La condizione dei disabili: intervista alla professoressa Maria Luisa Di Pietro per Riabilitare News ( www.foai.it)

facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Si continua a riflettere sulla condizione dei disabili,sui loro diritti, sulle responsabilità di chi lavora a riabilitare.

Le Nazioni Unite sono impegnate a varare una nuova convenzione sui diritti delle persone con disabilità. In Italia, al di là dei problemi economici che si acuiscono nel momento in cui il governo deve mettere a punto con la Finanziaria le sue operazioni di spesa, è recente (17 marzo 2006) un documento del comitato nazionale per la Bioetica dal titolo “ Bioetica e riabilitazione”. Merito di questo documento – è scritto nella prosentazione- dovrebbe essere quello di “andare oltre la bioetica clinica, attivando considerazioni psicologiche, antropologiche e sociali di estremo rilievo”. A sollecitare questa iniziativa del comitato era stata l’associazione La Nostra Famiglia, nel 2004. Chi ha più operato nella stesura finale del documento è stata la professoressa Maria Luisa Di Pietro, oggi presidente dell’Associazione Scienza e Vita. A lei rivolgiamo le nostre domande.

Una premessa: al di là della letteratura scientifica, avete sentito il bisogno di raccogliere le opinioni di centri e istituzioni che operano nel campo della riabilitazione?
Non abbiamo fatto – se è quello che vuole sapere – delle audizioni, per una ragione molto semplice. Nel corso della mia esperienza quale membro dell’osservatorio sulla integrazione scolastica dei bambini cosiddetti handicappati, avevo avuto modo di conoscere tantissime associazioni che rappresentano sia le persone con disabilità, sia le loro famiglie. Per essere corretti avremmo dovuto adeguarci alla realtà e sentirle tutte. Ma non è stato possibile. Alla fine, quello che abbiamo fatto, al di là del ricorso alla letteratura scientifica, è stato attivarci per trovare materiali, riferimenti, indicazioni sulle aspettative delle varie associazioni, in modo da farle proprie all’interno di un documento.

Le impressioni che le sottopongo. La prima: il documento insiste in più punti sulla formazione degli operatori: quali carenze – non dette – debbono preoccupare?
E’ emerso, già in partenza, nei nostri lavori, il tema delle peculiarità della riabilitazione e, in parallelo, quello delle diverse situazioni nelle quali il riabilitatore può trovarsi ad operare. Il riabilitatore ha un lavoro più pesante di quello svolto dal medico: sia per il tipo di decisioni che deve prendere di giorno in giorno – da solo o in équipe -, modificando, se necessario, l’approccio riabilitativo , in base ai risultati raggiunti e al fine di prendere meglio le misure in vista della risposta desiderata che può farsi attendere; sia per i tempi della riabilitazione, che sono tempi dilatati.
Un conto è somministrare una terapia e riscontrarne gli effetti in un breve periodo, altro è iniziare un approccio riabilitativo che può proseguire per dieci o venti anni, quando si tratti di bambini o di casi particolarmente complessi. Il prolungarsi della riabilitazione comporta una relazione continua con il paziente e non solo. Non c’è soltanto il minore, o anche la persona adulta ad avere accanto a sé la propria famiglia – tanto più quando la disabilità limita fortemente l’autonomia del soggetto- per cui l’operatore deve mettersi in relazione anche con i padri e le madri.
Quindi, al riabilitatore si richiedono notevoli competenze. Che non sono solo tecniche, ma che investono la capacità di relazione. Se pensiamo ai giovani che frequentano i corsi di laurea triennali, altro non sono che i diciannovenni e i ventenni dei nostri tempi che noi docenti universitari dobbiamo far diventare adulti, capaci di gestire situazioni complesse. Con il tempo maturerà la loro capacità di prendere decisioni, di stare accanto al paziente e di lavorare con lui, ma è importante che almeno una buona impostazione sia fornita subito all’interno dell’università. Se è vero che si può ricorrere più tardi a “ toppe di formazione”, credo però che sia meglio partire con una buona offerta formativa: formazione che non è solo l’informazione tecnica, ma riguarda la crescita psicologica, lo sviluppo affettivo, la capacità relazionale e la responsabilità morale.
Certo parliamo di lauree triennali e in quei tre anni – lo vedo con i miei studenti- si corre per cercare di sopperire a tutte le esigenze di tipo informativo e formativo. Per ora è questa la struttura del corso di laurea triennale e il problema è sfruttare al meglio questo tempo. Ma è anche vero che se lo studente contestualizza le informazioni tecniche in un progetto formativo, si ottengono i risultati migliori. Senza per questo escludere una specialistica – cioè un + 2 – che senza escludere , come è oggi, un approccio soprattutto manageriale, sappia immaginare “ un manager per la promozione della persona “. Non un manager quindi che si occupi di pensare in chiave economica e di gestione delle risorse, ma un manager preoccupato da altro.

