A buon fine una giusta battaglia culturale e professionale
MA ORA C’E’ PIU’ ATTENZIONE
AI “GRANDI PREMATURI”
di Maria Luisa Di Pietro
Il progredire delle conoscenze in ambito neonatologico ha reso oramai possibile un’adeguata assistenza a bambini nati in epoca molto precoce. Negli ultimi tempi l’attenzione si è focalizzata in modo particolare sui bambini nati tra le 22 e le 25 settimane di gestazione, altrimenti definiti “grandi prematuri”. L’impossibilità di prevedere alla nascita, tranne in situazioni particolari, le future condizioni del grande pretermine, il timore di disabilità residue come conseguenza dell’età di sviluppo e degli stessi interventi terapeutici, l’indubbio impegno economico: queste e altre le ragioni che hanno animato un dibattito dagli interessanti risvolti scientifici, ma soprattutto etici. Questo dibattito è stato recepito dall’Associazione Scienza & Vita, che ha dedicato – con il supporto di Carlo Bellieni, consigliere nazionale, e da tempo impegnato su questo fronte – al tema dei grandi prematuri il terzo numero dei Quaderni dal titolo “Venire al mondo”.
Diversi organismi nazionali e associazioni scientifiche sono intervenuti sul tema, producendo una serie di documenti tra cui: la Carta di Firenze su “Cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse (2006), la Lettera aperta dei neonatologi (2006), le Linee-guida per l’astensione dal cosiddetto accanimento terapeutico nella pratica neonatologica della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del S. Cuore (2007), la Carta di Roma, il documento “I grandi prematuri. Note bioetiche” del Comitato nazionale per la Bioetica ( http://www.palazzochigi.it/bioetica/pareri.html ) e le “Raccomandazioni per le cure Perinatali nelle età gestazionali estremamente basse” del Consiglio Superiore di Sanità ( scarica il documento). Gli ultimi tre documenti sono stati resi noti nei mesi di febbraio e marzo 2008.
MA ORA C’E’ PIU’ ATTENZIONE
AI “GRANDI PREMATURI”
di Maria Luisa Di Pietro
Il progredire delle conoscenze in ambito neonatologico ha reso oramai possibile un’adeguata assistenza a bambini nati in epoca molto precoce. Negli ultimi tempi l’attenzione si è focalizzata in modo particolare sui bambini nati tra le 22 e le 25 settimane di gestazione, altrimenti definiti “grandi prematuri”. L’impossibilità di prevedere alla nascita, tranne in situazioni particolari, le future condizioni del grande pretermine, il timore di disabilità residue come conseguenza dell’età di sviluppo e degli stessi interventi terapeutici, l’indubbio impegno economico: queste e altre le ragioni che hanno animato un dibattito dagli interessanti risvolti scientifici, ma soprattutto etici. Questo dibattito è stato recepito dall’Associazione Scienza & Vita, che ha dedicato – con il supporto di Carlo Bellieni, consigliere nazionale, e da tempo impegnato su questo fronte – al tema dei grandi prematuri il terzo numero dei Quaderni dal titolo “Venire al mondo”.
Diversi organismi nazionali e associazioni scientifiche sono intervenuti sul tema, producendo una serie di documenti tra cui: la Carta di Firenze su “Cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse (2006), la Lettera aperta dei neonatologi (2006), le Linee-guida per l’astensione dal cosiddetto accanimento terapeutico nella pratica neonatologica della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del S. Cuore (2007), la Carta di Roma, il documento “I grandi prematuri. Note bioetiche” del Comitato nazionale per la Bioetica ( http://www.palazzochigi.it/bioetica/pareri.html ) e le “Raccomandazioni per le cure Perinatali nelle età gestazionali estremamente basse” del Consiglio Superiore di Sanità (scarica il documento). Gli ultimi tre documenti sono stati resi noti nei mesi di febbraio e marzo 2008.
Con questo dibattito si sono, poi, incrociati interventi da parte di parlamentari e dello stesso ministro della Salute, Livia Turco. Si è trattato, in questo caso, di interventi non sempre uniformi e talora contraddittori. Si è prima gridato allo scandalo di fronte alla proposta di rianimare anche i grandi prematuri, in modo particolare a seguito di interruzione volontaria di gravidanza; si è dichiarato, poi, pieno accordo con posizione in senso del tutto opposto.
Appariva, tra l’altro, caduto nell’oblìo il dettato dell’articolo 7 della Legge 194/78 in base al quale quando “esiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’art. 6 [è cioè “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per a vita della donna] ed il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
E’ certamente alquanto imbarazzante fare riferimento, nel tentativo di salvaguardare il grande prematuro, ad una legge sull’aborto: ma sta di fatto che – prima di parlare – chi questa legge sostiene indefessamente, dovrebbe ricordarne almeno il contenuto.
