Perché scommettiamo su questo evento diffuso di popolo
GLI INTELLETTUALI SI INTERROGANO
SUL MANIFESTO “LIBERI PER VIVERE”
di Domenico Delle Foglie
L’operazione “Liberi per Vivere” è al centro delle preoccupazioni dell’Associazione. Da questa campagna di coscientizzazione popolare – a partire dal Manifesto valoriale che ha registrato l’adesione di tutto il laicato cattolico organizzato e che gode della simpatia e dell’incoraggiamento dei vescovi italiani – dipende con ogni probabilità la creazione di un ampio sentire comune sul tema del fine della vita. Non solo all’interno della comunità dei credenti, ma anche nell’intera opinione pubblica nazionale.
Dunque, quello per la diffusione dei contenuti del Manifesto valoriale appare come un impegno strategico per quanti hanno a cuore la vita, dal concepimento alla morte naturale.
Sul sito dell’Associazione trovate tutti i testi e i materiali utili all’organizzazione degli incontri, una rassegna stampa dedicata e soprattutto il calendario degli appuntamenti organizzati su tutto il territorio nazionale. A questo riguardo vi segnaliamo l’assoluta necessità che vengano trasmessi alla sede nazionale tutte le date e gli appuntamenti organizzati in ogni angolo d’Italia, dal singolo incontro parrocchiale o di giovani e famiglie, agli eventi pubblici e associativi. Se un evento diffuso di popolo dev’essere, ebbene, in qualche misura dovremo registrarlo. A loro modo lo fanno già, con grande generosità, il quotidiano Avvenire e l’Agenzia Sir. Ma noi dobbiamo fare di più: dobbiamo giorno per giorno aggiornare il nostro calendario, per dimostrare che davvero “Liberi per Vivere” è un’azione di popolo. Non è un grande evento singolo com’è stato ad esempio il Family Day, ma sicuramente può diventare una delle più grandi campagne di informazione e formazione popolare realizzata nel nostro Paese, come è già accaduto in occasione del Referendum sulla legge 40. A condizione che nessuno si tiri indietro. Quando abbiamo parlato, forse con l’ottimismo della volontà, di “mille incontri”, è perché abbiamo scommesso sulla generosità dei nostri compagni di viaggio in quest’avventura.
Ma torniamo alla nostra newsletter e alla sua specificità: qui abbiamo scelto la strategia del confronto e abbiamo chiesto a due intellettuali italiani, il giornalista Luigi Accattoli e lo psichiatra Tonino Cantelmi, di confrontarsi con il Manifesto valoriale e di comunicarci le loro sensazioni e le loro riflessione. Inoltre Paolo Bustaffa, direttore del Sir (Servizio informazione religiosa) ci aiuta a decifrare i silenzi del sistema della comunicazione italiana su un evento di popolo come “Liberi per Vivere”. Buona lettura a tutti.
LIBERI PER VIVERE 1 / Il giornalista a confronto col Manifesto
UN PASSO RIUSCITO
VERSO UN SENTIRE COMUNE
di Luigi Accattoli *
Apprezzo il manifesto “Liberi per vivere” fin dalle serene parole di apertura: “L’uomo è per la vita”. Lo vedo come un passo riuscito verso l’espressione di un sentire comune. Tenere gli occhi e il cuore aperti sul mistero e sul dono della vita mi appare come una vocazione umana centrale in quest’epoca segnata da un’acuta sensibilità per il diritto dei viventi ma anche dalla tendenza a distinguere tra vita e vita: quella felice e quella sofferente, quella autonoma e quella dipendente dal seno materno o dalla cura altrui.
Temo chi sostiene che possiamo cessare di sperare per ogni vivente e che possiamo decidere – in parlamento, o in tribunale, o negli ospedali – quando sia legittima quella cessazione. Sono per l’affermazione che non si possa negare speranza di vita a qualunque persona in qualunque stato si trovi.
Sono anche convinto – avendo sempre vissuto tra mondo cristiano e mondo laico – che su questa materia sia urgente promuovere l’espressione di un sentire comune che raggiunga l’intera umanità. Mi sta a cuore che la disputa non si radicalizzi e che le posizioni diverse da quella espressa in questo manifesto siano intese nelle loro componenti positive, marcando dove necessario la differenza, ma senza condanne polemiche che sarebbero di ostacolo alla ricerca di quel sentire comune.