La seconda impressione: nel documento si parla soprattutto di bambini disabili e assai meno di adolescenti e di giovani disabili: manca quell’età che è più carica di incertezze e di problemi ( personali e di relazione con l’altro), dal cui superamento può scaturire un modo di trovare il proprio spazio nel mondo.
Va detto che gli argomenti, nel campo della riabilitazione, sono veramente tanti e qualcuno non è stato da noi sviluppato nella sua interezza. Dico subito che si può guardare al mondo della adolescenza e della giovinezza, da due prospettive: puo’ esserci il bambino che nasce con una disabilità e che deve essere accompagnato negli anni successivi della sua adolescenza e della sua giovinezza; come può esserci invece il ragazzo che si trova a doversi misurare con una disabilità sopravvenuta. Abbiamo ricompreso i giovani nell’età adulta. La ragione che ci ha spinto a dividere il documento in due parti – quella relativa al bambino e quella relativa all’adulto-risale al fatto che la riabilitazione del bambino ha caratteristiche peculiari, come ho avuto già modo di accennare, quando ho parlato, ad esempio, del ruolo dei genitori e della necessità per l’operatore di confrontarsi con più soggetti e non con il solo paziente. E’ vero, come lei dice, che il bambino non tematizza subito il suo problema, come può essere il fatto di non sentire nel caso di bambini non udenti : fino a nove-dieci anni non si rende conto di cosa questo comporti al fine del suo inserimento sociale. Litiga, ad esempio, con i genitori perché deve portare delle protesi, o perché le protesi stesse si rompono e sono spese non indifferenti per le famiglie: ma il bambino non è ancora in grado di mettere a fuoco i vari aspetti della situazione che sta vivendo. Fino ad una certà età non si pone problemi. Quando comincia a farlo, con l’ingresso nell’adolescenza, per l’operatore ( o l’équipe ) il lavoro non si presenta facile, perché il bambino disabile non manifesta solo quelle paure che sono proprie di qualsiasi bambino, ma si aggiunge il timore di non essere accettato, di non avere sempre i genitori accanto in un mondo che chiede reazioni pronte, efficienza piena e tutto il resto che sappiamo. Non trascurabili sono poi i rapporti all’interno della famiglia se cisono fratelli e sorelle che possono essere portati o ad assumersi il peso della disabilità o a fuggirla totalmente. Ripeto che di adolescenza ci siamo occupati solo in parte nel documento, anche se l’adolescenza presenta aspetti delicati, importanti. E’ l’età nella quale, oltre alle paure e al timore di non essere accettati dagli altri, i disabili vivono molte difficoltà nell’accettazione di se stessi. A questo punto il rapporto, soprattutto con il riabilitatore, evolve verso una fase adulta nella quale non sono più i genitori, ma è l’adolescente stesso a decidere cosa fare o cosa non fare. Si estende anche a loro quel tema che investe la medicina di oggi, ovvero il tema del consenso.