Prendiamo in esame, adesso, solo le posizioni del Consiglio Superiore di Sanità e del Comitato Nazionale per la bioetica, in cui hanno svolto un ruolo determinante anche Francesco D’Agostino e Adriano Bompiani, nostri soci fondatori. Dal lavoro di entrambi gli organismi è emersa in modo esplicito la chiara opzione per la tutela del grande pretermine. Non sono stati, ad esempio, introdotti rigidi riferimenti cronologici (età gestazionale) per stabilire se intervenire o meno con manovre rianimatorie. Questo apre la possibilità che ogni caso venga valutato su base individuale e non su base statistica.
Si ritiene, in altre parole, che non debba essere mai rifiutato l’ausilio di mezzi terapeutici – anche strumentali – proporzionati alle condizioni del grande prematuro; anzi il loro utilizzo consente di “evidenziare eventuali capacità vitali, tali da far prevedere possibilità di sopravvivenza, anche a seguito di assistenza intensiva” (Consiglio Superiore di Sanità).
Il criterio di riferimento è, dunque, solo la condizione clinica del grande pretermine, la cui evoluzione andrà ovviamente seguita con attenzione dai medici curanti. Non viene fatta invece alcuna menzione (tra l’altro necessariamente approssimativa) a patologie o menomazioni future, che avrebbero aperto inevitabilmente a una deriva eugenistica laddove la previsione della qualità di vita venisse fatta prevalere sulla vita stessa.
Inoltre, non vi è riferimento – nel documento del Consiglio Superiore di Sanità – alla modalità con cui si è interrotta la gravidanza, se in modo spontaneo o procurato. Diverso è il caso del documento del Comitato Nazionale per la Bioetica che anche al § 22 ricorda il dettato della Legge 194/78 e auspica che “l’ormai accertata, anche se statisticamente limitata, possibilità di sopravvivenza di neonati giunti alla ventiduesima settimana di gestazione imponga un profondo ripensamento in ordine alle modalità comunemente usate per le pratiche di aborto tardivo”.
Svincolare la sorte del grande pretermine a causa di un aborto procurato dalla volontà della madre è un ulteriore segnale dell’opzione per la tutela della sua vita. Questa opzione è resa evidente anche dalla precisazione che il parere dei genitori – con cui vanno comunque condivise le decisioni – non è vincolante in casi di conflitto. Potrebbe infatti accadere che i genitori siano in disaccordo tra di loro e/o con le decisioni del medico: dalla lettura dei documenti del Comitato Nazionale per la Bioetica e del Consiglio Superiore di Sanità risulta chiaro che al centro vi è solo l’interesse del grande pretermine.
Come si legge proprio del documento di quest’ultimo organismo: “In caso di conflitto tra richieste dei genitori e la scienza e la coscienza dell’ostetrico-neonatologo, la ricerca di una soluzione condivisa andrà perseguita nel confronto esplicito ed onesto delle ragioni esibite dalle parti, tenendo in fondamentale considerazione la tutela della vita e della salute del feto e del neonato”. Ed ancora si legge al §26 del Comitato Nazionale per la bioetica: “[…] E’ da ritenere infatti che non abbia consistenza né etica, né deontologica, né giuridica l’ipotesi secondo la quale ogni forma di trattamento e di rianimazione dei neonati prematuri debba essere attivata dai medici solo a partire da un parere positivo della madre e del padre”.
E’, infine, da ricordare la grande attenzione anche nei confronti del prendersi cura del grande pretermine: laddove non sono più possibili cure attive, resta sempre e comunque il dovere di assistenza. Premesso che una certa insistenza terapeutica è sempre necessaria nel grande pretermine dal momento che la capacità di risposta alle cure attive di un neonato è sempre maggiore che nell’adulto, richiamare al dovere di cura esprime la volontà di evitare – da una parte – il cosiddetto “accanimento terapeutico” e – dall’altra – ogni forma di abbandono e di eutanasia surrettizia.
Un passo importante lungo il percorso di assunzione di responsabilità nei confronti di chi è nella condizione di massima fragilità: in questo caso è il bambino appena nato. Si spera che un’uguale e chiara opzione venga fatta anche a favore di chi vive l’esperienza di malattie croniche degenerative o delle ultime fasi della sua vita.
Con la modulistica non si può sostituire la legge
IL TESTAMENTO DI VITA DAL NOTAIO?
STORIA DI UN FLOP ANNUNCIATO…
di Domenico Airoma
Il testamento di vita dal notaio: ovvero, quando la modulistica sostituisce la legge (ma senza successo). Circa un anno fa, il Consiglio Nazionale del Notariato adottava una delibera con cui si decideva di predisporre un modello di testamento di vita da offrire al pubblico a condizioni particolarmente vantaggiose. Tuttavia, nonostante il particolare regime promozionale dell’iniziativa – all’insegna del minimo tariffario per tutti – non sembra che la sortita notarile sia stata coronata da grande successo. “Timeo Danaos et dona ferentes”, potrebbe dire qualcuno cui non sono particolarmente simpatici i notai e le loro tariffe. Ma sarebbe semplicistico. Più probabilmente, si tratta di naufragio seguito all’inabissamento di quel disegno di legge “Marino”, cui proprio l’iniziativa del notariato intendeva fare da apripista.
Per la verità, molte sono le perplessità che “ab origine” hanno accompagnato siffatta iniziativa, al di là della suadente presentazione della stessa.
