Nota del costituzionalista Marco Olivetti sulla recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato inammissibile l’eccezione di costituzionalità sollevata contro l’art. 13 della legge 40/2004

facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

La Consulta non si è incamminata su una strada sdrucciolevole

Finora sempre prudente sui temi della bioetica, che la Costituzione del 1948 non poteva affrontare

 

di Marco Olivetti*

Con l’ordinanza n. 369 del 2006, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 40 del 2004, con la quale il Parlamento ha disciplinato meno di tre anni fa la procreazione medicalmente assistita e la condizione giuridica dell’embrione in vitro. L’art. 13 della l. n. 40 era stato denunciato per incostituzionalità in ragione della mancata previsione della facoltà della coppia che richiede il trattamento di procreazione assistita di richiedere la diagnosi genetica dell’embrione prima dell’impianto di questo nell’utero materno. La implicita esclusione di tale facoltà era stata denunciata dal Tribunale di Cagliari – su richiesta di una coppia di coniugi che avevano avviato una procedura di fecondazione assistita – per contrasto con l’art. 3 e l’art. 32 della Costituzione. Il contrasto, secondo il Tribunale di Cagliari, sarebbe sussistito in quanto, in primo luogo il divieto di diagnosi genetica pre-impianto, a fronte della facoltà, riconosciuta ad ogni donna in stato di gravidanza, in base “al diritto vivente”, di richiedere l’amniocentesi, per verificare l’esistenza di eventuali patologie del feto darebbe luogo ad una violazione del principio di eguaglianza, nella forma della irragionevolezza. Situazioni simili sarebbero infatti oggetto di discipline legislative diverse, violazione del canone che impone di trattare in modo eguale (o analogo) fattispecie eguali (o analoghe) e in modo ragionevolmente differenziato situazioni diverse. In secondo luogo, ad avviso del giudice sardo l’esclusione della diagnosi genetica preimpianto obbligherebbe la donna che avesse richiesto il trattamento di fecondazione assistita a impiantare l’embrione, ma le consentirebbe poi di ottenere l’aborto terapeutico qualora, in una fase più avanzata della gravidanza, constatasse l’esistenza di anomalie genetiche nel feto. Ne deriverebbe, secondo il giudice cagliaritano, una lesione del diritto alla salute psico-fisica della donna, e quindi un contrasto con l’art. 32 della Costituzione.
La Corte costituzionale ha scelto, nell’ordinanza n. 369 del 2006, di non entrare nel merito della questione posta dal Tribunale di Cagliari, ritenendola formulata in modo contraddittorio. Il divieto di diagnosi genetica preimpianto – osserva la Corte richiamando l’ordinanza del giudice di Cagliari – è infatti desumibile anche non solo dall’art. 13, della cui legittimità costituzionale si controverteva, ma anche da altre disposizioni della legge n. 40 del 2004 – come la disciplina della «revocabilità del consenso solo fino alla fecondazione dell’ovulo», il «divieto di creazione di embrioni in numero superiore a quello necessario per un unico impianto, obbligatorio quindi per tutti gli embrioni», e il «divieto di crioconservazione e di soppressione di embrioni». Il divieto, in fondo, deriva «dalla disciplina complessiva della procedura di procreazione medicalmente assistita disegnata dalla legge» n. 40 del 2004. Di conseguenza l’ordinanza del giudice cagliaritano viene giudicata dalla Corte contraddittoria, in quanto solleva questione di legittimità costituzionale solo di una delle disposizioni da cui si desume il divieto di diagnosi preimpianto, che il giudice stesso reputava incostituzionale. Anche dichiarando incostituzionali le disposizioni impugnate, sembra suggerire la Corte, il divieto di diagnosi genetica preimpianto avrebbe continuato a sussistere nel nostro ordinamento.
Riguardo alla vicenda in esame sono possibili tre rilievi, relativi, rispettivamente, all’ordinanza n. 369 del 2006 in sé, all’impostazione della questione di legittimità costituzionale da parte del giudice di Cagliari e, infine, ad un possibile nesso fra l’ordinanza n. 369 e la precedente giurisprudenza costituzionale in materia di diritti del concepito.
Sulla decisione n. 369 del 2006 in sé vi è piuttosto poco da dire. Si tratta infatti di una decisione processuale, che non entra nel merito della questione e che pertanto non si pronuncia sulla sussistenza dei vizi di incostituzionalità denunciati dal giudice rimettente. Quest’ultimo viene sì bacchettato per avere formulato in maniera contraddittoria la questione di legittimità costituzionale, ma gli argomenti da esso addotti non vengono smentiti nel merito. Resta comunque fermo l’effetto principale dell’ordinanza della Corte costituzionale, che è, ovviamente, la permanenza in vigore della legge n. 40 del 2004 nel suo testo originario, del resto già sopravvissuto, nel 2005, ad un referendum abrogativo.