La terza impressione: Il documento si pronuncia sull’accanimento riabilitativo, con una propensione più al no che al sì. Ma è facile dire quando la riabilitazione non serve più? Chi spinge di più per la riabilitazione: chi la pratica – i medici ovviamente- o chi si attende il miracolo, come le famiglie? La resistenza del disabile deve essere capita e rispettata?
Io credo che la questione dell’accanimento riabilitativo sia stata posta in maniera interlocutoria. Già è difficile definire l’accanimento terapeutico e spesso il medico stesso non riesce a capire quale sia il punto oltre il quale non andare.Dal “no” del paziente il problema si sposta sulla responsabilità del medico e sulla formazione scientifica. Noi, agli studenti, diciamo che ciò che è “proporzionato” va fatto e ciò che è “ sproporzionato” è accanimento. Il campo della riabilitazione – e il documento voleva farlo emergere- è un campo totalmente indefinibile. Una caratteristica della riabilitazione, che la distingue da tutta la pratica medica, è proprio l’impossibilità di prevedere il risultato. Non sappiamo infatti quale sarà la capacità di reazione del paziente: potremmo averla sottovalutata o sopravvalutata; potremmo avere il risultato dopo dieci sedute o dopo venti.L’orientamento del documento non è stato allora quello di evitare l’accanimento riabilitativo, ma di interrogarsi sulla possibilità di riconoscerlo nel campo della riabilitazione e, comunque, anche se si arrivi a dire che è accanimento quel certo trattamento e lo si sospende, non ci sia l’abbandono della persona. Se, dopo tentativi ripetuti, e dopo le dovute consultazioni, quello che si sta facendo può apparire come un accanimento riabilitativo ( re-lativamente ad una determinata tecnica e, quindi, non escludendo che cambiando tecnica muti il risultato), comunque la persona potrà essere riabilitata in tante altre maniere:la promozione della persona, al di là della riabilitazione funzionale, si raggiunge anche in altri modi. Questo era il messaggio che il Comitato voleva lanciare. In linea generale, noi possiamo avere un’ idea di intervento proporzionato che parte dall’operatore sanitario, ma anche un’ idea di proporzionalità che parte dal paziente. Nel campo della riabilitazione ha un ruolo molto importante la motivazione della persona che deve essere riabilitata per cui è molto difficile stabilire qual è il punto oltre il quale non si può andare. Aggiungo che, sul versante medico, oggi sono molteplici gli approcci riabilitativi e le competenze specialistiche: quiesto dovrebbe spingere ad essere più umili , nel senso di mettersi a confronto anche con ambiti frequentati da altri, riconoscendo i propri limiti. Diversamente si fa il danno della persona che chiede aiuto.

La quarta impressione: nel documento si dà spazio ad un processo educativo nel quale il disabile prenda coscienza dei suoi limiti. Ma come evitare che questo agisca da freno sia dei suoi desideri e delle sue aspettative, sia dei diritti che gli appartengono? Non pensa che sarebbe più giusto affermare con decisione che il processo educativo deve essere orientato concretamente all’autonomia del disabile ai fini della sua inclusione sociale?
Le rispondo con una mia valutazione personale. I diritti sono fuori discussione. Sono di per sè riconosciuti tanto che non devono essere neanche rivendicati, ma è la società che si deve fare carico di tutti suoi doveri. Sono i doveri della società verso i propri cittadini e i loro bisogni a non essere adempiuti. Quanto al processo educativo come oggetto della riabilitazione, la cosa è stata pensata soprattutto per il rapporto che il riabilitatore deve avere con la persona che gli è affidata. Questo rapporto può essere fondato sull’autonomia, ma molte volte questa autonomia non c’è: autonomia intesa con capacità di scegliere, più che di fare qualcosa. Oppure il rapporto può avere una base contrattualistica: tu fai questo perchè io te lo chiedo. A parere del Comitato questi modelli non si adattavano al rapporto riabilitatore- riabilitato. Il modello educativo è stato preferito per l’idea dell’accompagnamento che impegna il riabilitatore non solo sul terreno sanitario, ma in tutto, come avviene ogni volta che un educatore si vede affidata una persona.
Nel rapporto educativo, l’educatore deve saper trarre dalla persona tutte le sue potenzialità, perchè poi possa andare avanti da sola. Gli obiettivi che si vogliono raggiungere sono quindi l’autonomia e l’inclusione. Ma nel processo educativo tutti noi ci dobbiamo confrontare con dei limiti. Il limite fa parte del nostro essere persone in qualsiasi situazione, in qualsiasi relazione.Non è un fatto che riguardi solo i disabili. Porre l’accento sui limiti non significa invitare la persona a non superarli. Non è una scelta di rinuncia, ma di consapevolezza.