IL TESTAMENTO DI VITA DAL NOTAIO?
STORIA DI UN FLOP ANNUNCIATO…
di Domenico Airoma
Il testamento di vita dal notaio: ovvero, quando la modulistica sostituisce la legge (ma senza successo).
Circa un anno fa, il Consiglio Nazionale del Notariato adottava una delibera con cui si decideva di predisporre un modello di testamento di vita da offrire al pubblico a condizioni particolarmente vantaggiose. Tuttavia, nonostante il particolare regime promozionale dell’iniziativa – all’insegna del minimo tariffario per tutti – non sembra che la sortita notarile sia stata coronata da grande successo. “Timeo Danaos et dona ferentes”, potrebbe dire qualcuno cui non sono particolarmente simpatici i notai e le loro tariffe. Ma sarebbe semplicistico. Più probabilmente, si tratta di naufragio seguito all’inabissamento di quel disegno di legge “Marino”, cui proprio l’iniziativa del notariato intendeva fare da apripista.
Per la verità, molte sono le perplessità che “ab origine” hanno accompagnato siffatta iniziativa, al di là della suadente presentazione della stessa. Si è detto, innanzitutto, da parte del supremo organo di governo dei notai, che occorreva fronteggiare un’emergenza, una “necessità attuale”, quella cioè di “assicurare la certezza della provenienza delle dichiarazioni circa i trattamenti sanitari”. E fin qui “nulla quaestio”. Ma perché rimettere il tutto alla valutazione dei singoli notai, sulla base di considerazioni di ordine etico? Evidentemente, c’è dell’altro; difficilmente liquidabile con una generica funzione di certificazione. Ed infatti, a ben guardare, il modulo offerto al pubblico contiene almeno due profili che vanno al di là della mera funzione (notarile, appunto) di attestare la provenienza di una dichiarazione da un determinato soggetto: la nomina di un fiduciario e l’indicazione dei casi in cui diverrebbe operativo il testamento. Partendo da questi ultimi, basterebbe il riferimento alla volontà di “non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico né a idratazione e alimentazione forzate e artificiali”, per rendere evidente lo scopo, neppure troppo dissimulato, dell’intera operazione: introdurre, attraverso lo strumento apparentemente neutrale delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, vere e proprie pratiche eutanasiche; idratazione ed alimentazione artificiale – solo per limitarsi a queste – nulla hanno a che vedere con l’accanimento terapeutico.
Timeo Danaos, dunque; perché ancora una volta il dono tanto assomiglia all’ennesimo cavallo di Troia! E’ uno scivolone comprensibile, si dirà: i notai si sono avventurati su un terreno non proprio affine alle loro competenze. E sia! Ma è sulla compatibilità della nomina del fiduciario con i principi del nostro ordinamento giuridico che i promotori non potevano non sapere.
Non potevano non sapere, cioè, che qui non si tratta di nominare un procuratore speciale cui affidare un affare, ma una persona cui viene delegato ciò che non è delegabile: la vita stessa!
Non potevano non sapere che col testamento biologico si dettano disposizioni destinate a produrre effetti non al verificarsi della morte, ma quando il soggetto è ancora in vita. Disposizioni del tutto decontestualizzate rispetto alla futura ed ipotetica situazione nella quale verranno chiamate ad operare, quando magari nuove conquiste mediche rendono del tutto ingiustificata la pretesa, veicolata dal fiduciario, di porre fine alla propria esistenza. D’altronde il difetto di attualità che inficia alla radice il testamento biologico è ben presente a coloro che hanno cercato e cercano di fornirne una plausibilità giuridica.
Gli stessi Veronesi e De Tilla ritengono di risolvere “il problema dell’eventuale inattualità e quindi della necessaria revocabilità delle direttive, stabilendo che esse abbiano un valore temporale in genere di 3-5 anni, trascorso il quale il medico potrà non tenerne conto”. Ma allora, non solo sono pericolose: non servono neanche allo scopo! Lungi dal rispondere ad un’esigenza di certezza, il testamento biologico diviene fattore di incertezza. Fattore di incertezza quanto al termine di validità (quanti anni?) ed alle modalità di revoca (sempre davanti al notaio?); tanto che oramai negli Stati Uniti è una pratica caduta in desuetudine. Fattore di incertezza per gli stessi destinatari, cioè i medici. Nel modulo offerto al pubblico, si dice, infatti, che al fiduciario viene affidato “il compito di rendere edotti i medici curanti dell’esistenza del testamento di vita”.
Ma come dovranno comportarsi i sanitari dinanzi al fiduciario? Dovranno ritenersi vincolati dalla decisione di quest’ultimo? Eppure qui non si tratta di disporre della sorte di un terreno o di un appartamento: qui si tratta di capire se quel soggetto – peraltro, ancora in vita – confermerebbe quella sua pregressa volontà anche nelle circostanze attuali. Si tratta di interpretare, appunto. E l’interpretazione – si sa – scatena mille conflitti. Tanto che lo stesso disegno di legge Marino, di cui il Consiglio del Notariato auspicava l’approvazione, introduceva sul punto un lungo ed articolato procedimento, durante il quale era previsto l’interpello di parenti anche alla lontana, per arrivare a rimettere la decisione finale al giudice, cioè allo Stato. Chi, infatti, meglio di un organo “super partes” poteva stabilire quand’è che poteva considerarsi cessato l’interesse di una persona a vivere la propria vita?
