Quattro contributi di esperti: medici, giuristi, filosofi
STRUMENTI PER ORIENTARSI
SULLE DOMANDE DI FINE VITA
Il numero di ottobre della Newsletter di “Scienza & Vita” dedica largo spazio ai temi legati alla fine della vita.
Se il professor Rodolfo Proietti fa il punto sull’accertamento della morte (con criteri cardiologici o neurologici) che è stato al centro del discorso pubblico nelle scorse settimane, Marina Casini e Alessio Musio affrontano il tema dell’autodeterminazione con un approccio giuridico (art. 32 della Costituzione) e filosofico (diritto al rifiuto di trattamenti). Infine Stefano Colucci recensisce il libro del dott. Mario Riccio nel quale il medico racconta come staccò il respiratore che teneva in vita Piergiorgio Welby. E’ da sottolineare come al capezzale di Welby ci fossero due medici belgi chiamati dagli esponenti radicali per mettere in atto un’eutanasia attiva, qualora Riccio avesse rinunciato.
Infine la Newsletter ospita un articolo della professoressa Elena Giacchi che ripercorre il recente convegno internazionale tenutosi a Roma per celebrare i quarant’anni dell’enciclica “Humanae Vitae”.
Un’intervista con il professor Proietti sui criteri di accertamento
MORTE CERTA, PERCHE’ E’ VALIDO
IL CRITERIO NEUROLOGICO
di Ilaria Nava e Paola Parente
Un autentico viaggio accanto al medico nel difficile processo di accertamento della morte. E’ quanto ci aiuta a fare, con questa intervista, il professor Rodolfo Proietti, professore ordinario di Anestesia e Rianimazione presso l’Università del Sacro Cuore e direttore del Dipartimento Emergenza e Accettazione del Policlinico Gemelli di Roma.
Le conoscenze scientifiche attuali consentono di identificare la morte con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. I criteri per accertarla sono due: cardiologico e neurologico. Il primo si riferisce alla modalità di accertamento della morte per arresto cardiaco, il secondo all’accertamento della morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche, sottoposti a misure rianimatorie.
La morte per arresto cardiaco si intende avvenuta quando la respirazione e la circolazione sono cessate per un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo; può essere accertata con il rilievo e la registrazione continui dell’elettrocardiogramma protratti per non meno di 20 minuti. La seconda modalità, come ho detto, è riservata ai soggetti affetti da lesioni encefaliche, sottoposti a misure rianimatorie. Un collegio medico costituito da un neurologo, un medico-legale ed un anestesista-rianimatore, rileva, all’inizio ed alla fine di un periodo di osservazione non inferiore alle sei ore, la esistenza simultanea delle condizioni indicative della cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo: assenza dello stato di vigilanza e di coscienza, assenza dei riflessi del tronco encefalico (alcuni esempi: le pupille non sono in grado di variare il loro diametro secondo l’intensità dello stimolo luminoso; l’introduzione di un corpo estraneo nella trachea non suscita la tosse; il contatto di un corpo estraneo con le cornee non provoca la chiusura delle palpebre, ecc.), assenza della capacità di respirare autonomamente alla sospensione della ventilazione meccanica, assenza dell’attività elettrica cerebrale rilevata con una registrazione elettroencefalografica di durata non inferiore ai 30 minuti, eseguita all’inizio ed alla fine del periodo di osservazione. Quando condizioni particolari, impediscono di eseguire correttamente il rilievo dei segni clinici o la registrazione elettroencefalografica, o entrambe le attività, è previsto che venga documentata l’assenza del flusso ematico cerebrale. La documentazione dell’assenza del flusso ematico cerebrale è sempre richiesta nell’accertamento della morte condotto nei bambini di età inferiore ad 1 anno.
Secondo lei questi criteri sono adeguati per accertare la morte dell’individuo?
Le modalità di accertamento, delle quali disponiamo, sono idonee ad identificare la condizione di cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo e, quindi, la morte dell’individuo. Vediamo perché.
Nell’accertamento della morte con criteri cardio-circolatori documentare con la registrazione elettrocardiografica un periodo di arresto cardiaco di durata non inferiore ai venti minuti significa documentare che per almeno venti minuti l’encefalo è rimasto privo di irrorazione sanguigna. Il danno che consegue, determina la condizione della morte: cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.
Nei soggetti affetti da lesioni encefaliche sottoposti a trattamento rianimatorio, l’utilizzo della ventilazione meccanica consente un normale apporto di ossigeno al sangue, ai tessuti e agli organi, anche quando la capacità di respiro autonomo viene completamente e definitivamente persa a causa del danno cerebrale. La conseguenza più evidente della ventilazione meccanica è rappresentata dalla persistenza dell’attività cardiaca e circolatoria anche in presenza delle condizioni che identificano la morte.
