In letteratura si distingue tra ectogenesi completa, quando lo sviluppo del nuovo essere umano avviene tutto al di fuori del corpo della donna (dal concepimento alla nascita), ed ectogenesi parziale, nel caso in cui lo sviluppo nell’utero artificiale sia solo per un periodo di tempo limitato. Esempi di ectogenesi parziale sono considerati la fecondazione in vitro (l’embrione, infatti, si sviluppa inizialmente all’esterno dal corpo) e l’incubazione neonatale dei nati pretermine (il prematuro si sviluppa per molte settimane all’esterno del corpo materno).
Grazie alla tecnologia si tenta di porre un ostacolo alla mortalità neonatale associata al parto prematuro: si cerca di offrire un sistema per supportare lo sviluppo del nato. Oggi la ricerca pensa di poter garantire in un prossimo futuro tale sopravvivenza “artificiale” addirittura a partire dalla tredicesima settimana. Queste possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico hanno aperto un dibattito etico più ampio, relativo non solo alla assistenza neonatale intensiva, ma anche alle dirette ripercussioni sul tema dell’aborto: con tali tecnologie sarà possibile per la donna interrompere una gravidanza senza provocare necessariamente la morte dell’embrione? Quest’ultimo, infatti, potrebbe continuare il suo sviluppo nell’utero artificiale. Il tema è estremamente complesso.
A ciò si aggiungono alcuni tentativi di considerare l’ectogenesi completa come una opzione riproduttiva da favorire, come modalità di “sostituzione completa della gestazione” e della gestante alternativa alla maternità surrogata. L’ectogenesi offrirebbe, così, la promessa di rendere la gravidanza nel corpo della donna una scelta facoltativa: la tecnologia potrebbe sostituire completamente la riproduzione biologica. In questo caso non vi sarebbe sfruttamento del corpo delle donne come nel caso della maternità surrogata. A “surrogare” la donna in tutta la gestazione e nel parto sarebbe la macchina: si garantirebbe, così, “l’autonomia riproduttiva” umana, non solo delle coppie che fisiologicamente non possono avere figli ma anche delle coppie dello stesso sesso.
Un recente articolo pubblicato su Bioethics, dal titolo Ectogenesis and the value of gestational ties, affronta nello specifico tale tematica partendo dal presupposto che l’ectogenesi, sostituendo completamente la gravidanza e la gestazione nell’utero materno, non consentirebbe la formazione dei legami che naturalmente si sviluppano nella gravidanza fisiologicamente tra madre e figlio. Con la gestazione “disembodied”, “disincarnata” e artificiale le donne potrebbero divenire madri senza l’uso del proprio corpo, in una prospettiva che ritiene di rendere, così, uguale la condizione dei due genitori. Anche il bambino, secondo tale ricostruzione, ne trarrebbe importanti benefici: nell’utero artificiale sarebbe garantita una migliore alimentazione e cura, non essendo esposto ai potenziali pericoli della crescita nel corpo della donna. L’ectogenesi permetterebbe di promuovere la salute del feto, risultando, così, “l’ambiente gestazionale” ottimale e da preferire.
Con lo sviluppo del feto nell’utero artificiale, il legame madre-figlio quali conseguenze subirebbe? Nell’articolo si riporta che alcuni autori hanno identificato alcuni tratti specifici della relazione madre-figlio che la distinguono dalle altre relazioni: tra i quali, in particolare, la vulnerabilità del figlio, il cui benessere dipende dalla madre stessa e la qualità unica del legame, segnata dall’amore spontaneo e incondizionato. Alcuni ricercatori escludono, però, che il feto sia da considerare come il figlio nato. Brighouse e Swift sostengono, ad esempio, che la gravidanza non porta alla formazione di una reale relazione intima tra la donna e il figlio: sarebbe invece una relazione animata dalla sola proiezione e dalla fantasia.
Tali considerazioni dimenticano il reale legame di natura anche biologica e fisiologica che si instaura sin da subito tra la donna e il figlio che porta in grembo, che nessun “ambiente ottimale” creato dalla “fredda” tecnologia potrà mai ricreare: l’utero della donna è “l’ambiente” umano che accoglie il figlio. La maternità viene, anche in questo caso, stravolta, considerata – in una prospettiva ideologica – quale “limite” per la donna.
L’ectogenesi completa rischia, non meno della maternità surrogata, di ledere, così, la dignità umana, considerando il bambino come un “oggetto”, mero prodotto di tecniche, manipolabile e “scartabile” secondo logiche eugenetiche: l’embrione sarebbe oggetto di contratti di “gestazione artificiale”, con ricadute antropologiche ed etiche drammatiche.
Gli enti regolatori hanno già iniziato a interrogarsi sull’inizio di una sperimentazione clinica per l’ectogenesi parziale: a settembre 2023 si è riunito il Pediatric Advisory Committee (PAC) della Food and Drug Administration (FDA) statunitense per “discutere i piani di sviluppo appropriati per stabilire la sicurezza e l’efficacia dei dispositivi di tecnologia dell’utero artificiale (AWT) destinati al trattamento di neonati estremamente prematuri, comprese le considerazioni normative ed etiche per gli studi first in human (FIH)” . Il comitato della FDA ha affermato che prima di poter utilizzare questa tecnologia sugli esseri umani, gli scienziati dovranno determinare il modello animale più appropriato per testare l’utero artificiale al fine di raccogliere dati. Gli esperti sostengono che potrebbe essere necessaria anche una discussione sulla definizione di vitalità del feto, cioè sulla capacità di un essere umano di sopravvivere al di fuori dell’utero.
Tali nuovi sviluppi della scienza e della tecnologia, in grado di aprire nuovi scenari antropologici ed etici tutti ancora da investigare, dimostrano, in realtà, un dato presupposto, spesso negato, ma in questo caso reso evidente: l’embrione sin dal concepimento è un soggetto autonomo, appartenente alla specie umana, distinto dalla madre, non mero materiale biologico. Si tratta di un essere umano, unico nel patrimonio genetico, capace per sua natura di uno sviluppo continuo in processi maturativi.
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ultimo aggiornamento il 17 Gennaio 2024