Non solo in Italia ma in tutta Europa è forte la spinta a rendere a livello culturale, politico e sociale la vita umana un bene disponibile in nome di una astratta libera scelta e di un concetto esclusivamente soggettivo di dignità umana: si vorrebbe così imporre, a partire dal livello fattuale, un diritto alla morte per l’essere umano che soffre, che è nella malattia e nella fragilità (fisica o psicologica). La dignità umana non sarebbe più propria di ogni uomo: la sua tutela sarebbe fondata non sulla natura umana – sull’essere umano in quanto tale – ma sulla percezione del sofferente e, ancor di più – dietro all’apparenza -, sul possedere certe caratteristiche, funzioni e abilità (psicologiche, fisiologiche o anatomiche).
Il diritto alla morte presupporrebbe l’intervento di altri, in particolare dei professionisti sanitari, per il suo concreto esercizio, determinando lo stravolgimento non solo dell’arte medica ma anche della solidarietà sociale, base stessa della civiltà. È, a questo proposito, sancita la definitiva rottura anche delle relazioni umane, a partire da quelle più elementari e fondamentali: si chiede la morte perché si soffre per essere un “peso” per gli altri, e cioè per il parente o l’affetto più prossimo (un padre, un marito, un fidanzato).
Di fronte alla malattia irreversibile e alla sofferenza, soprattutto psicologica ed esistenziale, si ritiene l’unica soluzione possibile il diritto alla morte procurata con l’aiuto di altri.
In un recente articolo pubblicato su Irish Journal of Medical Science sulla situazione in materia di fine vita in Irlanda, vengono dati spunti molto interessanti di carattere generale sulle contraddizioni interne alla legalizzazione del suicidio assistito e eutanasia. L’articolo prende le mosse dal disegno di legge Dying with Dignity Bill del 2020, che, dopo una prima approvazione, non ha visto concludere il suo iter, aprendo, invece, un acceso dibattito in Irlanda sulla tematica del fine vita.
Nell’articolo si analizza l’impatto della liberalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia sui sistemi giuridici nei Paesi nei quali essa è avvenuta. Prima di tutto si segnala che negli anni si è verificata una progressiva espansione dell’area di ammissibilità (ad es. nei Paesi Bassi, in Belgio e in Canada): suicidio assistito ed eutanasia sono state inizialmente introdotte per consentire la morte ai pazienti nella fase terminale della malattia, per poi riguardare un ventaglio sempre maggiore di soggetti (arrivando a ricomprendere, addirittura, pazienti con patologie mentali e bambini). Negli Stati nei quali tali pratiche sono consentite i dati mostrano che la percentuale di morte per suicidio assistito ed eutanasia aumenta negli anni esponenzialmente, a riprova dell’effetto incentivante latente sui soggetti più fragili e, pertanto, più esposti.
Si evidenzia, poi, un problema legato al linguaggio, che crea confusione. In Irlanda la proposta di legge si riferiva a “dying with dignity” per includere sia il suicidio assistito che l’eutanasia. In Canada, invece, è utilizzata l’espressione Medical Assistance in Dying (MAiD). Anche in Australia sono consentite entrambe le pratiche con l’espressione Voluntary assisted dying (VAD). Nel Regno Unito, invece, il dibattito sull’assistenza alla morte riguarda il solo suicidio assistito (come anche in Italia). Si rileva, così, da una parte l’uso ambiguo dell’espressione “assistenza alla morte” mentre, dall’altra, si svela come, nella sostanza, non vi è differenza tra le due pratiche con le quali si pone intenzionalmente fine alla vita umana: sia il suicidio assistito che l’eutanasia vengono collegate a procedure mediche, ma sono esclusivamente fondate sulla volontà del soggetto. L’obiettivo è, in entrambe, la morte della persona a cui viene somministrato il farmaco. Gli autori affermano, tra l’altro, che non ci sarebbero prove sul meccanismo della morte farmacologicamente procurata: le campagne per legalizzare eutanasia e suicidio assistito puntano sull’evitare, con la morte, la sofferenza, ma si rileva che l’attuale base di prove scientifiche è insufficiente per dimostrare che tali procedure siano prive di sofferenza per la persona.
È interessante il collegamento, messo in evidenza nella pubblicazione, tra liberalizzazione del suicidio assistito e politiche generali: come è possibile, in altre parole, effettuare politiche di prevenzione al suicidio e, allo stesso tempo, legalizzare eutanasia e suicidio assistito? Si crea, in tal modo, una profonda contraddizione nell’ordinamento; o si deve concludere che vi sono persone la cui vita “vale meno”, per le quali non attuare le misure di prevenzione valide per altri? I rischi per le persone più vulnerabili e fragili, si pensi al caso degli anziani e dalle persone con disabilità, sono evidenti.
In realtà, dietro a tali pressioni eutanasiche, che tentano di imporsi a livello culturale e politico, vi è un presupposto sbagliato. Nella malattia irreversibile e nella sofferenza insopportabile, anche psicologica ed esistenziale, l’unica strada percorribile, in una società civile ed umana, a garanzia della dignità e della libertà della persona, non è offrire assistenza alla morte, ma è assistere e offrire cure totali, multidimensionali e precoci, in grado di alleviare il dolore fisico e di fornire un sostegno psicologico, spirituale e sociale, partendo dai bisogni specifici del paziente e di chi si prende cura di lui.
Nell’articolo si cita Dame Cicely Saunders, la fondatrice del movimento degli hospice e della medicina palliativa, la quale scriveva: ‘You matter because you are you. You matter to the last moment of your life, and we will do all we can to help you not only to die peacefully, but also to live until you die.’
“Tu sei importante perché sei tu”. A chi si sente un peso per gli altri a causa della fragilità o della malattia, a chi vorrebbe morire per porre fine al dolore fisico e alla sofferenza psicologica e spirituale, a chi è nella solitudine e pensa che la sua vita non è più degna di essere vissuta, a causa della mancanza di autonomia e della dipendenza da altri, sarebbe da ricordare il valore inestimabile e irripetibile della sua vita, non a parole, ma rendendo effettiva la garanzia di cure globali, respingendo – in ambito culturale, sociale e politico – qualsiasi prospettiva eutanasica, offrendo vicinanza, una prospettiva di senso e compassione.
Nel riconoscimento che, in realtà, siamo tutti fragili e dipendenti da altri: tale evidenza è nel DNA della nostra natura, ma è anche alla base della socialità, nei presupposti della medicina e nella ratio stessa del diritto, se vuole essere forza dei più deboli e non arbitrio dei più forti.
Per approfondire:
ultimo aggiornamento il 14 Ottobre 2024