Per meglio comprendere il significato del termine “morte cerebrale” è importante conoscere il meccanismo responsabile del danno totale ed irreversibile dell’encefalo, denominato “tamponamento cerebrale” ricordando che l’encefalo è all’interno della scatola cranica, quindi in un contenitore rigido, inestensibile.
Il rifornimento di ossigeno e di sostanze indispensabili al suo normale metabolismo è garantito dal flusso del sangue portato dalle arterie che penetrano all’interno della scatola cranica. Alcune condizioni patologiche possono determinare un aumento della pressione all’interno della scatola cranica, come accade, ad esempio, per i voluminosi accumuli di sangue (ematomi) causati da emorragie spontanee o da traumi, o nel rigonfiamento (edema) della stessa massa cerebrale conseguente a diverse situazioni di danno. Se la pressione all’interno del cranio cresce, sino a raggiungere un valore critico, si verifica il “tamponamento cerebrale”: il sangue arterioso non è più in grado di penetrare all’interno della scatola cranica. L’encefalo si trova privato del flusso ematico. Questa situazione drammatica determina, in brevissimo tempo, il danno responsabile della cessazione irreversibile di tutte le sue funzioni.
In conclusione, la modalità di accertamento della morte con criterio neurologico richiede l’identificazione simultanea dei segni clinico-strumentali in grado di documentare la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, condizione quest’ultima, determinata dal “tamponamento cerebrale” ovvero dall’esclusione completa ed intrattabile dell’encefalo dalla circolazione sanguigna.
Si potrebbe definire la “morte cerebrale” come una decapitazione?
A partire dalla definizione dei criteri di Harvard nel 1968, sino a recenti posizioni che mettono in dubbio la validità di quei criteri per l’identificazione della morte, ho l’impressione che non sia stata adeguatamente descritta, e presa in attenta considerazione, la condizione che determina il danno totale dell’encefalo e la conseguente perdita irreversibile di tutte le sue funzioni. Come ho detto in precedenza questa condizione è il “tamponamento cerebrale”, uno stop definitivo, irrisolvibile, del flusso ematico che rifornisce il cervello. In effetti, come anticipa la stessa domanda, si tratta di una situazione di “decapitazione funzionale”; il cervello viene a trovarsi escluso dalla circolazione sanguigna esattamente come accade nella decapitazione anatomica. In questi soggetti, di fatto decapitati, la ventilazione meccanica è responsabile della persistenza dell’attività cardio-circolatoria e del mantenimento di condizioni di “vitalità” biologica nella parte extracranica dell’organismo.
Quali sono le principali argomentazioni di chi contesta questi criteri? Qual è il loro valore scientifico?
Nei soggetti “funzionalmente decapitati”, sottoposti a ventilazione meccanica, è presente l’attività cardiaca e circolatoria. Pertanto, tessuti, organi, strutture nervose (midollo spinale, nervi, parte del sistema nervoso autonomo), sistemi di integrazione neuro-endocrina, godono di una, sebbene instabile, “vitalità” metabolico-funzionale. Questa particolare condizione, viene indicata, dagli oppositori della cosiddetta “morte cerebrale”, come una condizione di “morte imminente” ma non di “morte avvenuta”. La morte sarà tale solo al momento dell’arresto cardiaco. I casi di gravidanza portata avanti per un certo periodo di tempo in donne nelle quali è stata accertata la morte con criterio neurologico, la presenza di risposte motorie a stimolazioni tattili o dolorose, le reazioni di tipo neurovegetativo, rappresentano gli elementi a sostegno delle tesi che rifiutano di considerare morti individui nei quali sono ancora evidenti “segni di vita”. Ancora una volta, credo, debba essere ricordata l’evidenza scientifica del “tamponamento cerebrale” quale causa di “decapitazione funzionale”. Questa è la condizione nella quale è possibile accertare la morte dell’individuo con criterio neurologico. La persistenza di una “vitalità” biologica, che ha nella attività cardiaca la sua espressione emotivamente più rilevante, è, in realtà, il risultato dell’utilizzo delle tecnologie proprie della rianimazione ed è destinata ad estinguersi alla sospensione del loro impiego.
Qual è la relazione tra i criteri di accertamento della morte e la possibilità di prelevare gli organi per il trapianto?
Per gli oppositori dei criteri di Harvard, fu la necessità di legittimare il prelievo di organi destinati al trapianto, a condizionare la decisione di identificare i segni clinico-strumentali dell’estinzione di tutte le funzioni encefaliche con la morte tout court. Bisognava, secondo questa tesi, evitare che il prelievo degli organi corrispondesse ad un’azione responsabile della morte del donatore, in altre parole, fosse un omicidio.
A 40 anni da Harvard, le esperienze sviluppate hanno sempre confermato la validità e la legittimità dei criteri neurologici per l’accertamento della morte. Vorrei aggiungere che le tecniche di studio del flusso ematico cerebrale hanno documentato l’assoluta corrispondenza tra la identificazione clinico-strumentale della cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, e la condizione di “decapitazione” per esclusione dell’encefalo dalla circolazione sanguigna.