Invito quanti condividono “Liberi per vivere” a trattare con rispetto i portatori di vedute ispirate ai vari umanesimi contemporanei, anche a quelli che non si richiamano alla tradizione cristiana. Se voglio “interloquire” devo rappresentare al meglio e nel suo punto di forza l’idea dell’interlocutore, altrimenti azzero il suo interesse al confronto e dispenso me stesso dal trovare una vera risposta alla sua interpellanza. Nel manifesto trovo una buona premessa perché così si proceda.
* Giornalista vaticanista, collaboratore del Corriere della Sera
LIBERI PER VIVERE 2 / Lo psichiatra a confronto col Manifesto
LIBERARE LA SPERANZA
PER LIBERARE LA VITA
di Tonino Cantelmi *
Liberare la speranza per liberare la vita: come è noto molti studi indicano nella hopelessness (mancanza di speranza) la radice della depressione e di molti comportamenti suicidali connessi con gli stati depressivi. Le osservazioni inerenti la psicologia della speranza concordano sul “bisogno” di speranza come elemento fondamentale perché la persona umana funzioni e persino resti in vita. Anche le ricerche sui campi di concentramento e sui campi di prigionia testimoniano che il semplice fatto della sopravvivenza richiede “speranza”.
I prigionieri di guerra americani morti per “hopelessness” nei campi giapponesi, testimoniano brutalmente che anche per restare viva la persona deve sperare. D’altro canto numerose osservazioni scientifiche sottolineano come la hopefulness (la ricchezza di speranza) sia correlata alla vita e costituisca un deterrente alla malattia e alla morte. Dunque non abbiamo che una possibilità: liberare la speranza per liberare la vita. E’ per questo, a mio avviso, che il Manifesto “Liberi per vivere” può affermare che “l’uomo è per la vita”. In questa affermazione, straordinaria e formidabile, si radica un’autentica cultura della speranza.
Occorre inoltre considerare che la speranza è una funzione psicologica che si costruisce all’interno delle relazioni primarie di ogni individuo: la speranza cioè ha un’ampia componente interpersonale. Noi possiamo innanzitutto sperare qualcosa per qualcun altro e non solo, ma sperare significa anche aver fiducia che qualcuno si prenda cura di noi in ogni situazione. La speranza è dunque una dimensione relazionale della persona,oltre che una disposizione intrapsichica. Infatti la hopelessness, nel caso per esempio della persona depressa, si associa alla helplessness (senso di inaiutabilità), dando vita ad una tragica combinazione di dolore, di isolamento, di disperazione e di solitudine. Speranza ed aiutabilità sono dimensioni interpersonali che ci consentono così di affrontare la vita. Per questo, penso, il Manifesto fa riferimento ad una “rete di relazioni” e lancia un grido ineludibile: “chi sta male… chiede soprattutto di non essere lasciato solo”.
Infine la speranza, come canta Shakespeare in Riccardo III, ha una funzione trasformativa: “True hope is swift and flies with swallow’s wings: kings it makes gods and meaner creatures kings”. La speranza è raffigurata “veloce” come il volo della rondine e soprattutto capace di trasformare i re in numi e le creature più umili in re. La dimensione trasformativa della speranza lascia intendere la possibilità che ogni condizione possa subire trasformazioni di senso e di significato. In altri termini, come osserva in un bel saggio lo psicologo gesuita Healy (1), la speranza rimanda a un oltre, a un futuro e forse a un mistero che oltrepassa l’orizzonte della singola persona. Perciò a mio parere il Manifesto conclude con grande forza affermando che “solo amando la vita di ciascuno sino alla fine c’è speranza di futuro per tutti”.
Questo Manifesto si colloca nella cultura della speranza, che è alla base della cultura della vita. Alcune culture, che affermano il “diritto del morire”, sembrano invece rifiutare ogni speranza, cedendo al fascino di una sorta di cinismo cieco. Liberare la speranza per liberare la vita significa dunque opporsi al cieco cinismo di quanti vogliono uccidere la speranza e con essa la vita.
* Psichiatra, psicoterapeuta
(1) “Le dinamiche della speranza”, di Healy T., in “Antropologia della vocazione cristiana”, EDB, 1997
LIBERI PER VIVERE 3 / Il direttore del Sir: il Manifesto non è una notizia?
CONTRO IL SILENZIO E IL FRASTUONO
LA COMUNICAZIONE SI FA FIUME CARSICO
di Paolo Bustaffa *
Non è strano il silenzio mediatico che sovente circonda il pensiero e le scelte della Chiesa e dei cattolici sulle questioni più delicate e impegnative della vita.