Non potevano non sapere, in definitiva, che si trattava di questioni di tale portata etica da non aver trovato soluzioni legislative adeguate e, soprattutto, condivise. E quindi, meno che mai risolvibili con un semplice modulo. Laddove neppure la giurisprudenza creativa aveva potuto, era arrivata una modulistica notarile “praeter legem”, anzi “ante legem”; una legge, per fortuna, non è arrivata a sfigurare il volto giuridico e morale del nostro Paese.
Altre 12 interviste ai medici italiani
IL NOSTRO "SONDAGGIO"
SUL TESTAMENTO BIOLOGICO
Proseguiamo nella pubblicazione delle interviste che andiamo raccogliendo, fra i medici italiani, sul tema del testamento biologico. Presto raggiungeremo il traguardo che ci siamo prefissati: cento interviste. Dopodichè sarà nostra cura effettuare anche un’analisi qualitativa delle risultanze di questo nostro “sondaggio” empirico. Anche se già possiamo affermare, senza tema di smentita, che fra i medici da noi interpellati prevale la preoccupazione di garantire adeguata assistenza ai pazienti nel fine vita, anche attraverso la diffusione sull’intero territorio italiano di strutture adeguate (hospice) per i malati terminali. In ogni caso prevale una netta contrarietà all’introduzione del testamento biologico, per i rischi di deriva eutanasica ad esso connaturati. Piuttosto si sostiene e rilancia l’assoluta necessità dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente, come strumento essenziale per gestire i problemi del fine vita.
IL NOSTRO "SONDAGGIO"
SUL TESTAMENTO BIOLOGICO
Proseguiamo nella pubblicazione delle interviste che andiamo raccogliendo, fra i medici italiani, sul tema del testamento biologico. Presto raggiungeremo il traguardo che ci siamo prefissati: cento interviste. Dopodichè sarà nostra cura effettuare anche un’analisi qualitativa delle risultanze di questo nostro “sondaggio” empirico. Anche se già possiamo affermare, senza tema di smentita, che fra i medici da noi interpellati prevale la preoccupazione di garantire adeguata assistenza ai pazienti nel fine vita, anche attraverso la diffusione sull’intero territorio italiano di strutture adeguate (hospice) per i malati terminali. In ogni caso prevale una netta contrarietà all’introduzione del testamento biologico, per i rischi di deriva eutanasica ad esso connaturati. Piuttosto si sostiene e rilancia l’assoluta necessità dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente, come strumento essenziale per gestire i problemi del fine vita.
Mariano Avio: Medico-Chirurgo. Specialista in Ortopedia, Specialista in Medicina dello Sport.
Leon Tshilolo: Pediatra ed ematologo, Direttore del “Centro Mongole”, nella Repubblica Democratica del Congo.
Marco De Santis: Medico-Chirurgo. Specialista in Ginecologia e Ostetricia. Servizio di Medicina Prenatale del Policlinico Gemelli di Roma.
Antonella Ciabattoni: Medico-Chirurgo. Specializzata in Radioterapia Oncologica e Radiologia Diagnostica.
Gianfranco Fuselli: Medico di base, Recanati.
Luciano Nanni: Medico-Chirurgo. Specializzato in Oncologia, Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia).
Maria Cristina Del Poggetto: Medico-chirurgo. Specialista in Psichiatria.
Massimo Catarini: Medico-Chirurgo. Specialista in Ematologia.
Nicola Panocchia: Medico-Chirurgo. Specializzato in Medicina Generale.
Maria Luisa Grandinetti: Medico-Chirurgo, Specializzata in Oncologia.
Pierpaolo Campolungo: Medico-Chirurgo. Specialista in Ostetricia e Ginecologia.
Sergio Fattorillo: Medico-Chirurgo. Specialista in Medicina Legale ed Igiene.
In distribuzione il quarto dei "Quaderni di Scienza & Vita"
VIAGGIO NEI SEGRETI
DELLA STERILITA’ MASCHILE
La sterilità maschile sta assumendo progressivamente i caratteri di una vera e propria emergenza, sia in Italia sia nel mondo. A questo tema è dedicato il quarto volume dei Quaderni di Scienza & Vita che sono già in distribuzione. Ricordiamo che è possibile richiederli all’Associazione che provvederà all’invio, oppure sono scaricabili gratuitamente dal sito ( www.scienzaevita.org ).
Per incuriosirvi pubblichiamo l’introduzione di Lucetta Scaraffia, vicepresidente dell’Associazione e direttore dei Quaderni.
INTRODUZIONE
di Lucetta Scaraffia
La sterilità tanto temuta nel mondo antico, come testimonia la Bibbia, punizione che si poteva risolvere in un miracolo divino – come il concepimento miracoloso di Isacco e quello di Giovanni Battista, o la manna nel deserto – non esiste più. Un profondo cambiamento nel modo di concepire la riproduzione umana ha fatto sì che la sterilità – quella che veniva considerata nelle società tradizionali una delle peggiori maledizioni per un essere umano – sia in un certo senso scomparsa.
