Ero solo un ragazzo quando un compagno di seminario, conoscendo la mia passione per la montagna, mi regalò il libro di una nota guida alpina. Insegnava le tecniche con cui accostarsi a una parete, riconoscerne appigli e appoggi, salire esposti su uno spigolo o in opposizione lungo un camino, e calarsi in corda doppia sbalzando con eleganza nel vuoto. Ricordo ore passate ad “addomesticare” un cordino, il nodo “a otto” che chiude l’imbragatura, il “barcaiolo” per assicurarsi in parete, il “Prusik” autobloccante… E le salite lungo la tromba delle scale, le uscite sul cornicione del quinto piano a sbeffeggiare le vertigini, le giornate estive a guadagnarsi i primi chiodi da roccia… L’ultimo – sopravvissuto agli anni – nel suo acciaio dolce fa ancora bella mostra di sé sul tavolo d’ufficio, da tutti scambiato per un semplice e poco pratico tagliacarte.
Serviva uscire dall’adolescenza per capire che la montagna è altro. Fino ad allora potevo confonderla con i classici dell’alpinismo citati a memoria o con l’abilità di orientarsi a colpo d’occhio sulla mappa topografica. Erano tutte cose che mio padre sapeva meno di me. Come diverse dai miei scarponi erano le calzature con cui il suo passo lieve e costante saliva il sentiero. La voce calda e ferma del suo “Andiamo” anticipava l’alba: era sveglia che spesso avrei disatteso volentieri, tanto lontani e stonati apparivano nel dormiveglia i progetti della sera precedente. Nel cammino il suo silenzio si faceva grembo accogliente per il mio dire, espressione di una stagione gridata. Vi seminava parole discrete, lavorate con l’intarsio della saggezza artigiana e condivise con il pane del ristoro. Non lo spaventavano le provocazioni: le raccoglieva per rilanciare, riconducendole a un orizzonte più ampio e sereno. Nel seguirmi era disponibile a cambiare mille volte itinerario, ma restava fermo nella rinuncia anche a pochi metri dalla cima, quando avrebbe significato affrontare un passaggio poco sicuro o sfidare un cielo fattosi improvvisamente minaccioso. In sua compagnia non mi sono mai accorto che piovesse; e, comunque, non era quella la cosa più importante. Con la pazienza e la fedeltà del suo esserci, mi ha permesso di riconoscere che più su è sereno, che c’è una speranza più grande delle difficoltà, che la strada non smette di raccontare nuove canzoni, anche se questo – almeno in certi momenti – è atto di fede a caro prezzo. Mi ha insegnato il valore di uno zaino leggero, lo stupore della neve che ridisegna ogni cosa, l’attesa della primavera, custode di nuove partenze.
Rispetto a lui sono rimasto un ripetente, ma sento che la ragione è dalla sua: nel suo essere guida facendosi secondo, nel farmi sentire a casa dove c’è famiglia, nel testimoniarmi che si cresce nella misura in cui si accetta la responsabilità delle persone che la vita ha legato alla tua corda. A distanza di tanti anni, il segno che ha lasciato è impronta in cui ancora cammino, mentre sorrido del tempo in cui presumevo di conoscere.
Ivan Maffeis
Direttore Ufficio Nazionale delle Comunicazioni Sociali Cei
Sottosegretario Cei
ultimo aggiornamento il 17 Febbraio 2016