La quinta impressione :Insisto sull’educazione. Il disabile, nel cammino verso una possibile autonomia, non deve scoprire da sé quello che può volere o non volere, fare o non fare? Tutto questo non richiede un rapporto quanto più possibile alla pari tra disabile e chi gli è accanto? Nel documento non si parla, mi sembra, di una comunicazione aperta su tutti e due i versanti. Il disabile ha molto da dire, ma bisogna capirlo.
Da ogni persona si può apprendere molto e a ogni persona noi possiamo dare tanto. Con i disabili- e mi richiamo a esperienze personali- ci può essere una difficoltà di comunicazione, che non è però colpa loro. Loro si esprimono, ma sono io che non riesco a capire e a comunicare con loro. Dunque sono io che non riesco a farmi comprendere. E’ tutta la società che si dovrebbe far caricodi un diverso approccio comunicativo, per mettere i disabili nella condizione di dare il meglio di sé. Nel processo educativo, da me richiamato, noi siamo portati a pensare che non ci sia un rapporto alla pari. Ma non credo che sia cosi’. Io chiamo gli educatori “ compagni di viaggio”e spesso accade che quello che l’educatore dà è meno di quello che riceve: il processo educativo è un processo bidirezionale. Io penso ad un diverso modo di educare, che è un andare avanti insieme, con un travaso di suggestioni, di sensazioni, di insegnamenti nei due sensi.

La sesta impressione: anche nel vostro documento non si tocca il tema del riconoscimento di una dimensione affettiva che può tradursi in amicizia e amore.Ricordo in proposito la lettera di Giovanni Paolo II. Purtroppo, quello dell’affettività e della sessualità dei disabili, rimane un argomento tabu’. La stessa nuova convenzione ONU sembra tacere su questo punto. Sappiamo che le famiglie sono sole e spesso disperate. Non c’è un dovere a prendere in esame anche i problemi che sembrano piu’ complessi?
Sicuramente. Se non erro, in una nota del documento è stato detto che non ci si occupava però di questo tema. Conosco il problema, so del messaggio di Giovanni Paolo II, ho avuto confronti con persone che di questo si occupano. E’ un problema che è poco trattato e che invece meriterebbe attenzione. Nel discorso di Giovanni Paolo II l’aspetto dell’affettività e della sessualità veniva letto in una chiave ben precisa: la sessualità non è intesa solo come genitalità, ma come dimensione totale della persona. Siamo esseri sessuati, siamo uomini e donne. Il problema della genitalità ne consegue. E’ anche vero che, con riferimento ai disabili anche gravi, c’è chi centra il discorso di più sulla genitalità.
Credo che si debba stabilire da quale punto partire, come credo che si debba affrontare il tema della difficoltà delle famiglie e denunciare forme destinate a tagliare il problema. Un precedente documento del Comitato Nazionale di Bioetica si era occupato della sterilizzazione non volontaria, con riferimento alla donna con disabilità mentale. Ripeto che il tema va discusso e ci sono persone che se ne stanno occupando. Sicuramente non se ne parla a sufficienza.

ANTONIO LEONE

image_pdf
facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Pubblicato in Attività & News, News & Press