Il prelievo degli organi destinati al trapianto avviene, quindi, in donatori nei quali l’accertamento della morte si è concluso, e la persistenza dell’attività cardio-circolatoria, artificialmente sostenuta, consente il mantenimento di buone caratteristiche funzionali negli organi destinati al trapianto.
Quali differenze tra coma, stato vegetativo e morte cerebrale?
Il coma è una condizione clinica caratterizzata da uno stato di abolizione della coscienza e delle funzioni somatiche (motilità, sensibilità, espressione e compressione verbale) associate ad alterazioni, talora marcate, del controllo e della regolazione delle funzioni vegetative o vitali (respirazione, attività cardiaca e pressoria) e della vita di relazione. Il paziente giace per lo più immobile, ad occhi chiusi, in uno stato non suscettibile di risveglio e in assenza di risposte finalizzate a stimoli esterni. Il coma può evolvere o verso la guarigione (completo recupero dello stato di coscienza) o verso la “morte cerebrale” con completa ed irreversibile necrosi di tutte le cellule dell’encefalo o verso lo “stato vegetativo”. Lo stato vegetativo è, pertanto, una evoluzione del coma caratterizzato dal recupero di ciclicità del ritmo sonno-veglia e dal recupero più o meno completo delle funzioni ipotalamiche e troncoencefaliche autonome (presenta funzioni cardiocircolatorie e respiratorie, termoregolazione, funzioni renali e gastrointestinali conservate). Questi pazienti non sono in grado di interagire con gli altri non avendo coscienza di sé o consapevolezza dell’ambiente. E’ opportuno sottolineare che lo stato vegetativo è una condizione potenzialmente reversibile e molti pazienti in tempi più o meno lunghi (mesi o anni) mostrano un recupero dello stato di coscienza. Proprio per queste evidenze cliniche al momento attuale non è possibile esprimere con certezza un giudizio di irreversibilità dello stato vegetativo ma solo un giudizio di cronicità quando persiste per oltre dodici mesi.
Autodeterminazione 1 / Non si può dedurre il “diritto di morire”
E’ IL “FAVOR CURAE” LA SOSTANZA
DELL’ART. 32 DELLA COSTITUZIONE
di Marina Casini
Dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione si vorrebbe dedurre l’esistenza di un “diritto alla non cura”, esteso fino ad includere il “diritto di morire”, da porsi sullo stesso piano del diritto alla cura. L’autodeterminazione del soggetto sarebbe la fonte dell’uno e dell’altro.
Bisogna, innanzitutto, ricordare che non risulta da nessuna parte dei lavori preparatori che il Costituente abbia inteso in qualche modo mettere in discussione il principio di indisponibilità della vita anche da parte del titolare della stessa. E’ noto, poi, che la formulazione ebbe origine dalla drammatica esperienza delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione attuate nei campi di sterminio.
Il non obbligo è inserito tra l’attenzione alla dimensione sociale della salute e il rispetto della persona umana.
L’attenzione sociale al tema della salute non è tanto espressione di un atteggiamento pragmatico-utilitarista in base al quale l’autonomia dei singoli viene compressa in funzione dell’interesse della collettività, quanto di un atteggiamento personalista in base al quale la collettività si fa carico di tutelare la salute dei singoli a prescindere dalla pericolosità sociale di determinate malattie. Le persone in condizioni di indigenza, infatti devono essere messe dall’insieme dei consociati in condizione di curarsi. E’ dunque il “favor curae” la sostanza dell’art. 32. E’ logico dedurre che la cura è un valore che l’individuo deve ricercare e che – di conseguenza – il rifiuto delle cure non è un bene né per la persona malata né per la società nel suo complesso. Va considerato, inoltre, che l’art. 32 è collocato sotto il titolo II della Costituzione che riguarda i rapporti etico-sociali, quelli, cioè, che devono essere ispirati al principio di solidarietà. L’aspetto primario dell’art. 32 non è quello di difendere l’individuo da ipotetiche oppressioni della tecnologia medica, ma, al contrario, quello di assicurare a tutti la salute.
Il richiamo al rispetto della persona umana implica il divieto di ricorrere a misure sanitarie che si impongono con la violenza fisica o che violano, per esempio, la riservatezza della persona in armonia con il divieto di trattamenti disumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali.
In sostanza l’art 32 della Costituzione si fonda sul “favor curae” e i diritti che riconosce sono il diritto alla salute e il diritto a non subire trattamenti sanitari con sistemi coattivi, offensivi, degradanti.