Non è neppure strano il rumore mediatico che altrettanto sovente circonda il pensiero e le scelte della Chiesa e dei cattolici sulle stesse questioni.
Silenzio e rumore vengono, non da oggi, impiegati con un’abile strategia.
C’è da rammaricarsi ma non da stupirsi.
Un pensiero e una presenza che sfuggono all’ideologia e al potere hanno sempre corso il rischio di venire spenti dal silenzio oppure, al contrario, dal frastuono.
Ci sarebbe da sorridere per tanta presunzione se non fosse per il suo trasformarsi in arroganza.
Così sta accadendo per il manifesto “Liberi per vivere” attorno al quale, con Scienza & Vita, si è raccolto l’associazionismo laicale cattolico e molte persone di altre provenienze, cioè milioni di cittadini.
Davvero non c’è notizia in questo?
Perché milioni di uomini e donne che condividono pubblicamente un pensiero non fanno notizia?
Che cosa sta succedendo all’informazione?
Come può un’informazione che tace una realtà così vasta e visibile ritenersi un pilastro della democrazia?
Come può una professione, retta da un codice etico che essa stessa si è dato, servire la verità se usa il silenzio oppure, al contrario, il rumore per mettere fuori campo o per confondere una voce?
Il manifesto “Liberi per vivere” richiama dunque la questione della ricerca della verità come ragione d’essere dell’informazione.
Il silenzio pone, di conseguenza, la domanda se oggi i venditori di notizie non stiano avendo la meglio sui giornalisti.
La cultura del consumo, del protagonismo e del calcolo porta a questo rischio.
Bastano i riferimenti etici di una professione e le carte deontologiche per evitarlo?
Come uscire da un’eclissi della coscienza che sembra non concludersi mai?
“Liberi per vivere” si trova in mezzo a questi interrogativi con la sua storia e la sua riflessione sulla vita, sulla sofferenza, sulla morte.
Un percorso intellettuale che attraversa paesaggi cattolici e non cattolici prima di arrivare alla meta, al sì alla vita in ogni stagione e situazione.
La sua forza è nell’essere espressione di persone che pensano e insieme credono.
E’ questo popolo a chiedersi – come accadde per il referendum sulla legge 40 – perché tanto silenzio mediatico sull’unità del pensare, credere, agire.
E’ sempre questo popolo a essere preoccupato per il futuro dell’informazione perché, nell’ingiustizia del silenzio, avverte il rischio dell’indebolimento di un pilastro portante della democrazia.
Si può anche oscurare il pensiero della Chiesa e dei cattolici ma il silenzio che ne deriverebbe sarebbe ancor più “tremendo” per coloro che lo decidono e lo impongono.
A chi giova mandare in dissolvenza un pensiero e una presenza che richiamano la coscienza come luogo del dialogo tra fede e ragione, come luogo dove è accesa la scintilla della verità?
Jan Ross, caporedattore del Die Zeit, ha ammesso qualche anno addietro – non per una sorta di pentimento ma perché consapevole che dalla sola ragione non vengono le risposte ultime – che è indispensabile per un laico non credente rapportarsi lealmente con la Chiesa e con i cattolici.
E’ un piccolo segnale, altri ne esistono.
Il pessimismo dunque non serve ed è anche bene ricordare che la comunicazione sfugge a chi vorrebbe costringerla in percorsi guidati e percorre spesso sentieri che assomigliano ai fiumi carsici: improvvisamente scompaiono e altrettanto improvvisamente riaffiorano.
E’, questa, un’immagine di fiducia ma anche un richiamo perché al silenzio non solo non ci si rassegni ma si risponda con quell’intelligenza che in occasione del referendum sulla legge 40 diede ragione alla saggezza e fermò l’arroganza.
Quella saggezza che anche oggi sa distinguere il silenzio dal vuoto.
* Giornalista, direttore Sir
Viaggio a Seoul: sembra di stare su un altro pianeta
LA VERA ESSENZA DELLO SCANDALO “HWANG”:
CALPESTATA LA DIGNITÀ DELLA DONNA E DELL’EMBRIONE
di Maria Luisa Di Pietro *
La prima sensazione che si avverte arrivando a Seoul è di essere atterrati su un altro pianeta. Un’organizzazione ineccepibile; un traffico importante ma ordinato e silenzioso; una cortesia d’altri tempi. Superati i primi momenti di grande stupore, si scopre una città nella quale convivono modernità e tradizione: negli sguardi, nei gesti, nel rispetto.