VIAGGIO NEI SEGRETI
DELLA STERILITA’ MASCHILE
La sterilità maschile sta assumendo progressivamente i caratteri di una vera e propria emergenza, sia in Italia sia nel mondo. A questo tema è dedicato il quarto volume dei Quaderni di Scienza & Vita che sono già in distribuzione. Ricordiamo che è possibile richiederli all’Associazione che provvederà all’invio, oppure sono scaricabili gratuitamente dal sito ( www.scienzaevita.org ). Per incuriosirvi pubblichiamo l’introduzione di Lucetta Scaraffia, vicepresidente dell’Associazione e direttore dei Quaderni.
INTRODUZIONE
di Lucetta Scaraffia
La sterilità tanto temuta nel mondo antico, come testimonia la Bibbia, punizione che si poteva risolvere in un miracolo divino – come il concepimento miracoloso di Isacco e quello di Giovanni Battista, o la manna nel deserto – non esiste più. Un profondo cambiamento nel modo di concepire la riproduzione umana ha fatto sì che la sterilità – quella che veniva considerata nelle società tradizionali una delle peggiori maledizioni per un essere umano – sia in un certo senso scomparsa. Non solo perché ormai la definizione di questa condizione, che è in mano ai medici, viene rivestita da eufemismi, come “infertilità” o “problemi di fertilità”. Ma soprattutto perché l’uso degli anticoncezionali fin dalla prima gioventù fa sì che nessuno sappia più se è sterile o no. Se, e quando, a una età più avanzata, una persona decide di avere un figlio e incontra dei problemi a concepirlo, è sempre più difficile capire se si tratti di una sterilità originaria o dell’effetto che tanti anni di contraccettivi hanno avuto sul suo complicato meccanismo riproduttivo. E questo capita anche, se non soprattutto, agli uomini, nonostante essi non siano oggetto d’interventi diretti con contraccettivi chimici. La fertilità è anche, e sta diventando sempre di più, un fatto psicologico, non solo chimico, perché, quando la si scopre, si prova una acuta sofferenza. Ma questa difficoltà a concepire non viene considerata – e probabilmente a ragione – come una volta, sterilità: sembra essere piuttosto una protesta del corpo, al quale per anni è stato mandato il messaggio “niente figli” e che poi non è più disposto a fare figli a comando.
Certo, abbiamo salutato con gioia la fine della concezione antica di sterilità, vissuta come una tragedia che condizionava la vita e, fino a tempi abbastanza recenti, attribuita dalla scienza medica tradizionale solo alla donna, cioè a colei che portava nel suo corpo il segno della fertilità. La donna sterile, disprezzata perché incapace di adempiere alla sua funzione, non è più una condizione umana moderna, almeno nel mondo occidentale. La prima ragione di questa scomparsa va ricercata nelle
trasformazioni demografiche che hanno segnato l’Occidente dopo la rivoluzione industriale: con il miglioramento delle condizioni di vita e grazie alle scoperte mediche,infatti, è sembrata assicurata la continuità del gruppo umano di appartenenza e ha avuto fine il timore ancestrale dell’estinzione che aveva tormentato l’umanità.
Inoltre, la disgregazione di ogni senso di appartenenza a forme di vita comunitarie, compresa la famiglia, e l’affermarsi di un esasperato individualismo hanno cancellato un altro tipo di timore, quello che la famiglia – senza arrivare a parlare di lignaggio – si estinguesse. Oggi siamo delle monadi, preoccupate solo di vivere meglio possibile questa vita: il futuro non ci interessa.
L’immanenza che ci caratterizza, l’assenza di interesse per l’avvenire, rendono infatti indifferente, per un numero sempre crescente di persone, il problema della riproduzione. E dei figli sono sempre più sentiti i lati negativi – la fatica, le preoccupazioni, le spese, i limiti alla libertà – che non quelli positivi. Se i figli non sono più considerati una benedizione, la sterilità non è più una maledizione. È una scelta, prima voluta e poi subita, vista sempre più positivamente perché sembra garantire quella che è considerata la condizione ottimale, cioè la libertà individuale.