Varie sarebbero invece le osservazioni possibili sul merito della questione di legittimità costituzionale, come impostato dal giudice cagliaritano. Appare in effetti molto disinvolto l’uso fatto da tale giudice sia del criterio della ragionevolezza, sia del diritto alla salute. Per quanto riguarda la ragionevolezza del divieto di diagnosi preimpianto, se misurato rispetto alla facoltà di effettuare l’amniocentesi, non vietata dalla legislazione attuale, appare piuttosto problematico individuare un nesso fra i due fenomeni se non si muove dal presupposto della totale, assoluta ed incondizionata libertà della donna di decidere della vita e della morte dell’embrione prima e del feto poi, all’esterno come all’interno del proprio corpo. Ma tale ius vitae ac necis, che ricorda una concezione della patria potestà diffusa nel diritto romano, e che si tradurrebbe nel diritto all’aborto e nel “diritto ad un figlio sano” (inclusivo del diritto di eliminare il figlio malato), non ha basi nel nostro ordinamento, nel quale la disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza non da luogo ad un diritto soggettivo ad abortire – come accade in altri ordinamenti, come quelli di alcuni Paesi scandinavi e degli Stati Uniti, sia pure limitatamente alle prime fasi della gravidanza – ma unicamente alla facoltà della donna di interrompere la gravidanza qualora questa determini un grave pericolo per la propria vita, per la propria salute fisica o per la propria salute psichica. Il fatto che quest’ultima causa legittimante l’interruzione volontaria della gravidanza sia divenuta nei fatti qualcosa di simile all’aborto libero va valutato più come una distorsione nell’applicazione della legge n. 194 del 1978 che come un dato del nostro diritto positivo.
La questione della tutela della salute della donna apre evidentemente uno spazio per ragionare sul secondo motivo di presunta incostituzionalità della legge indicato dal giudice di Cagliari. Il danno alla salute (psichica) della donna in questione in questo caso è infatti ipotetico e futuro e in nome di esso dovrebbe essere decisa la soppressione dell’embrione malato che fosse rilevata con la diagnosi preimpianto. Si vede qui la radicale soggettivizzazione della nozione di salute che ha assunto centralità nella prassi applicativa della legge n. 40 del 2004 e che finisce per consistere nell’idea che sia lesione della salute dell’interessato (in questo caso dell’interessata), ciò che esso stesso ritiene essere tale, e non una condizione, anche psichica, accertabile oggettivamente da terzi.
La Corte costituzionale ha accolto la tesi secondo cui il divieto di diagnosi preimpianto sarebbe radicato nei principi ispiratori della legge n. 40 del 2004 e nella tutela dell’embrione posta al centro da quest’ultima. Ci si potrebbe allora chiedere se questa collocazione del divieto in esame non sia espressione del contenuto costituzionale minimo di tutela del concepito, di cui la Corte costituzionale ha ragionato nella sentenza n. 48 del 2005: se ciò fosse vero, ne deriverebbe, forse, che la disposizione in commento non solo non è incostituzionale, ma darebbe corpo ad una tutela del concepito da ritenersi costituzionalmente necessaria in base alla giurisprudenza costituzionale sulla tutela della vita prenatale (culminante nella sent. n. 35 del 1997).
Tuttavia questa conclusione è forse argomentabile con qualche difficoltà, ed è bene per ora limitarsi a constatare con soddisfazione che la Corte costituzionale non ha seguito la strada sdrucciolevole su cui aveva tentato di trascinarla il Tribunale di Cagliari: quella del “governo dei giudici” in materia di bioetica. Dichiarare illegittima la l. n. 40 del 2004 in un suo punto così qualificante sulla base di motivazioni tanto superficiali – ed in fondo politiche, nella loro essenza – come quelle enunciate dal giudice cagliaritano, avrebbe voluto dire abbandonare il ruolo che la Corte ha prudentemente ricavato per se stessa sulle grandi questioni etiche nell’ultimo trentennio. Tale ruolo è stato piuttosto quello di garante dell’accesso alle procedure – soprattutto di quelle di democrazia diretta – che quello di decisore diretto su profili sui quali la Costituzione italiana – scritta sessant’anni fa – è ovviamente silente. E sui quali i principi in essa contenuti sono inevitabilmente piegabili a letture ideologiche fra loro opposte. Una ragione in più perché la Corte si tenga fuori da questo groviglio, limitandosi a regolare gli aspetti procedurali e lasciando l’ultima parola, sul merito delle questioni, al parlamento e al corpo elettorale. I quali, su questo tema, hanno da poco tempo detto parole ben chiare, a chiunque voglia intenderle.

*Ordinario di Diritto Costituzionale, Università di Foggia – Consigliere nazionale di Scienza & Vita

image_pdf
facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Pubblicato in Attività & News, News & Press