’azzurro Della Vedova – oppure se si procederà all’elaborazione di un testo unificato che tenga conto della varie proposte avanzate (in tutto 11). E se qualcuno, come Livia Turco, ritiene che la scelta di partire dal ddl Calabrò non favorisca il dialogo, c’è chi, come Rocco Buttiglione, ritiene irragionevole procedere come se il lavoro svolto in Senato non esistesse, anche in considerazione del fatto che quel progetto di legge esprime già, in certa misura, la volontà popolare.
L’altro aspetto da chiarire è quello relativo all’opportunità di procedere o meno alle audizioni, sulle quali emerge tra i deputati qualche divergenza; sia nella maggioranza sia nell’opposizione c’è chi vorrebbe svolgerle preliminarmente e chi invece suggerisce di acquisire i testi delle audizioni già realizzate al Senato. Infine, entro la seduta di giovedì si dovrebbe anche definire la tempistica, anche alla luce delle determinazioni prese sulle questioni di metodo ancora da decidere. Vero è che, come ha sottolineato la pidiellina Carla Castellani, il progetto di legge approvato in Senato rappresenta già il frutto di una sintesi tra varie proposte, ma che in ogni caso il principale punto di dissenso è costituito dalle decisioni su alimentazione e idratazione. A questo proposito Livia Turco ha prontamente esibito il controverso documento approvato a Terni dalla Fnomceo, la Federazione nazionale Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri. L’approvazione di tale documento è stata seguita (e non preceduta come avrebbe dovuto essere) da un’accesa discussione tra alcuni Ordini provinciali, tra cui Roma Milano e Bologna, che hanno visto approvato dalla propria Federazione un documento nel quale non si identificano, mai discusso e mai votato, dove si afferma senza mezzi termini e senza possibilità di appello, la natura sanitaria dell’alimentazione e idratazione artificiali e quindi la doverosità di inserire nelle Dat la possibilità di sospenderle. A tal proposito sembra significativo quanto affermato dall’On. Paola Binetti in commissione, quando ha auspicato che il problema dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali “non sia ridotto alla questione della sua natura sanitaria o non sanitaria, dal momento che l’epilogo della vicenda Englaro ha mostrato, al di là di ogni distinzione teorica, che l’interruzione di tali trattamenti provoca in tempi rapidi il decesso del paziente”.
Tre film contro l’eutanasia, ma tutti degli anni Settanta
QUANDO È LA SOCIETÀ
A VOLERCI MORTI
di Umberto Folena
Inutile negarlo. I tre film contro l’eutanasia di questa puntata hanno una qualità inferiore ai quattro a favore del mese scorso. Appartengono più al racconto popolare e in due casi sono decisamente di genere, ossia di fantascienza (science fiction, sf): sf i film, sf i romanzi da cui sono tratti. Se tre dei film a favore su quattro sono recenti, ossia rispecchiano una tendenza culturale che sgomita prepotente nell’ultimo decennio, i film contrari sono tutti degli anni Settanta e in gran parte si ispirano alla sf sociologica degli anni Sessanta.
La sf sociologica mostrava il futuro per ammonire gli uomini del presente. E a volte centrava il problema. La fuga di Logan è diretto nel 1976 da Michael Anderson e si ispira al racconto Largo! Largo! Di William F. Nolan e George Clayton Johnson (1966), autori di una prima sceneggiatura poi abbandonata. Il film comincia con questa didascalia: «Un’epoca imprecisata del XXIII secolo… I superstiti dell’esplosione demografica, dell’inquinamento, delle guerre, vivono in una grande città protetta da una cupola ed esclusa ermeticamente dal mondo esterno, ormai dimenticato. Qui, in un ambiente ecologicamente equilibrato, l’umanità vive solo per il piacere. Resa libera dai servomeccanismi che provvedono a tutto, c’è un solo inconveniente: la vita finisce a 30 anni oppure deve essere rinnovata mediante il grandioso rito del Carousel». Rito che, in realtà, è una forma spettacolare di eutanasia.
Non occorre molta fantasia per cogliere le analogie con il presente. Il nostro Occidente è in gran parte “protetto” dal terzo mondo e gode di un benessere enormemente superiore. E noi siamo sempre più incoraggiati a fare del soddisfacimento del desiderio il primo scopo di vita, tenuti all’oscuro degli orrori degli altri mondi, prigionieri di un’eterna giovinezza. Nel panorama tetro ci sono sempre, però, gli eroi che si ribellano. Logan è un sorvegliante che passa dalla parte dei ribelli, scopre che l’esterno esiste e ci vive un vecchio (Peter Ustinov), a dimostrazione che la vita può non finire a 30 anni, ma può avere un senso e uno scopo anche dopo, sottraendosi alla dittatura delle macchine.
2022 I sopravvissuti, traduzione bislacca dell’originale Soylent green, potrebbe essere l’antefatto di Logan. Il mondo sovrappopolato e devastato – il film è ambientato in una New York di 40 milioni di abitanti, con acqua e cibo razionati, dove gran parte della popolazione dorme in auto sfasciate, sui gradini delle scale dei palazzi, nelle chiese – non riesce più a nutrire la sua popolazione. Così il potere induce i cittadini, poveri e anziani, al suicidio assistito, in confortevoli camere dove sono riprodotti le immagini, i suoni, i profumi di un tempo; e ricicla i cadaveri per produrre il soylent verde, il cibo più popolare, spacciandolo per plancton. Diretto da Richard Fleisher nel 1973, ha Charlton Heston nei panni del poliziotto integerrimo che scopre l’orribile complotto e Edward G. Robinson, nella sua ultima interpretazione prima della morte, nel ruolo di Sol, uomo-libro ormai anziano, che privo di speranza si fa attrarre dalla propaganda patriottica (fate spazio agli altri!) e si reca al Santuario per darsi la morte, dolce e buona davvero, perché “utile”. Qui, l’eutanasia è l’inganno estremo di una società ridotta a divorare se stessa.
Non è certo un capolavoro, infine, I viaggiatori della sera, tratto dal romanzo omonimo del 1976 di Umberto Simonetta, diretto e interpretato da Ugo Tognazzi nel 1979. Diciamo pure che è un film malriuscito, e dopo l’idea iniziale si arena. Ma è italiano e presenta un mondo di anziani ex sessantottini tiranneggiati da una classe dirigente di giovani impeccabili e serissimi, con la loro regola: a 50 anni, gli italiani vengono avviati in appositi villaggi turistici dove passano i loro ultimi giorni. Tanti, troppi? No. Ogni sera c’è una lotteria e il vincitore parte per una crociera fantastica da cui però non tornerà più. La “crociera definitiva”: quei villaggi sono lager e i vincitori si consegnano giulivi alla morte.
Trent’anni fa era un coraggioso film di sinistra; oggi sarebbe un imbarazzante film di destra e forse nessuno lo produrrebbe. Più semplicemente, o profondamente, era ed è un film contro ogni tentativo di alcuni uomini di stabilire un potere di vita e di morte su altri uomini, sia pure con “nobili” scopi. Un film contro il gelido arbitrio di chi, semplicemente, ci si disfa degli altri senza provare emozione alcuna. I figli uccidono i padri, distogliendo lo sguardo, impassibili.
Appuntamenti
I PROSSIMI INCONTRI
SEGNALATI DAI LETTORI
Vi proponiamo gli appuntamenti che ci sono stati segnalati dalle associazioni locali e dagli amici di Scienza & Vita.
Vi ricordiamo che gli eventi sono consultabili al link https://www.scienzaevita.org/appuntamenti.php