
La dignità umana è centrale nella riflessione filosofica, bioetica, medica, giuridica, sociologica: nei diversi ambiti delle discipline il principio della dignità esprime la necessità di rispettare l’essere umano, indipendentemente da condizioni personali e sociali o capacità. Il termine “dignità” sta a indicare il carattere unico e irripetibile dell’essere umano in quanto tale. La dignità è, così, intrinseca alla persona, non attribuita da altri.
Sarebbe proprio il carattere inalienabile della dignità umana a fondare gli stessi diritti dell’uomo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 afferma, come si legge nel Preambolo, che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. L’art. 1 specifica, poi, che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Oggi, sebbene vi sia un generale riconoscimento della importanza della dignità, all’espressione vengono attribuiti diversi significati, con ricadute applicative differenti. La dignità è, così, considerata una espressione anche problematica: si pensi alle critiche espresse già in passato, in campo filosofico ad esempio, ma anche studiosi recenti sottolineano l’ambiguità e l’astrattezza del concetto.
Nonostante le divergenze interpretative, nel campo della medicina la protezione della dignità del paziente è centrale, in tutti i diversi ambiti. Un recente studio dal titolo “Dignity in Medicine: Definition, Assessment and Therapy”, pubblicato su Current Psychiatry Reports, analizza il concetto in medicina, attraverso una revisione critica: la ricerca è stata effettuata nelle principali banche dati degli ultimi 23 anni, inserendo gli studi più rilevanti pubblicati in riviste scientifiche che indagano il tema, con l’obiettivo di esaminare le questioni più significative in contesti clinico-assistenziale e di sintetizzare i dati più rilevanti riguardanti gli interventi sulla dignità, tra cui la terapia della dignità.
Nell’articolo si afferma che, sebbene il concetto di dignità umana sia complesso, l’importanza nel contesto medico è evidente, poiché permea l’intero ambito sanitario: la necessità di sostenere l’autonomia del paziente, anche quando è più vulnerabile, e ogni azione di cura hanno alla base il riconoscimento della dignità dell’essere umano. Si sostiene, inoltre, che in molti casi la dignità umana può non essere rispettata all’interno delle strutture sanitarie: attraverso, in particolare, azioni che manifestano indifferenza, discriminazioni e “reificazione” del paziente. Ma la violazione della dignità può essere causata anche dall’organizzazione “burocratica” del lavoro: l’uso di risorse inadeguate può comportare, ad esempio, carico di lavoro eccessivo per chi opera nel settore sanitario; ma anche la predisposizione di modelli di cura basati sul “fare” piuttosto che sulla considerazione olistica del paziente.
La dignità è stata esplorata in numerosi studi di medicina palliativa. Le cure palliative rappresentano la cura globale e multidisciplinare, per il trattamento e il controllo del dolore e delle altre problematiche fisiche, psicologiche, sociali ed esistenziali: lo scopo è accompagnare il paziente, tentando di sostenerlo nella ricerca di senso e di rispettare la dignità umana fino alla fine. Nello studio si riporta che molti pazienti oncologici considerano necessaria l’attenzione ai bisogni spirituali e relazionali: circa il 50% dei pazienti ha indicato che avrebbe bisogno di trovare speranza, un significato e risorse spirituali. Nell’ambito delle cure palliative negli ultimi decenni sono stati compiuti diversi studi finalizzati a comprendere e sostenere i pazienti nell’ultima fase della vita, prestando particolare attenzione alla dignità.
Harvey Max Chochinov in Canada, ad esempio, ha elaborato un modello empirico per la valutazione del grado di percezione della dignità nei malati nel fine vita, una forma innovativa di intervento individualizzato, che aiuta il paziente a preservare l’identità personale, sostenendo anche i familiari. La “Dignity Therapy” (DT) offre l’opportunità di riflettere e conversare su questioni esistenziali e relazionali cruciali della propria vita: i ricordi significativi, i valori, le parole e i messaggi sono documentati in un documento finale, una sorta di eredità che può essere condiviso e trasmesso ai familiari e alle persone care. Il documento generativo durerà nel tempo, oltre la morte del paziente, per essere ascoltato dalle persone care. L’intervento può essere condotto, dopo una adeguata formazione, da parte di diversi professionisti sanitari, tra cui medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali e operatori di assistenza pastorale. Per Chochinov, la trasmissione della “eredità ultima” fornisce alla persona una via di continuità, dal momento che parte dal passato, si sviluppa nel presente e restituisce una prospettiva futura. Alcuni studi hanno dimostrato che la DT ha giovato ai pazienti migliorandone la qualità della vita, con un miglioramento del benessere spirituale, della depressione e della tristezza e una maggiore soddisfazione dei pazienti.