Che significa in questo contesto il “non obbligo di cura”? Significa che non c’è un dovere strettamente giuridico – coercibile e munito di sanzione – di curarsi, ma non significa né assenza di un dovere morale-civico di curarsi laddove non vi è una legge “obbligante”, né libera disponibilità della vita o della morte, della salute o della malattia. In sostanza, se manca la disposizione di legge, le cure possono essere legittimamente rifiutate, ma resta il dovere morale/civico di curarsi e di persuadere alla cura. Una riprova si ricava da ciò che comunemente avviene senza critica alcuna: se taluno rifiuta la cura è lecito e forse doveroso che a lui siano rivolti consigli ripetuti affinché egli accetti la terapia. Viceversa è meritevole di rimprovero il comportamento opposto: il consiglio insistente di non curarsi rivolto a colui che, invece, è deciso a ricorrere alle opportune terapie.
Il “favor curae” e il non obbligo giuridico di curarsi, rafforzano e chiariscono il significato della volontà del paziente nella relazione di cura. La partecipazione responsabile e attiva del paziente, infatti, attraverso il dialogo con il medico, assicura maggior efficacia alla cura stessa perché la scelta della soluzione terapeutica è presumibilmente la migliore se è raggiunta attraverso un dialogo con il medico (nella cosiddetta “alleanza terapeutica”) che riguarda il quando, il come, il luogo, il tipo delle varie possibilità di terapia, le conseguenze, gli effetti collaterali, le alternative. Il consenso del paziente è finalizzato alla reciproca comprensione e dunque al miglior esito della terapia; va letto nella prospettiva di realizzare più efficacemente gli interventi terapeutici più opportuni. In ogni caso l’obiettivo è la salute, non la morte.
Allora: la morte può essere davvero una manifestazione del diritto alla salute? Oppure è esattamente il contrario? Sembra, allora, abbastanza paradossale ricavare la tutela di un asserito diritto alla morte da una norma rivolta ad assicurare il massimo impegno pubblico per la vita. L’art. 32 non tocca, dunque, il principio di indisponibilità della vita umana. È perciò sbagliato sostenere che il “diritto alla cura” conterrebbe anche il “diritto alla non cura” fino al punto di decidere la morte. Così come il richiamo al principio dell’inviolabilità della libertà di cui all’art. 13 della Costituzione per legittimare la scelta di morire attraverso il rifiuto delle cure è paradossale: la scelta di morire contraddice radicalmente la libertà. Se la libertà è inviolabile, come può essere annientabile?
Autodeterminazione 2 / Rispettare concretamente la corporeità
IL RIFIUTO DEI TRATTAMENTI
NON E’ DIRITTO ALL’EUTANASIA
di Alessio Musio
Il termine autodeterminazione indica dal punto di vista antropologico la dimensione di autonomia del soggetto umano. Pensare che l’uomo sia autonomo e libero (prendiamo i due termini come sinonimi) significa pensare perlomeno che egli non sia del tutto condizionato e determinato da ciò che è esterno e estrinseco a lui. Così, è facile vedere per quale ragione la questione dell’autodeterminazione sia spesso intrecciata con quella della dignità dell’uomo: l’essere un soggetto capace, in presenza di alcune condizioni (ambientali, di sviluppo, di salute…), di auto-determinazione indica una modalità d’esistenza assolutamente originale nella natura se non addirittura qualcosa di “eccellente”. Per questo Kant ha riconosciuto nella persona umana un “fine in se stesso”, cioè qualcosa che non è mai riducibile unicamente a “mezzo”.
L’autodeterminazione umana, in altri termini, non coincide con una forma di assoluta sovranità del soggetto, ma è dipendente da quella condizione umana in cui si trova inscritta e in cui essa trova il suo contenuto, una condizione che è segnata dalla possibilità dell’esperienza della malattia, della disabilità e dalla certezza della morte. Come pensare allora che la libertà non sia una sorta di “scherzo”, di fronte all’ineluttabilità della morte e alla certezza dell’impossibilità di debellare ogni forma di malattia? – sembrano dire i critici della libertà e gli insoddisfatti della condizione umana. Ora, al di là del fatto che anche in questo caso si conferma come molto spesso le delusioni derivino da troppo facili illusioni, ciò che vorremmo mostrare è che il tentativo in atto in alcuni filoni del dibattito bioetico di rivendicare la legittimità del diritto all’eutanasia (il farla finita con la condizione umana) su quella, indiscutibile sul piano morale, di rifiutare i trattamenti costituisca una sorta di passaggio indebito.