“I coreani non conoscono la cattiveria”: in questa frase è racchiusa tutta la cultura di un popolo dal quale noi occidentali abbiamo indubbiamente molto da imparare.
L’occasione di questo viaggio è stato un simposio dal titolo “Ethical problems of oocyte donation and research” organizzato dal Catholic Institute of bioethics della Catholic University of Korea.
Se andiamo indietro di cinque anni è facile comprendere il perchè del Simposio e del tema .
Il 19 maggio 2005 l’equipe di Hwang Woo Suk della National University di Seoul annuncia sulla rivista “Science” la creazione di 11 linee di cellule staminali embrionali derivate per clonazione da cellule della pelle di pazienti malati. L’obbiettivo è – come è noto – la produzione di cellule staminali embrionali a scopi terapeutici ed esenti da rigetto in quanto istocompatibili con il soggetto che ha “donato” il suo nucleo.
Nel novembre 2005, Gerald Schatten, biologo dell’Università di Pittsburgh e coautore con Hwang della pubblicazione su “Science”, inizia a parlare di anomalie e falsificazioni nei risultati raggiunti dallo scienziato coreano: è l’inizio del terremoto che porterà a smascherare una frode colossale. Tra le tante anomalie ha sollevato maggiore indignazione la notizia che per questi studi Hwang aveva ricevuto 2.061 cellule uovo da 129 donne, tra cui alcune ricercatrici dello stesso team costrette a “donarle”. Quanto sia stata grande l’eco dello scandalo si può misurare dal numero di pubblicazioni e di convegni sull’argomento anche a cinque anni di distanza, come nel nostro caso.
Senza entrare in merito alla trattazione bioetica del tema, che si dovrebbe articolare almeno su due piani – 1. la posizione e gli interessi delle donne che donano cellule uovo; 2. la produzione di embrioni umani a scopo di ricerca e lo status morale dell’embrione -, vorrei sottolineare alcuni aspetti emersi nel corso del Simposio.
Innanzitutto le ragioni che hanno portato alla scelta del tema: non tanto il desiderio di “lavare” l’onta di uno scandalo che ha travolto l’intero Paese, quanto piuttosto la necessità di confronto su una questione che è scientifica, antropologica, etica e giuridica nel contempo.
Tra parentesi… la legge coreana in materia, che muove dal presupposto che l’embrione è fino al 14° giorno dalla fecondazione (formazione della stria primitiva) un mero ammasso di cellule, è colma di grandi contraddizioni. Una necessità di confronto che ha visto come primo protagonista un istituto di bioetica cattolico (in Corea i cattolici sono solo il 10% della popolazione), ma che ha poi coinvolto professori provenienti da università pubbliche. Una necessità di confronto che stupisce nel momento in cui si sono evidenziati gli “anelli” mancanti nella riflessione antropologica coreana per la quale il dibattito occidentale su “persona” e “dignità” è quasi sconosciuto.
E così quel parlare senza comunicare, proprio del dibattito bioetico occidentale che dà ai concetti di “persona” (cosa è la persona? chi è persona?) e “dignità” (la dignità è un presupposto o una conclusione?) significati diversi, ha rischiato di divenire silenzio totale. Non si trattava più di chiarire solo quale significato dare alle parole, ma di condividere la necessità di cominciare a pronunciarle. Anche senza accento, come tutto il parlare coreano.
Non per nulla la Professoressa In-Hoe Ku, giurista e direttrice del Catholic Institute of Bioethics, ha concluso la sua relazione ricordando che (traduco dall’inglese ovviamente e non dal coreano!) “una legge sulla bioetica deve mettere al centro il valore e la dignità dell’umano e regolare le attività scientifiche al servizio della persona umana”.
Quello che all’inizio aveva le sole sembianze di un Simposio, è divenuto allora un importante momento di confronto tra due culture molto diverse e promessa di rincontrarsi per parlare di persona e di dignità. Quella dignità della donna e dell’embrione – questo è stato il vero scandalo! – che gli esperimenti di Hwang hanno ampiamente calpestato.
