S&V FOCUS | Cure palliative: la via umana della cura nella sofferenza psicologica ed esistenziale GLI APPROFONDIMENTI DI SCIENZA & VITA | Di Francesca Piergentili

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La sofferenza è intollerabile solo se non importa a nessuno”. Così Cicely Saunders si esprimeva nel 1960 a proposito del dolore e della sofferenza del paziente nella fase terminale della vita: un dolore fisico, riconducibile alla patologia di base, in grado di investire tutto l’essere umano, divenendo una profonda sofferenza esistenziale. In questo senso il dolore diventa “totale” (“total pain”), così da richiedere una cura specifica e “totale”, per l’appunto, a partire dall’attenta valutazione dei sintomi che tormentano il paziente e dai suoi bisogni effettivi.

Questo approccio ha rivoluzionato l’assistenza ai pazienti nella malattia inguaribile, inizialmente soprattutto per le patologie oncologiche. L’obiettivo era quello di ridurre al minimo l’angoscia e sostenere realmente e totalmente il paziente sul piano fisico, psicologico ed emotivo, sociale e spirituale. Nella storia delle cure palliative, l’ispirazione originaria, orientata a tale presa in carico totale del paziente, in una dimensione olistica, ha vissuto per molto tempo uno scostamento nella pratica sanitaria: si è, infatti, spesso identificata la palliazione con l’algologia nella fase agonica.

Algos è uno dei due termini utilizzato dai greci per indicare l’esperienza del dolore: un dolore, in questo caso, legato alla dimensione fisica e percettiva. In ambito medico, l’algos è, così, meccanismo di difesa primario nei confronti dell’ambiente interno ed esterno: una sorta di allarme fisiologico, necessario per la stessa sopravvivenza. Il secondo termine utilizzato per il dolore è, invece, pathos, che ricomprende anche la sofferenza emotiva e psichica, indicando proprio il dolore totale a cui faceva riferimento Cicely Saunders: una sofferenza che non ha tempo né è reversibile, definito anche “needless pain”. La funzione del pathos è, allora, diversa da quella dell’algos, ed è propriamente etica e affettiva[1].

Oggi sia nella pratica clinica ma anche in letteratura, si è riscoperta non solo la necessità di estendere l’offerta di cure palliative anche alle fasi non terminali della malattia ma anche l’importanza della multidimensionalità dell’offerta di cure per il dolore totale.

Un recente articolo dal titolo Psychosocial intervention in palliative care: What do psychologists need to know, pubblicato su Journal of Health Psychology mette in evidenza come in letteratura si è dimostrata l’importanza della cura spirituale, psicologica e sociale del paziente nella malattia inguaribile anche per la gestione dei sintomi fisici. Si riporta, inoltre, che la mancanza di una adeguata cura dei bisogni psicologici, sociali e spirituali rappresenta il motivo più comune dietro al desiderio di anticipare la morte nella malattia. I ritardi nell’offerta di cure palliative e la mancanza di interventi psico-sociali possono, invece, contribuire ad aumentare la sofferenza insopportabile del paziente. La persona nella malattia inguaribile può provare senso di solitudine, ansia, paura, tristezza e queste emozioni possono essere vissute anche dai familiari: nella sofferenza emotiva, psicologica ed esistenziale dovuta alla patologia sempre più necessario diventa il sostegno fornito dalla psicologia.

Purtroppo, però, gli psicologi sono raramente integrati nelle equipe di cure palliative e la formazione in tale ambito è ancora scarsa. Lo psicologo nell’équipe di cure palliative dovrebbe supportare il paziente nella ricerca di risposte alle sue domande e attivare un sostegno volto a stimolare il processo di accettazione, cercando di favorire il benessere psico-esistenziale della persona, partendo dall’identificazione dei bisogni specifici.

La ricerca in tale ambito ha sviluppato interventi basati sull’evidenza per le persone con malattia inguaribile o terminale. Già i lavori di Kübler-Ross sull’esperienza di fine vita e del dolore hanno realizzato un modello a cinque fasi dell’elaborazione del morire per aiutare a identificare e capire le dinamiche psicologiche più frequenti che vive la persona a cui è stata diagnosticata una grave malattia: la prima fase che viene definita di “negazione o rifiuto”, la seconda fase “della rabbia”, che investe emotivamente sia i familiari che il personale sanitario, la terza fase “del patteggiamento”, nella quale il paziente inizia a individuare i progetti nei quali porre speranza, la  quarta fase “della depressione”, nella quale il paziente entra in contatto con la sua sofferenza divenendo più consapevole della sua malattia, la quinta fase “dell’accettazione”,  che si manifesta quando il paziente diviene consapevole di ciò che sta accadendo e arriva ad un’accettazione più profonda. Kübler-Ross, come anche Saunders, riteneva indispensabile il dialogo e il poter parlare del proprio fine vita.  Un ruolo fondamentale in questo modello è dato dalla dimensione della speranza, che aiuta nel profondo il paziente a reagire e a cooperare attivamente nella gestione del proprio morire.

Sulla stessa linea, gli sviluppi più recenti includono interventi specificamente progettati per le cure palliative, come ad esempio la Dignity Therapy, un percorso psicoterapeutico, che richiede competenze specifiche e qualificate, inserito in un rigoroso protocollo, destinato al paziente, ma anche ai membri della sua famiglia, in grado di offrire speranza e senso ricordando la piena dignità della vita umana in ogni momento.

L’articolo citato riporta che la terapia cognitivo-comportamentale si sta rilevando una valida modalità di intervento per i vissuti di ansia e di depressione nei pazienti in cure palliative. Uno studio del 2018 ha analizzato le conseguenze della psicoterapia cognitivo-comportamentale sulla depressione e sull’ansia, in un campione di soggetti adulti con gravi patologie, afferenti alle cure palliative: il risultato della ricerca suggerisce che la psicoterapia ha ridotto i sintomi della depressione e dell’ansia, migliorando la vita del paziente. La terapia cognitivo-comportamentale e gli approcci di terza generazione, come ad esempio, la Mindfulness, hanno riportato effetti significativi sulla salute psico-esistenziale del paziente. La psicologia, così, aiuta il singolo ad aprirsi alla relazione, tramite l’ascolto e la compassione.

È, pertanto, indispensabile riconoscere l’importanza della cura globale del paziente vulnerabile nel dolore totale causato dalla malattia, per rispondere alle sue esigenze più profonde ed esistenziali. La logica dell’accompagnamento, sottesa alla medicina palliative, dovrebbe, così, escludere qualsiasi prospettiva di abbandono del paziente nella sofferenza psicologica ed esistenziale causata dalla malattia inguaribile. Solamente questa prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza legittimare la soppressione del vivente: la dimensione personale e relazionale della vita, come del morire, si concretezza nella cura e nell’accompagnamento del malato, che mantiene fino alla fine la piena e “infinita” dignità umana.

 

Per approfondire:

  1. Feldstain A. Psychosocial intervention in palliative care: What do psychologists need to know. Journal of Health Psychology. 2024
  1. Broadbridge E, Venetis MK, Devine KA, Lee LE, Banerjee SC, Greene K. Supporting the support person: oncologists’ roles in reducing support people’s uncertainty and facilitating psychological adjustment. 2024
  1. Bersani G, Rinaldi R, Iannitelli A. Il suicidio assistito degli italiani in Svizzera e il silenzio della psichiatria. Riv Psichiatr 2018

[1] Cfr. P. Argentino, La spiritualità è cura: la forza dell’amore nel dolore, 2023.

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