Passaggio indebito perché in senso lato il diritto di rifiutare i trattamenti non è di per sé riducibile ad una forma di obiezione e neppure di rassegnazione nei confronti della condizione umana, ma è soltanto l’accettazione della condizione mortale dell’uomo. In senso stretto poi – e forse sarebbe il caso di limitarsi a questo senso – il diritto di rifiutare i trattamenti non è legato essenzialmente al tema della morte, dal momento che non significa nient’altro che la proibizione morale di intervenire sul corpo di un paziente senza il suo consenso, in ragione del fatto che il corpo non è una “cosa” legata a qualcuno, ma l’espressione prima della soggettività. In altri termini, riconoscere il diritto di rifiutare i trattamenti è equivalente a condannare gli esperimenti medici condotti dai nazisti (che pure hanno portato – come è noto – ad acquisizioni scientifiche), e significa dunque prendere atto del nesso inscindibile che esiste tra l’essere persona umana e l’essere persona corporea. Questo diritto, insomma, non è altro che il riflesso della giusta osservazione hegeliana per cui non si può rispettare la dignità di una persona umana senza rispettare concretamente la sua corporeità e, in positivo, è un modo per salvaguardare l’autonomia del paziente, cercando di renderlo corresponsabile dei trattamenti che lo riguardano (sicché l’alleanza medico-paziente, in fondo, non è altro che una forma di opposizione a una variante dell’abuso dell’autorità).
Far passare il diritto di rifiutare i trattamenti come il viatico per il diritto di eutanasia, dunque, è indebito: del resto sono gli stessi fautori di questa equiparazione a rendersi conto della sua mancanza di validità, dal momento che passano subito ad un altro argomento: la rivendicazione del diritto di morire sulla base della signoria dell’auto-determinazione umana. Ma questo è appunto un altro argomento, che pretende che vi sia un’affermazione della volontà, come bene ha mostrato Adriano Pessina nel suo testo dedicato al tema (Eutanasia. Della morte e di altre cose, Cantagalli, Siena 2007, in particolare: pp. 41-69), nel momento in cui è tolta la fonte della volontà stessa, dimenticando cioè che si può volere solo nella misura in cui si è vivi.
Una montagna ideologica nel diario di chi ha staccato il respiratore
RICCIO, TUTTO DA CANCELLARE
TRADITA LA DIGNITA’ DI WELBY
di Stefano Colucci
Leggere “Storia di una morte opportuna”, il diario del medico che ha staccato il respiratore che teneva in vita Piergiorgio Welby, non è cosa che lascia indifferenti. Non è facile dunque scriverne.
Non è facile per ragioni che vale la pena subito chiarire. Il volume, scritto da Mario Riccio e curato dalla giornalista di Panorama Gianna Milano, è diviso in due parti, la prima relativa ai giorni precedenti la morte di Welby e la seconda riguardante gli sviluppi giudiziari, politici e mediatici della vicenda. Se la prima parte è dolente perché si entra nella carne viva di un travaglio umano, la seconda parte è amara perché si entra nei gangli asfittici della polemica ideologica.
Proseguiamo, nel vivo del racconto dell’incontro tra Riccio e Welby. Le pagine relative all’avvicinamento del medico ai radicali Cappato e Pannella sono costruite con una certa perizia: Riccio appare come un tranquillo professionista che per caso è rapito da un impulso improvviso di buona coscienza che lo porta a cercare Welby. Capiamo nel corso della lettura che è da tempo un medico molto interessato al tema, con una posizione ideologica già ben delineata, con un curriculum solido che ogni tanto compare a sostenerne la figura. Non uno qualunque, insomma.
Questa parte del libro ha sullo sfondo la dignitosa figura di Welby, su cui tornerò, e ha due temi ricorrenti: la lucidità di Riccio nell’individuare il procedimento per mettere fine all’esistenza di Welby evitando l’accusa di eutanasia, la pervicacia dei radicali nell’inseguire il risultato, la morte, con qualsiasi mezzo. L’intervento di Riccio si articola così: richiesta delle volontà di Welby davanti ai testimoni, somministrazione di una dose limitata di sedativo per via venosa (angosciante la descrizione della ricerca della vena femorale per l’iniezione), successivo spegnimento del respiratore. La dose limitata di sedativo iniettato non costituisce di per sé elemento di rischio per la vita di Welby, quindi non può produrre un’imputazione per eutanasia ai danni di Riccio. La morte sopraggiunge dopo circa mezz’ora dallo spegnimento della macchina, quando da un po’ Welby dorme. Inquietante la presenza alle spalle di Riccio di due medici belgi, convocati da Cappato e Pannella, pronti a dare il colpo letale a Welby in barba alle leggi italiane, forti della non punibilità dell’eutanasia nel loro Paese. Riccio rappresenta così per i radicali una via dolce al raggiungimemto dell’obiettivo, assecondare il desiderio suicida di Piergiorgio Welby. Una via che si dimostra non punibile perché praticata nell’esecuzione di un diritto, il rifiuto alle cure da parte dell’interessato, sancito dalla Costituzione. Il racconto del dopo mostra come l’azione di Riccio abbia trovato un varco pericoloso nell’ordinamento giuridico, che permette ad un medico di assecondare una volontà sostanzialmente suicida del paziente. La dinamica praticata da Riccio è risultata non punibile per l’espressa volontà del paziente cosciente, sebbene fossero presenti in sostanza caratteristiche di reato riconducibili all’omicidio di consenziente. Sorgono due domande: cosa accade per il paziente non cosciente? Il diritto del paziente a rifiutare le cure si configura ipso facto come dovere del medico a sospenderle? Sono due interrogativi, profondi e forti, che ci fanno capire come sia necessario, ora, intervenire con una legge che impedisca la giungla intorno alla fine della vita.