*Presidente di Scienza & Vita
Necessario fare il punto dopo l’affastellarsi dei pronunciamenti
DOPO LA SENTENZA DELLA CONSULTA
LEGGE 40 A RISCHIO EUGENETICA
di Ilaria Nava
Legge 40 rischio eugenetica? Sono in molti a chiederselo, soprattutto dopo l’intervento demolitorio della Corte costituzionale sulla normativa. Un piano inclinato la cui prima tappa era stata segnata dal Tar del Lazio, che l’anno scorso aveva annullato le Linee guida, privandole del comma che limitava gli interventi diagnostici sull’embrione a quelli esclusivamente “osservazionali”.
Una decisione prontamente recepita da Livia Turco, quando a governo dimissionario emanò le nuove Linee guida cristallizzando la decisione del Tar. Con il medesimo provvedimento i giudici amministrativi rimettevano la questione di costituzionalità alla Consulta, impugnando gli articoli 14, commi 2 e 3, ossia il limite massimo di tre embrioni e l’obbligo di effettuare un unico e contemporaneo impianto per tutti gli embrioni creati, al massimo 3 alla volta, tranne il caso di “grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione”. Un criterio, quello della salute della donna, che anche il “vecchio” articolo 14 considerava e prevedeva.
Il ricorso del Tar è stato riunito a quello di due giudici di Firenze, che avevano sollevato dinnanzi alla Corte la questione di costituzionalità dell’articolo 14 commi 1 e 4, ossia il divieto di crioconservazione e la soppressione degli embrioni e il divieto della selezione embrionaria di gravidanze plurime.
Porta la data del 1° aprile la sentenza 151/09, con cui la Corte Costituzionale, dopo l’attesa udienza del 31 marzo, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 14, commi 2 e 3, annullando quindi il limite dei tre embrioni generabili per ciclo.
La palla passa ai medici, a cui la Corte demanda “l’individuazione, di volta in volta, del limite numerico del numero di embrioni da impiantare”, sottolineando però che la valutazione resta agganciata al criterio di non “creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario”. Una situazione di incertezza che ha spinto le società scientifiche del campo della riproduzione a cercare di elaborare regole comuni, che possano dare un orientamento chiaro in merito. A fronte, infatti, dell’abolizione del limite massimo dei tre embrioni, resta in piedi il comma sul divieto di crioconservazione e soppressione degli embrioni, che pure era stato impugnato, ma di cui la Consulta ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale.
“Il limite legislativo in esame (ossia quello dei tre embrioni ndr) finisce per un verso, per favorire – rendendo necessario il ricorso alla reiterazione dei detti cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non dia luogo ad alcun esito – l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate”. Questo dato di fatto sarebbe dovuto, secondo i giudici, al fatto che la previsione legislativa “non riconosce la medico la possibilità di una valutazione” sul numero di embrioni da impiantare di volta in volta. Peccato che la Corte abbia omesso di considerare che il medico aveva anche prima la possibilità di valutare quanti embrioni generare e impiantare, visto che la legge stabiliva solo che il limite massimo dovesse essere di tre. Ma soprattutto, non ha tenuto conto dell’ultima relazione al Parlamento sulla legge 40, depositata dal Ministero della Salute pochi giorni prima dell’udienza. Gli stringenti termini per depositare i documenti non hanno consentito di acquisire agli atti la Relazione, che viene solo menzionata in via indiretta dalla Corte laddove cita la memoria depositata dal Comitato per la tutela della salute della donna. La sentenza in quel passaggio richiama la Relazione proprio per sottolineare il fatto che dopo l’entrata in vigore della legge che limita il numero di embrioni generabili per ciclo, “si è verificato un crollo della complicanze da iperstimolazione ovarica”. Un dato che, però, è stato completamente tralasciato nella decisione finale, che proprio intorno al concetto di salute della donna fa discendere l’abolizione del suddetto limite massimo.
La recensione / Un film contro l’aborto e senza moralismi
SCEGLI LA VITA
E CHIAMALA “BELLA”
di Emanuela Vinai
Iniziamo sgombrando il campo dagli equivoci: “Bella” non è “Juno”, ma non è nemmeno “Il grido silenzioso”. Quindi non aspettatevi battute sagaci o primi piani scioccanti. Bella è un film delicato, intimista che, senza strepiti e senza moralismi, svela una verità semplice: si può sempre scegliere la vita. Sabato 16 maggio, in una giornata assolata e caldissima, il folto e partecipe pubblico dell’Auditorium della Conciliazione ha applaudito a lungo una proiezione che ha emozionato tutti i presenti.