Se della sterilità si parla poco, quasi niente si parla della sterilità maschile, per molto tempo ignorata e nascosta perché, nelle culture occidentali, veniva confusa con l’impotenza, e quindi considerata una ferita vergognosa, lesiva dell’identità maschile. Nelle culture diverse dalla nostra, invece, (vedi articolo di Girola) non ha costituito un problema perché molto spesso era ignorato l’apporto maschile alla riproduzione. Invece, oggi, la gravità del problema impone che venga affrontato: la sterilità maschile è in costante aumento, ed è superiore a quella femminile arrivando a prendere le dimensioni di una malattia sociale. Le cause, come indicano gli articoli (Foresta, Lenzi e Mancini) possono essere genetiche o mediche e, nell’ultimo caso, possono essere curabili, ma molto spesso sono difficili da individuare perché si tratta di cause ambientali – dall’inquinamento alle posizioni tenute durante il lavoro, ma anche tensioni psicologiche che derivano da nuove situazioni sociali – che il singolo non ha potere di mutare (Lombardo, Nava). Tant’è vero che la sterilità da cause ambientali colpisce anche alcuni tipi di animali. Oggi, invece di studiare la sterilità, e di cercare di curarla, la medicina sembra avere privilegiato la soluzione tecnica, cioè la fecondazione artificiale, nonostante il suo basso tasso di riuscita. Abbastanza recente è la nascita dell’andrologia, cioè della branca medica che affronta l’uomo dal punto di vista dell’apparato sessuale (Isidori), a differenza della ginecologia, che ha radici addirittura nell’antichità greca: “Quello della donna è un corpo instabile e soggetto a malattie specifiche: l’andrologia è invenzione molto recente, perché solo da poco si sono create anche nella medicina le premesse teoriche per pensare a malattie dell’uomo”. Nell’antichità greca, il corpo della donna veniva studiato “come inquietante e minaccioso” mentre quello dell’uomo – temprato dalla fatica dell’esercizio ginnico o del lavoro dei campi, nonché della sua ideologia, in vista della fatica suprema della guerra – “perde ogni paticità, per divenire simbolo apatico” . Ai recenti studi sulla sterilità maschile di ordine medico, e alle cause ambientali come l’inquinamento, bisogna aggiungere una novità, cioè l’apporto della psicanalisi, che aiuta a identificare e ad affrontare le ragioni e gli effetti psicologici di una situazione apportatrice di sofferenza (Risé) che oggi, insieme con quelle sociali, cominciano ad essere riconosciute come cause primarie e importanti . Ad esempio, è stata identificata come una delle cause sociali la confusione fra i sessi che caratterizza la nostra società: non ci preoccupiamo più, infatti, di
mantenere ben separati i ruoli femminili e maschili, come è stato sempre fatto da tutte le società tradizionali che vedevano in questa separatezza la garanzia simbolica della riproduzione del gruppo umano di appartenenza. In tutte le culture, infatti, è sempre stata considerata condizione necessaria
per garantire la fertilità di un gruppo umano la differenziazione accentuata fra donne e uomini, perché è stata sempre forte la consapevolezza che solo dai diversi poteva germogliare un nuovo essere. Nella tradizione greca classica, fra i due modelli virili opposti, Eracle e Adone, solo il primo, maschio violento e combattente, è padre di numerosi figli, mentre il secondo, amante degli aromi e dei profumi che ne fanno un gigolo effeminato, è sterile. Senza dubbio le trasformazioni della nostra società, che tende a penalizzare i ruoli sessuali tradizionali, creando identità sempre meno distinte e complementari, ma sostituibili l’una all’altra, possono essere la causa, o meglio una delle cause, del calo della fertilità maschile. Fra le cause ambientali, si deve porre anche l’effetto della cannabis (Risé, Lombardo) che ormai è talmente diffuso fra i giovani da essere considerato un fenomeno sociale di massa.
Affrontando il tema della sterilità maschile vogliamo mettere in luce un problema grave e nascosto, offrire un continente sommerso di informazioni, e lanciare un allarme sociale, che si deve trasformare in una maggiore attenzione alle cause ambientali della sterilità, ma anche in un invito alla ricerca medica di occuparsi di più degli esseri umani curando la sterilità invece di privilegiare la fecondazione artificiale.
Il Professor Israel a caccia dei nemici della scienza
SCUOLA PRIMA VITTIMA
DELL’IDEOLOGIA SCIENTISTA
di Andrea Possieri
«Le scienze naturali non sono altro che edifizî di pseudoconcetti, e propriamente di quella forma di pseudoconcetti, che abbiamo denominati empirici o rappresentativi». Se non fosse stato Benedetto Croce l’autore di questa affermazione probabilmente nessuno si sarebbe preso la briga di compiere una riflessione degna di questo nome, tanto evidente era l’inaccettabilità dell’asserzione. E però, il fatto che quell’affermazione – non certo l’unica con quella valenza negativa e censoria – fosse stata scritta dal magister Italiae, così veniva definito Don Benedetto dal filosofo marxista Antonio Banfi, la dice lunga sul rapporto conflittuale e minoritario che la cultura scientifica ha avuto nel nostro Paese. Una cultura scientifica che, al di là di tutte le leggende, fino agli inizi degli anni Venti presentava un panorama di prestigio e di promettenti sviluppi ma che è stata minata nelle basi e nella diffusione dalle «politiche autarchiche e razziali» del regime fascista, dalle «intrusioni ideologiche del comunismo» e infine dall’attuale «pedagogismo progressista».