Sebbene la DT sia stata sviluppata nella medicina palliativa, la sua applicazione è stata gradualmente estesa anche ad altri contesti, come in contesti di salute mentale, nella cura della demenza e in neurologia. Inoltre, la DT è stata applicata anche per la sofferenza dei detenuti in carcere: uno studio italiano su 10 detenuti con una condanna all’ergastolo ha utilizzato la DT, dimostrando un miglioramento dell’equilibrio psicologico dei detenuti, che hanno in parte ritrovato un significato nella sofferenza dovuta alla pena e alle condizioni difficili della vita in carcere.
Oltre alla DT sono stati sviluppati ulteriori interventi nell’ambito della medicina narrativa, che includono reminiscenze e revisioni della vita: in generale, è dimostrato che i ricordi possono creare narrazioni di vita positive che supportano il benessere mentale. L’intervento di reminiscenza (“reminiscence therapy”), sia in modo strutturato che non strutturato, condotto da diversi professionisti sanitari (ad es. da infermieri) consiste nell’aiutare la persona a pensare alla propria vita e a ricordare eventi importanti e piacevoli del passato: fotografie, scatole della memoria o la musica possono essere utilizzati come facilitatori del processo di reminiscenza. I dati indicano che la terapia della reminiscenza può migliorare la qualità della vita, l’adattamento alla vita e ridurre la depressione. La terapia della revisione della vita, “life revie”, invece, porta la reminiscenza a un livello più profondo ed è condotta da psichiatri e psicoterapeuti: i pazienti vengono aiutati a esaminare sia le esperienze di vita positive e negative, ricostruendole in ordine cronologico, cercando un significato, integrando gli eventi in una storia di vita coerente e in un insieme significativo. Alcuni studi dimostrano che la terapia della reminiscenza aiuta i pazienti oncologici a migliorare la qualità di vita e i sintomi, tra cui ansia e depressione. Di recente, è stato sviluppato un modello di intervento di revisione della vita in contesti oncologici. Consiste in un dialogo condotto da terapisti qualificati con l’obiettivo di discutere gli eventi della vita, di identificare gli elementi significativi e di esplorare i cambiamenti avvenuti con la diagnosi. I risultati preliminari su 41 pazienti indicano che l’intervento è stato percepito favorevolmente da tutti i partecipanti.
Il modello di cura che mette al centro la persona dovrebbe essere parte integrante di ogni intervento in ambito sanitario rivolto al paziente, nei vari contesti. L’attività medica dovrebbe abbandonare qualsiasi prospettiva “tecno-burocratica” in favore di una prospettiva “umanizzata”, a partire dalla dimensione comunicativa: in tutti gli ambiti clinici sarebbe da valorizzare una comunicazione “umana”, in grado di esprimere prossimità umana, compassione, empatia, integrando aspetti verbali e non verbali. Secondo Chochinov, un tale approccio, definito “dignità nella cura”, dovrebbe essere centrale a partire dalla formazione, per poter trasformare tutto il sistema sanitario. Numerose revisioni e studi sottolineano i benefici di un approccio di dignità nella cura, mostrando il miglioramento nella soddisfazione dei pazienti e dei professionisti sanitari, ma anche nei risultati sanitari. La forma e le modalità espressive sono in grado di incidere sull’andamento del percorso diagnostico-terapeutico instaurato: non a caso il tempo della comunicazione è definito tempo di cura.
Una dignità umana che è, così, da valorizzare e rispettare ancor di più nella vulnerabilità e in ogni fragilità umana attraverso la cura; una dignità che non è concessa da altri solo a determinate condizioni o qualità; una dignità che non può essere “rifiutata” dal soggetto stesso, poiché intrinseca all’essere umano. Ogni ambito della medicina dovrebbe riscoprire la dignità umana come fondamento e fine della cura, in una dimensione olistica, in grado di offrire vicinanza, senso e speranza.
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ultimo aggiornamento il 13 Febbraio 2025