Nella seconda parte del libro fa rabbia notare come si accumulino con ideologica insistenza le accuse alla Chiesa e le colpevoli omissioni di ogni replica, le polemiche senza contraddittorio sui funerali religiosi, le denunce ribadite sebbene infondate sulla morte di Giovanni Paolo II, le semplificazioni di concetti articolati (come la critica all’autodeterminazione), il tutto intrecciato alla storia della vicenda giudiziaria e mediatica di Riccio, conclusasi con l’assoluzione nel luglio 2007. Un’avvertenza, dove finisce la storia di Welby comincia quella di Eluana Englaro: si comprende, purtroppo, che il libro lancia un ponte tra le due vicende. Al centro il tema della possibilità del paziente, cosciente e no, di rendere note le sue volontà.
Due osservazioni in conclusione. Una su Welby. Appare in controluce nel libro, la sua figura è tragica e toccante: vale la pena di ricordare che decide di finire la sua esistenza dopo dieci anni di vita attaccato al respiratore. Dieci anni in cui ha potuto scrivere poesie, fare attività politica, amare con lo spirito ed essere amato. Essere assolutamente dignitoso. Ha rimandato il momento della morte di due giorni per dimostrare rispetto a chi gli aveva chiesto ancora una piccola riflessione, ha voluto per l’ultima volta vedere “il gioco dei pacchi”, ha alzato gli occhi al cielo. Dignitosissimo, ancora aveva tutte le funzioni principali del vivere umano: rispetto del prossimo, amore dei cari, spirito del gioco, sguardo al mistero. Soffriva, d’accordo, e la sua scelta dolorosa merita rispetto. Infondata è però l’idea di chi considera la condizione di Welby di per sé indegna, come più volte nel libro si legge. È terribile quest’idea per le mille e più persone che nelle stesse condizioni vogliono ancora lottare.
Seconda considerazione. La questione della fine della vita è dolente e aperta, questo libro lo dimostra, perché troppi varchi sono ormai aperti nel nostro ordinamento e ancora una volta è necessario ragionare nei termini di riduzione del danno. Bisogna preservare il principio dell’illegittimità dell’eutanasia (ciò che ha salvato Welby dalle mani venefiche dei medici belgi); bisogna tutelare la professionalità del medico che non può perdere voce in capitolo e responsabilità nella relazione di cura (un diritto del paziente può configurare un pericoloso dovere del medico?); bisogna garantire ognuno di noi, in caso di non coscienza, da facili e strumentali presunzioni di intenti mortiferi; bisogna evitare che dilaghi la definizione, più volte richiamata nel libro, di terapia con esito infausto (chi è senza speranza sente la vita stessa come un’esperienza ad esito infausto); bisogna soprattutto recuperare l’amore per avvicinare chi soffre. Magari trovare mille motivi di riflessione, mille “giochi dei pacchi” e soprattutto un profondo sguardo al mistero che allunghino la vita a chi sta per gettare la spugna.
Dal congresso internazionale di Roma proposte a 360 gradi
UNA NUOVA GIOVINEZZA
PER L’HUMANAE VITAE
di Elena Giacchi*
Per celebrare il 40° anniversario dell’Enciclica Humanae Vitae, il 3 e 4 ottobre 2008 si è svolto a Roma, presso l’auditorium dell’Università Cattolica un Congresso internazionale, realizzato da differenti istituzioni: Università Cattolica del Sacro Cuore e Centro studi e ricerche per la regolazione naturale della fertilità, Pontificio istituto Giovanni Paolo II di studi su matrimonio e famiglia, Confederazione italiana dei centri per la regolazione naturale della fertilità e Institut européen d’education familiale – Ieef.
L’evento, con la presenza di oltre 500 partecipanti provenienti da 18 Paesi, dell’Europa, Africa, America latina, ha avuto il patrocinio di 15 Associazioni del mondo scientifico, civile ed ecclesiale, ministero del welfare, Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia, Ufficio per la pastorale universitaria del vicariato di Roma, Forum associazioni familiari, Associazione medici cattolici italiani – Amci, Federazione europea associazioni medici cattolici – Feamc, Confederazione italiana consultori di ispirazione cristiana, Unione consultori italiani prematrimoniali e matrimoniali, Movimento per la vita italiano, Federazione italiana ostetricia e ginecologia Fiog, Associazione ginecologi universitari italiani – Agui, Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani – Aogoi, Associazione scienza & vita, Società italiana per la bioetica e i comitati etici – Sibce.
