S&V | L’UTERO ARTIFICIALE IN SOSTITUZIONE DEL GREMBO MATERNO: UTOPIA O REALTÀ ? GLI APPROFONDIMENTI DI SCIENZA & VITA | FRANCESCA PIERGENTILI

facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Da anni la ricerca sta tentando di creare un c.d. “utero artificiale” per far crescere il bambino anche al di fuori dell’utero materno: sperimentazioni sono state condotte in Olanda, Cina e Stati Uniti.

Secondo i ricercatori con questa nuova tecnologia sarà possibile aiutare i feti nati prematuramente a crescere al di fuori del corpo materno e saranno, inoltre, aiutate le donne con patologie all’utero.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’estrema prematurità, e cioè la nascita prima delle 28 settimane di età gestazionale, colpisce lo 0,4% dei bambini a livello globale: nonostante l’incidenza relativamente bassa, la prematurità rimane una delle principali cause di mortalità infantile anche nei paesi sviluppati. Negli Stati Uniti nel 2012, i tassi di sopravvivenza dei prematuri era del 9% a 22 settimane, del’81% a 25 settimane e del 94% a 28.

Lo scopo delle sperimentazioni sull’utero artificiale sarebbe quello di poter garantire la sopravvivenza ai bambini nati troppo presto: ma, una volta che i ricercatori saranno riusciti a ricreare “l’ambiente materno” all’interno dell’utero artificiale, sarà anche possibile “gestire” tutta la gravidanza al di fuori del corpo della donna? Sarà mai possibile la realizzazione della c.d. “ectogenesi completa”?

L’ectogenesi (da “ecto”, fuori, e “genesis”, sviluppo) è lo sviluppo al di fuori del grembo materno.

Si distingue in letteratura tra ectogenesi completa, nel caso in cui tutto lo sviluppo del nuovo essere umano è al di fuori del corpo della donna (dal concepimento alla nascita), e ectogenesi parziale. In questo secondo caso lo sviluppo del bambino al di fuori del corpo sarà solo per un periodo di tempo limitato: esempi possono essere la fecondazione in vitro (l’embrione, infatti, si sviluppa inizialmente all’esterno dal corpo) e l’incubazione neonatale dei nati pretermine (il prematuro si sviluppa per molte settimane all’esterno del corpo materno).

Una ricerca condotta a Filadelfia nel 2017 sulla tecnologia dell’utero artificiale su agnelli nati estremamente prematuri ha riportato la sopravvivenza di alcuni feti per quattro settimane. Lo studio ha rappresentato un importante progresso tecnico nella strada per trovare un nuovo mezzo terapeutico in grado di fornire supporto vitale ai bambini nati prematuramente. La ricerca ha anche stimolato la riflessione etica in tema di utero artificiale.

Un articolo recente pubblicato su The American Journal of Bioethics ha affrontato il tema delle implicazioni etiche nella tecnologia dell’utero artificiale, analizzando le diverse fasi di sviluppo dell’essere umano. Nell’articolo è riportato che la maggior parte della letteratura scientifica sull’argomento non affronta tanto il tema dell’ectogenesi parziale, quanto piuttosto il tema dell’ectogenesi completa. Dal 2017 in poi, più di 30 pubblicazioni accademiche hanno affrontato, infatti, le implicazioni etiche dell’utero artificiale nell’ectogenesi completa, tecnica attualmente in ogni caso non ancora realizzabile.

La ricerca riportata nell’articolo è stata condotta dividendo lo studio in quattro fasi, legate allo sviluppo anatomico e fisiologico del nascituro.

Per quanto riguarda la fase I (1-2 settimane), la fecondazione al di fuori del corpo materno, con la successiva riuscita dell’impianto, è stata eseguita per la prima volta nel 1978 nel Regno Unito. In questa fase le questioni etiche principali riguardano la crioconservazione, lo scarto e l’uso nella ricerca degli embrioni non impiantati: più in generale, si segnala la problematica dello status giuridico dell’embrione. L’articolo riporta alcuni danni sul nascituro causati dalla fecondazione in vitro: aumento del rischio di gravidanza extrauterina, difetti alla nascita, prematurità, basso peso alla nascita e cancro infantile. Problematiche etiche ulteriori sorgono, inoltre, quando la fecondazione in vitro viene utilizzata per concepire dalla donna in età avanzata e con pratiche specifiche (es. maternità surrogata o donazione di gameti).

La fase II (dalle 2 alle 21 settimane) è legata allo sviluppo dell’embrione fino alla settimana che precede quella considerata la soglia minima di sopravvivenza.  Nello studio si riporta che per questa fase non esiste alcuna tecnologia clinica o sperimentale di supporto vitale extrauterino: se l’utero artificiale si dimostrerà efficace per il feto con più di 22settimane, si potrà provare ad estendere le sue potenzialità anche per le settimane precedenti. Tuttavia, a causa dell’immatura capacità di autoregolazione, i feti in questa fase dipendono maggiormente dalla regolazione placentare e materna, rendendo più difficoltoso il supporto fornito dall’utero artificiale: aumenterebbero i rischi e sarebbero ridotti i potenziali benefici della tecnologia di supporto.