SCUOLA PRIMA VITTIMA
DELL’IDEOLOGIA SCIENTISTA
di Andrea Possieri
«Le scienze naturali non sono altro che edifizî di pseudoconcetti, e propriamente di quella forma di pseudoconcetti, che abbiamo denominati empirici o rappresentativi». Se non fosse stato Benedetto Croce l’autore di questa affermazione probabilmente nessuno si sarebbe preso la briga di compiere una riflessione degna di questo nome, tanto evidente era l’inaccettabilità dell’asserzione. E però, il fatto che quell’affermazione – non certo l’unica con quella valenza negativa e censoria – fosse stata scritta dal magister Italiae, così veniva definito Don Benedetto dal filosofo marxista Antonio Banfi, la dice lunga sul rapporto conflittuale e minoritario che la cultura scientifica ha avuto nel nostro Paese. Una cultura scientifica che, al di là di tutte le leggende, fino agli inizi degli anni Venti presentava un panorama di prestigio e di promettenti sviluppi ma che è stata minata nelle basi e nella diffusione dalle «politiche autarchiche e razziali» del regime fascista, dalle «intrusioni ideologiche del comunismo» e infine dall’attuale «pedagogismo progressista».
L’ultimo volume di Giorgio Israel (Chi sono i nemici della scienza?, Lindau, Torino, 2008) ripercorre l’itinerario storico-politico della cultura scientifica nazionale volgendo lo sguardo su due aspetti dell’Italia di oggi: sul «disastro educativo» che affligge la scuola di ogni ordine e grado e su quel «clamoroso paradosso» rappresentato dal primato delle tecnoscienze sulla scienza teorica che si diffonde parallelamente ad un sempre più ampio «analfabetismo scientifico». Un paradosso esaltato ancor di più dai fautori di un rozzo scientismo di stampo positivistico, dai divulgatori che presentano in modo magico e acritico ogni risultato scientifico-tecnologico e da coloro che escludono la scienza dalla cultura, riducendola a mera abilità pratica.
Chi sono dunque i nemici della scienza? Sono veramente rintracciabili tra coloro che hanno un atteggiamento «bigotto, ispirato dal fondamentalismo religioso, soprattutto di tipo cattolico» oppure sono racchiusi tra gli stessi difensori della tecnoscienza che, in nome di un illuminismo progressivo che non conosce dubbi, sono uniti nell’obiettivo meramente politico-ideologico di difendere la bandiera della razionalità scientifica dai presunti attacchi oscurantisti e reazionari?
In realtà, le ragioni del declino e della rottura con una tradizione di cultura scientifica «che avrebbe potuto costituire un autentico patrimonio nazionale», secondo Israel, vanno rintracciate a partire dagli anni Trenta, con la «militarizzazione progressiva della cultura», con il «giuramento di fedeltà» al regime fascista, con l’autarchia e le leggi razziali. Ma è soprattutto con l’epurazione, l’amnistia del dopoguerra e la vastissima influenza che l’idealismo crociano esercitò su tutta la cultura nazionale, a partire da coloro che dovevano esserne gli antagonisti, ovvero i marxisti nella versione gramsciana, che venne sancita la marginalizzazione della cultura scientifica nella società italiana.
La spregiudicatezza politico-culturale di Togliatti – che fece del gramscismo il grimaldello per esercitare una vasta azione di egemonia politico-culturale – e il ruolo che assunsero i «redenti», secondo l’efficace definizione di Mirella Serri, ovvero di coloro che furono “mondati” dalle colpe di essere stati fascisti solamente per aver deciso di prestare i propri servigi alla parte politica opposta, il Pci, furono determinanti nell’erezione di quel muro ideologico che avrebbe diviso la cultura umanistica da quella scientifica, relegando quest’ultima su un piano secondario ed accessorio. Il marxismo si trasformò ben presto in una teologia sostitutiva delle religioni tradizionali, che faceva del richiamo alla scienza, o meglio della pretesa scientificità, la legittimazione autentica delle proprie aspirazioni politiche, la prova provata della necessità storica della rivoluzione e del ruolo insostituibile del Partito come rappresentante di classe.
Anche con il crollo del marxismo questo richiamo ideologico alla scienza non è venuto meno. Quel che è sopravissuto, infatti, è «l’ideologia scientista nuda e cruda, senza il riferimento al contesto teorico della filosofia materialistica della prassi e alla prospettiva della costruzione del socialismo». In questo modo, nell’ultimo decennio, si è andata affermando una nuova teologia sostitutiva che ha fatto della fede nella scienza e nella tecnologia la sua rivendicazione principale. Tramontata l’era della rivoluzione, è rimasta quella della modernità.
E uno dei luoghi dove più visibilmente si riscontrano le conseguenze di questa ideologia scientista è proprio l’università, sempre più ridotta «a somministrare nozioni e a fare esami» in nome del «passaggio dalla cultura delle discipline alla cultura delle competenze», secondo il lessico «pedagoghese» oggi tanto in voga.
I pedagogisti progressisti che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si sono insediati in «tutti i centri nevralgici di controllo del sistema dell’istruzione e della valutazione», hanno sancito il primato ideologico dell’approccio «pedagogico-didattico sulla definizione dei principi dell’insegnamento» e hanno trasformato, fino a renderlo residuale, il ruolo dell’insegnante.