Il congresso si è articolato in tre sessioni suddivise nelle due giornate di lavori, dedicate a:
– l’attualità dell’Humanae Vitae – profondità e ricchezza del suo messaggio, inesauribile valore profetico; quanto l’Enciclica, insieme ai successivi approfondimenti del pensiero teologico del Magistero della Chiesa sull’amore umano e la procreazione responsabile- abbiano ancora da dire all’uomo di oggi;
– il bilancio di quanto i destinatari dell’Humanae Vitae – coniugi, uomini di scienza, pubbliche istituzioni e pastori della Chiesa – abbiano potuto realizzare nel contesto ecclesiale e sociale, in risposta alle sollecitazioni ricevute;
– le strategie di attuazione dell’Enciclica e i settori di intervento per un significativo apporto alla promozione del bene della famiglia e della società.
Ha introdotto i lavori il prof. Lorenzo Ornaghi, Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Sono seguiti il saluto del cardinale Ennio Antonelli, la lectio Magistralis del cardinale Carlo Caffarra, su: “Il Messaggio delle Humanae vitae: aspetti teologici-dottrinali”. Tra i relatori Eugenia Scabini (Università Cattolica), Emma Fattorini (Università La Sapienza), Livio Melina e Juan Josè Pérez-Soba (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), Lucio Romano (Università di Napoli), monsignor Giuseppe Anfossi (Presidente Commissione Famiglia e Vita della Cei); Michele Barbato, Giancarla Stevanella, Paola Pellicanò, Gabriella Bozzo e Sandro Girotto (Ieef e Confederazione italiana dei centri per la rnf), Riccardo Marana direttore Istituto scientifico internazionale Paolo VI di ricerca sulla fertilità ed infertilità umana, Elena Giacchi (Centro studi e ricerche rnf).
La tavola rotonda della sessione conclusiva, si è arricchita dell’apporto dei responsabili di società scientifiche e istituzioni del mondo ecclesiale e civile, interessate a vario titolo ai temi della procreazione, della fertilità, della famiglia e della vita. Gli interventi hanno evidenziato numerosi punti di convergenza e prospettive di collaborazione per la realizzazione di progetti formativi e di ricerca, rivolti alla promozione di una dimensione pienamente umana della sessualità, dell’amore, della procreazione.
Momento significativo il 4 ottobre, nella Basilica di San Pietro, la solenne celebrazione eucaristica presieduta dal segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone, seguita dalla visita alle tombe di Paolo VI e Giovanni Paolo II.
La Dichiarazione finale esprime in modo significativo i contenuti e le prospettive emerse dal Congresso.
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DICHIARAZIONE FINALE
In apertura del Congresso abbiamo ascoltato il messaggio che il Santo Padre ha voluto inviarci. Con immensa gioia e gratitudine abbiamo accolto le Sue parole.
Egli ci ha ricordato con amore di Padre quale sia l’origine, il fondamento e l’obiettivo del nostro lavoro: contribuire a custodire il significato dell’amore umano come Dio l’ha donato agli uomini. Riportiamo le Sue parole:
“La tecnica non può sostituire la maturazione della libertà, quando è in gioco l’amore. Anzi, come ben sappiamo neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenza proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano”… “I metodi di osservazione, che permettono alla coppia di determinare i periodi di fertilità, le consentono di amministrare quanto il Creatore ha sapientemente iscritto nella natura umana, senza turbare l’intero significato della donazione sessuale. In questo modo i coniugi, rispettando la piena verità del loro amore, potranno modularne l’espressione in conformità a questi ritmi, senza togliere nulla alla totalità del dono di sé che l’unione nella carne esprime”.