Josè (Eduardo Verastégui), il protagonista della pellicola, è un brillante calciatore sul punto di firmare il contratto più importante della sua carriera, ma un attimo di fatale distrazione lo porta a investire e uccidere una bambina e, dopo aver scontato quattro anni di carcere, a vivere i suoi giorni come cuoco nel ristorante del fratello. Qui lavora Nina (Tammy Blanchard), giovane cameriera che scopre di essere rimasta incinta e ha deciso di non tenere il bambino, non desiderato, che aspetta. In una lunga giornata insieme, dove si parla molto, si piange molto e si riflette sul passato, in un susseguirsi di flashback che spiegano lo sviluppo della storia, Josè convince Nina a non abortire, promettendole di prendersi cura del nascituro.
Questa la trama, che potrebbe persino sembrare banale per un pubblico smaliziato. Ma, e qui viene il bello, è la Storia dietro la storia, il privato dietro il pubblico che rende straordinario il racconto.
Eduardo, “a beautiful man with a beautiful heart”, come recita la pagina a lui dedicata su Facebook, è un celebre e affascinante attore messicano che, approdato al successo dopo una dura gavetta improvvisamente va in crisi e si accorge di quanto lo star system sia intriso di superficialità e che i veri valori risiedono altrove. Da questa sua presa di coscienza – chiamarla “conversione” ci sembra quasi irrispettoso – derivano una serie di scelte che l’hanno portato ad impegnarsi in prima persona contro l’aborto, per la promozione della vita e per fare film “che mia madre e mia nonna possano andare a vedere senza coprirsi gli occhi”. Non a caso, insieme a Alejandro Monteverde e Leo Severino, regista e co-produttore, ha dato vita alla casa di produzione indipendente Metanoia: letteralmente, luce dalle tenebre. La scommessa si è rivelata vincente: dopo aver vinto il Festival di Toronto, “Bella” ha mietuto innumerevoli successi internazionali e si appresta ad essere distribuito anche in Italia.
Da queste premesse si capisce meglio anche il secondo fil rouge che percorre il film. Un ingrediente che trova posto in ogni vicenda che si intreccia alla trama principale: è il tema della responsabilità. Un momento può cambiare la tua vita per sempre, quindi poni attenzione a ciò che fai e accetta le conseguenze del tuo operare. Josè sente su di sé la responsabilità di aver interrotto una vita (“Scappiamo prima che qualcuno se ne accorga”, insinua l’amico – manager. “No, io rimango qui” la risposta); Nina sente la responsabilità di dare la vita ad un figlio che non è stato voluto (“Che amore mai potrà ricevere?”); i genitori di Josè si sono assunti, molti anni prima, la responsabilità di un bimbo che era rimasto da solo (“L’unica differenza tra Manny e i suoi fratelli è il modo in cui è arrivato tra noi”).
Ciascuno si fa carico dell’Altro e in questo modo rende migliore se stesso. Accogliere e sostenere: un messaggio semplice in tempi complicati. Siamo pronti a raccoglierlo?
In una società “perfetta” la soglia della dignità è mera convenzione
QUANDO NON POSSIAMO PIÙ DIRCI “UOMINI”?
"L’ESAME" DI RICHARD MATHESON
di Umberto Folena
Ogni epoca ha i suoi jingle, i suoi ritornelli che cercano di entrarci in capo per farci consumare merci, e a volte anche idee. Negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, uno di questi ritornelli cantilenava: sovrappopolazione, riduzione delle risorse, pericolo di povertà. Oggi il ritornello sussurra: autodeterminazione, diritti individuali, io io io.
Nell’Esame no, la società americana del 2003 – l’abbiamo scansata, forse – è ben organizzata. Fin troppo. Infatti non ha energie da sprecare: tutto sia ordinato ed efficiente e ogni vita – potremmo dire in modo fin troppo allusivo – sia degna di essere vissuta, altrimenti… Tom Parker ha 80 anni, vive con il figlio Les, la nuora Terry e due nipoti. Parliamoci chiaro: è un gran peso. Ingombrante, incapace, inetto. Ma per lui c’è l’esame, un test che misura abilità fisiche, mnemoniche e matematiche. Chi lo supera, dimostrando di essere efficiente, può continuare a vivere. Gli altri… Ecco uno dei passaggi centrali del racconto.