Nella terza fase (dalle 22 alle 25 settimane di sviluppo fetale), anche se aumenta il tasso di sopravvivenza dei nati prematuri – anche grazie allo sviluppo dei reparti di rianimazione e al miglioramento dell’assistenza clinica neonatale – i bambini nati spesso soffrono a causa del ritardo nello sviluppo neurologico e dell’immaturità strutturale e funzionale degli organi.  In questa fase, l’attuale supporto tecnologico clinicamente disponibile consiste nella rianimazione cardiorespiratoria e nella ventilazione meccanica o nell’intubazione tracheale. La tecnologia dell’utero artificiale potrebbe garantire uno sviluppo polmonare continuo e una miglior sopravvivenza del nato.  Per quanto riguarda le considerazioni etiche, l’utero artificiale genererebbe un beneficio per i neonati prematuri nati in questa fase (22-25 settimane). L’uso di questa tecnologia potrebbe proteggere i feti da stati gestazionali patologici e potrebbe essere utilizzata per migliorare la sicurezza di terapie mirate (come la chirurgia fetale, la terapia farmacologica, genica o con cellule staminali).

Tra i rischi dell’utero artificiale nella terza fase è segnalato il rischio di morte o di grave disabilità. Vi sarebbe, inoltre, il rischio di gravi effetti negativi secondari fisiologici, a breve e lungo termine, (ad esempio emorragia intracranica). Inoltre, dovrebbero essere considerati i potenziali effetti psicologici e comportamentali dovuti alla mancanza di legame fisico materno-fetale.

In questa fase sarebbe, infine, problematica la definizione dello status giuridico del nato. Nell’articolo si parla di “fetal neonate” o “fetonate”: “neonato” perché il soggetto viene rimosso dall’utero, ma allo stesso tempo “feto” proprio perché l’obiettivo principale dell’utero artificiale è quello di preservare la fisiologia fetale e continuare lo sviluppo tentando di ricreare “l’ambiente materno”. Il termine principale è, ad ogni modo, “nato”: la nascita, con l’uscita dal grembo materno, anche se immediatamente seguita dall’immissione nella tecnologia artificiale, conferirebbe al bambino pieni diritti.

Per quanto riguarda la fase IV, i bambini nati (26-34 settimane) presentano un rischio maggiore di sindrome da distress respiratorio infantile. L’attuale tecnologia clinica a supporto del neonato prematuro vitale è principalmente incentrata sul miglioramento delle modalità di trattamento esistenti.

Il principale vantaggio della rianimazione neonatale è una migliore sopravvivenza dei neonati.

Pertanto, attualmente, un supporto tecnologico efficace di supporto esiste per la fase I e IV; è diffuso ma imperfetto per la fase III mentre non esiste per la fase II.

Dal momento che appare tecnicamente non realizzabile l’uso della tecnologia artificiale per il nato nella fase II e, pertanto, prima delle 22 settimane, gli autori dell’articolo ritengono sia solamente speculativo il parlare di ectogenesi completa. Anche le preoccupazioni etiche legate all’uso dell’utero artificiale in sostituzione completa di quello materno sembrano, pertanto, solo teoriche.

L’uso della tecnologia in questa fase, ove divenisse possibile, aumenterebbe la possibilità di interventi terapeutici precoci su anomalie congenite e su stati gestazionali patologici. L’ectogenesi completa potrebbe, inoltre, secondo alcuni autori, risolvere il problema di molte forme di infertilità.

Essa, tuttavia, porterebbe come conseguenza la “svalutazione” della gravidanza e della maternità: come evidenziato nell’articolo, sarebbe compromessa l’esperienza delle donne di trarre significato e responsabilità dalla maternità.

La donna perderebbe, così, la sua unicità di essere “garante” e custode della vita, depositaria della sopravvivenza stessa del genere umano. Allo stesso tempo, il figlio non rientrerebbe più nella logica del dono, ma diventerebbe oggetto di pretesa, prodotto di una tecnologia sempre più avanzata, a discapito del “umano”.

Per approfondire:

  1. R. De Bie et al. Ethics Considerations Regarding Artificial Womb Technology for the Fetonate, The American Journal of Bioethics, 1 aprile 2022
  1. Elselijn Kingma,Suki Finn, Neonatal incubator or artificial womb? Distinguishing ectogestation and ectogenesis using the metaphysics of pregnancy, Bioethics, aprile 2020 
  2. R. De Bie et al. Artificial placenta and womb technology: Past, current, and future challenges towards clinical translation, Prenat Diagn. 2021

 

 

image_pdf
facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Pubblicato in Attività & News, News & Press, Uncategorized