Il congresso ha quindi messo a fuoco:
l’attualità del messaggio dell’Humanae Vitae e lo sviluppo del pensiero teologico sull’amore umano che rispondono ad una sfida in tema di famiglia, procreazione e sessualità, nel contesto culturale, scientifico e nella prassi medica attuale;
la ricchezza dell’insegnamento della Chiesa, che, non solo non contraddice, ma dà un impulso positivo alla ricerca che discipline umanistiche, scientifiche e soggetti educativi anche laici, sviluppano in favore di una visione antropologica della sessualità espressa in tutte le sue dimensioni: corporea, affettiva, relazionale e spirituale;
l’apporto di alcuni “uomini di scienza” che, in risposta alle sollecitazioni dell’Humanae Vitae, hanno dedicato risorse ed energie, nello sviluppo dei moderni metodi naturali – Metodo dell’Ovulazione Billings e Metodi Sintotermici – applicati oggi con successo in ogni circostanza della vita fertile della donna, indipendentemente dalla regolarità o irregolarità dei cicli;
i comprovati fondamenti scientifici, la rilevanza socio–sanitaria, il valore diagnostico e preventivo, che fa dei metodi naturali uno strumento efficace per la tutela della fertilità della donna e ne giustifica l’utilizzo clinico nell’approccio alle coppie che ricercano la gravidanza;
la fecondità di vita e di amore nelle coppie che, attraverso l’apprendimento del metodo naturale accolgono e fanno proprio il messaggio dell’HV, ricchezza che talora induce chi ne fa l’esperienza ad impegnarsi in uno specifico servizio, per trasmettere ad altri il “di più” sperimentato;
l’esperienza dei Centri di insegnamento dei metodi naturali e il loro ruolo educativo insostituibile nella diffusione di una cultura e di uno stile di vita che valorizza “l’avventura” dell’amore coniugale, della famiglia aperta all’accoglienza della vita come dono;
la professionalità degli insegnanti dei metodi naturali moderni, attualmente garantita da forme associative nazionali ed internazionali, quali la Confederazione italiana dei centri per la rnf e l’Ieef, mediante la precisazione di linee guida per il loro curriculum formativo di base, e la formazione permanente;
la sfida educativa e pastorale che coinvolge i pastori della chiesa nel trovare una modalità efficace di educare i giovani e le coppie alla libertà e responsabilità, stimolandoli allo sviluppo di una personalità autonoma ed adulta, e accompagnandoli nella scoperta della bellezza del disegno di Dio sull’amore umano e sulla generazione della vita;
la varietà di esperienze maturate all’interno di istituzioni, cattoliche e laiche, impegnate a vario titolo nella promozione e tutela della famiglia, della fertilità e della vita;
l’attenzione delle pubbliche istituzioni alle conseguenze sociali di una sessualità e di una procreazione vissuta in modo riduttivo, e avulsa dalla globalità della persona senza la necessaria integrazione di tutte le sue dimensioni. Questa attenzione è stata evidenziata anche dal messaggio di apprezzamento al congresso, inviato dal Presidente della Repubblica Italiana.
Le istituzioni organizzatrici del congresso e gli oltre 500 partecipanti
CHIEDONO
alle differenti Istituzioni sollecitate dal messaggio dell’ Humanae Vitae, di ricercare un’effettiva collaborazione, per realizzare progetti formativi e di ricerca, rivolti alla promozione della famiglia, della vita e all’attuazione di una autentica procreazione responsabile, attraverso la proposta dei metodi naturali.
CHIEDONO
alla Comunità Scientifica, di prendere atto del comprovato valore scientifico e sociale dei metodi naturali e di contribuire in maniera decisiva al loro sviluppo e alla loro diffusione, in ambito accademico, medico e socio- sanitario.
CHIEDONO
alla Comunità Ecclesiale, di elaborare progetti educativi per inserire concretamente l’insegnamento dei metodi naturali nella pastorale ordinaria.
CHIEDONO
ai Consultori di ispirazione Cristiana, di considerare sempre di più, come parte integrante delle loro equipe, l’insegnante dei metodi naturali , figura necessaria per un aiuto concreto agli adolescenti, ai giovani e alle coppie di sposi
CHIEDONO
alle pubbliche Istituzioni, di dare un riconoscimento professionale alla figura dell’Insegnante dei metodi naturali, al fine di un suo effettivo inserimento nei servizi educativi e socio-sanitari. Nonché di accogliere in base al principio di sussidiarietà, proprio della Dottrina Sociale della Chiesa, e richiamato dall’articolo 118 della Costituzione Italiana, i progetti dell’Associazionismo familiare rivolti alla tutela della vita, integrandoli nelle proprie strutture.
*Centro Studi e Ricerche per la Regolazione Naturale della Fertilità-ISI, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
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Tutti gli appuntamenti sono consultabili sul sito www.scienzaevita.org
Presentazione del nuovo libro di Carlo Casini, Marina Casini, Maria Luisa Di Pietro: Eluana è tutti noi. Perchè una legge e perchè no al "testamento biologico"
Roma – Sala Stampa della Camera dei Deputati, Via della Missione 4
30 Ottobre 2008
Eluana: nè accanimento nè eutanasia
Giarre, Salone degli Specchi del Palazzo Comunale
31 Ottobre 2008
1968/2008 donne in cammino fra memoria e desideri – 40 anni di impegno e trasformazioni nella società e nella chiesa
Sant’Angelo Lodigiano (LO) – Lodi – Casalpusterlengo (LO)
07 Novembre 2008
5° Incontro Nazionale Associazioni Locali Scienza & Vita:
Quale legge sul fine vita?
Roma – Villa Aurelia, via Leone XIII, 459
21 Novembre 2008
Al centro l’uomo – Dall’Humanae Vitae all’Evangelium Vitae
Gazzada Schianno (Varese) – Centro Convegni Villa Cagnola, Sala Paolo VI, via Cagnola 19
23 Novembre 2008
Obiezione di coscienza: scelta per la vita
Milano, Auditorium dell’Istituto Salesiano – Via Tonale 19 (adiacenze Stazione Centrale)