«Questo era l’orrore. La vita continuava come al solito. Nessuno parlava della morte. Il governo mandava le lettere di convocazione, gli interessati si presentavano a sostenere l’esame, chi non lo superava veniva pregato di passare al Centro governativo per l’iniezione. La legge funzionava perfettamente (…), impersonalmente, senza un grido o un fremito. Ma erano pur sempre delle persone che erano uccise».
Persone? L’esame di Matheson è l’altro lato della medaglia delle Pre-persone di Dick (ne abbiamo parlato il mese scorso). Il problema è stabilire la soglia. Una volta deciso che “persona” non si è sempre, dal primo inizio all’estrema fine, ma “si diventa” e “si cessa di essere” ad un certo punto, occorre stabilire quel certo punto, un prima e un dopo, la soglia. Ma ogni soglia sarà arbitraria e modificabile. E da chi se non dalla legge dello Stato?
Tutti a casa sanno che Tom non è in grado di superare l’esame. Eppure prevalgono sentimenti diversi dalla pietà. Les se ne accorge provando orrore verso se stesso. Orribile è anche che i figli non provino particolari emozioni. Appartengono alla generazione per la quale tutto ciò è perfettamente normale.
Tom si reca all’esame da solo. Quando torna, a sera, s’infila in camera sua senza una parola. A suo figlio rivelerà di non essersi recato affatto all’esame. Un po’ rimbambito sì, ma privo di dignità no. È passato invece dalla farmacia per acquistare delle pillole. “Quelle” pillole. Lo fanno tutti, come estremo atto di ribellione: “meglio” il suicidio all’esecuzione. La mattina dopo, non un suono esce dalla camera di Tom. Silenzio assoluto.
Matheson, specialmente con Duel – primo grande film del giovane Spielberg – e con la serie tv Ai confini della realtà, si dimostra convinto che i mostri non sono fuori, ma abitano dentro di noi. Non ama le ipocrisie e quindi, nell’Esame, la parola eutanasia non compare. Se non superi il test, dimostrando di essere ancora un essere umano degno di tal nome, capace di vivere una vita piena, sei semplicemente ucciso. Ma Tom è vivo è vegeto, pensiamo. Non è un malato terminale, non è paralizzato, non è in stato vegetativo, non soffre… Vero, ma il problema è la soglia. Una volta stabilito che ce ne deve essere una, e premesso che nulla è per sempre altrimenti la nostra libertà sarebbe limitata, abbiamo posto le basi per renderla modificabile. Secondo scienza, secondo giustizia? No, secondo ragionevole convenienza.
Appuntamenti
I PROSSIMI INCONTRI
SEGNALATI DAI LETTORI
Vi proponiamo gli appuntamenti che ci sono stati segnalati dalle associazioni locali e dagli amici di Scienza & Vita.
Vi ricordiamo che gli eventi sono consultabili al link https://www.scienzaevita.org/appuntamenti.php
Vita è vita, fino alla fine / Liberi per Vivere
Bibione, Parrocchia Santa Maria Assunta
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17 Luglio 2009
Tra Parola & parole / Liberi per Vivere
Bibione, Parrocchia Santa Maria Assunta
08 Luglio 2009
Eluana – i fatti / Liberi per Vivere
Bibione, Parrocchia Santa Maria Assunta
04 Luglio 2009
Ritorno – teatro / Liberi per Vivere
Bibione, Parrocchia Santa Maria Assunta
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17 Giugno 2009
L’incidente: l’inizio di una nuova vita / Liberi per Vivere
Bibione, Parrocchia Santa Maria Assunta
06 Giugno 2009
Hospice, una scelta di vita / Liberi per Vivere
Rapallo (Ge), Centro aiuto alla vita
03 Giugno 2009
Eluana, un caso educativo / Liberi per vivere
Udine, Scienza & Vita Udine
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30 Maggio 2009
Liberi Per Vivere
Macerata, Parrocchia S.Vincenzo M. Strambi – Piediripa
30 Maggio 2009
Liberi per Vivere
Santa Domenica di Placanica (Rc), Scienza & Vita Marina di Caulonia
30 Maggio 2009
Vivere la vita tra insidie e protezione / Liberi per Vivere
Porretta Terme (Bo), Amci, Teatro parrocchiale Testoni
28 Maggio 2009
Commissione Diocesana di Pastorale Sanitaria. Convegno Pastorale Diocesano / Liberi per Vivere
Macerata, Curia diocesana