«Il pedagogismo progressista», secondo Israel, infatti, si è configurato come una sintesi tra il progetto scientista e le «tendenze rivoluzionarie emerse nel ’68» che, basandosi su una «profonda sfiducia nell’uomo», ha trasformato il docente della scuola da «un uomo di cultura che, sia pure entro certe finalità, programmi e metodologie, trasmette le sue conoscenze e la sua esperienza per formare persone» nella figura grigia del funzionario scolastico, del «burocrate dell’istruzione che è tanto più apprezzato quanto più cancella la sua soggettività».
La questione scolastica è, dunque, fondamentale e, se si rivelasse profetica la frase del Premio Nobel per la medicina Albert Szent-Györgyi posta a epigrafe del volume, «il futuro sarà come sono le scuole oggi», la situazione italiana appare tale, scrive Israel, «da far tremare le vene e i polsi».
Recensione del film. Oltre la categoria di pellicola antiabortista
CIO’ CHE CONTA PER "JUNO"
E’ IL SI’ ALLA MATERNITA’
di Ilaria Nava
Arrivato da poco nelle sale, il premio Oscar per la migliore sceneggiatura “Juno”, girato da Jason Raitman, narra la storia di una ragazzina di sedici anni che scopre di aspettare un bambino. L’intera vicenda si svolge in un contesto sociale medio basso, scandita da una narrazione briosa e dal tipico linguaggio disinibito degli adolescenti della provincia americana, dove la ribelle e irriverente Juno MacGuff, interpretata da una strepitosa Ellen Page, rispecchia l’ambiente piuttosto disinvolto che la circonda.
CIO’ CHE CONTA PER "JUNO"
E’ IL SI’ ALLA MATERNITA’
di Ilaria Nava
Arrivato da poco nelle sale, il premio Oscar per la migliore sceneggiatura “Juno”, girato da Jason Raitman, narra la storia di una ragazzina di sedici anni che scopre di aspettare un bambino. L’intera vicenda si svolge in un contesto sociale medio basso, scandita da una narrazione briosa e dal tipico linguaggio disinibito degli adolescenti della provincia americana, dove la ribelle e irriverente Juno MacGuff, interpretata da una strepitosa Ellen Page, rispecchia l’ambiente piuttosto disinvolto che la circonda. Dopo essersi consultata con un’amica, Juno prende un appuntamento in una clinica per abortire. Non è chiaro cosa le faccia cambiare idea: se “l’odore di studio dentistico” e l’insostenibile tensione che si respirano nella squallida sala d’attesa di “Donna ora”, oppure l’amica pro life che all’ingresso le dice che il suo bambino “ha già le unghie”. La decisione, comunque è presa, e la determinata Juno, ancora prima di averne parlato con la sua famiglia, decide di tenere il bambino e darlo in adozione. Si mette così alla ricerca di una coppia di possibili candidati, finché non si imbatte negli (apparentemente) perfetti Vanessa e Mark, coniugi benestanti e desiderosi di diventare genitori. La vicenda – incorniciata da una piacevolissima colonna sonora – accompagna gli stadi della gravidanza di Juno, che durante questo periodo cresce, e non solo fisicamente.
Non importa se è possibile definire “Juno” una pellicola anti abortista, catalogazione che ha prontamente suscitato il dibattito circa le intenzioni del regista; ciò che sicuramente non può sfuggire neppure all’occhio dello spettatore meno sensibile è una delicata affermazione della maternità come accoglienza.
<< Un giorno tornerai qui, tesoro, alle tue condizioni >>. Così il papà di Juno si rivolge alla figlia dopo l’uscita dalla sala parto. Già, perché in questa storia ci sarebbero proprio tutti gli ingredienti del caso-limite solitamente preso come esempio per legittimare l’aborto. Invece Juno, malgrado i suoi sedici anni, accetta di vivere fino in fondo ciò che le è successo e di permettere al suo bambino di nascere, anche se non si sente pronta per fare la mamma, affrontando con leggerezza e autoironia gli sguardi e le battute dei compagni di scuola.
La pellicola non offre però una visione idealizzata della maternità: una buona dose di sano realismo scaturisce dai piccoli momenti di crisi dovuti al rapporto con il timido e un po’ passivo papà del bimbo, Paul Bleeker (interpretato da Michael Cera) e con la futura famiglia adottante. In particolare, l’evoluzione degli aspiranti genitori, Vanessa e Mark, interrogano Juno sul significato della maternità e sul destino del bimbo che sta per arrivare. A ciò si accompagnano la scioltezza e il disincanto con cui la protagonista affronta la vita, senza però mettere a tacere domande del tipo “Esiste l’amore per sempre?”, che rivolge a suo padre. Tutti eventi che la porteranno a crescere, senza perdere la freschezza e la spontaneità dei suoi sedici anni, e che lasciano intravedere quei segni di maturazione che nel tempo faranno di lei una donna.
L’affetto del burbero padre Mac (J.K. Simmons)e della matrigna Bren (Allison Janney) costituisce per Juno un punto di riferimento sempre più importante, che getta una luce sul ruolo della famiglia, capace di accettare l’indesiderata novità, di incoraggiare e sostenere, senza rinunciare al ruolo educativo che le compete.