Il chirurgo e il suo bisturi

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La parola d’ordine è “dialogo”, eppure quello sul testamento biologico sembra essere un monologo. Dal momento che il dialogo si basa sul confronto tra più persone al fine di esprimere sentimenti diversi e discutere idee opposte, perché si possa dire che si sta dialogando è, infatti, necessario che vengano soddisfatte alcune condizioni.
E’ una questione di metodo, prima ancora che di contenuto.

La prima condizione è che chi non condivide la stessa idea, va non solo “sentito” ma anche “ascoltato”. Prevedere audizioni parlamentari di esperti rappresenta, senza dubbio, un’apertura al dialogo.
Se all’esperto non si dà, però, possibilità di replica se non per iscritto, più che un dialogo si configura un doppio monologo. Se all’esperto si assegna un tempo ridottissimo per esporre il proprio pensiero – tra l’altro su una materia così complessa come quella di fine di vita -, non rimangono che due alternative: o non dire nulla o parlare alla velocità di un disc-jockey. Se all’esperto viene chiesto di produrre un testo scritto nel quale potrà finalmente esprimere tutto il suo pensiero, rimarrà sempre il dubbio se quanto egli ha scritto verrà letto e come verrà interpretato.

La seconda condizione è che, trattandosi di materia che riguarda ciascuno di noi – la malattia e la morte sono esperienze inevitabili -, si dia a tutti la possibilità di esporre le proprie idee, di argomentarle e di sostenerle.
Se si gioca con l’emotività attraverso il metodo “dei casi”, suscitando sentimenti di timore, paura e indignazione, l’obiettivo ultimo non è il dialogo quanto piuttosto il condizionamento dei sentimenti e del pensiero altrui. Se si cerca di anestetizzare le coscienze con l’ausilio dei fumi del “buonismo” a tutti costi, l’obiettivo ultimo non è il dialogo quanto piuttosto vincere ogni resistenza, ogni capacità di critica da parte dell’altro, per poter poi operare indisturbati anche in assenza del suo consenso. E quando il bisturi del chirurgo verrà definitivamente affondato, non si avvertirà alcun dolore, ma la consapevolezza dell’amputazione del diritto di esprimere la propria opinione renderà, senz’altro, il risveglio molto amaro. Una chiara violazione dell’esercizio di autonomia, perpetrata – e questo è uno dei paradossi – da parte di quanti considerano la tutela di tale esercizio il loro cavallo di battaglia.

La terza condizione è che la pratica del dialogo deve svolgersi non solo in organismi ristretti ma anche nella comunità sociale. D’altra parte, il dialogo ha origine nella vita sociale e nell’esistenza di luoghi comunitari in cui potersi confrontare.
Se analizziamo il percorso italiano verso una legge sul testamento biologico, vediamo come esso sia nato all’interno di organismi bioetici (la Consulta di Bioetica e il Comitato Nazionale per la Bioetica) per poi approdare – dopo vari e problematici passaggi nelle aule dei tribunali – ad una Commissione parlamentare. Non vi è stato, dunque, un dibattito pubblico ampio, argomentato, giustificato. Chi non fa parte dei suddetti organismi non sembra avere diritto di parola, di esprimere la propria idea, sempre che non si vogliano considerare un “dialogo” i sondaggi di opinione. Vincolato da crocette e definizioni spesso fuorvianti, al signor “Nessuno” viene riconosciuta almeno la libertà di scegliere la risposta: se poi questa corrisponda a ciò che veramente egli pensa e se la sua scelta sia stata veramente libera e non condizionata, questo appare un problema di secondo piano.

La quarta condizione è la contestualizzazione del dialogo. E’ interessante ascoltare le esperienze degli altri Paesi, come sarebbe altrettanto importante fare tesoro degli errori altrui (e non sono pochi in materia di fine vita), ma è altrettanto importante tenere presente che la realtà italiana e l’organizzazione sanitaria sono diverse da quelle di altri Paesi. Ad un sistema basato sulle assicurazioni se ne oppone uno assistenziale e solidaristico, quello italiano, che guarda ancora – almeno per il momento – alla persona e non al suo portafoglio, che privilegia la cura all’utilità.

Poiché nessuna di queste condizioni sembra essere stata soddisfatta, sostenere che sulla fine della vita “una legge ci vuole” e che si devono “compiere tutti gli sforzi per costruire e poi approvare una legge che il paese chiede e aspetta”, non sembra essere il risultato di un dialogo ma di un monologo. Vi è, infatti, una parte del Paese che ritiene che una legge sul testamento biologico non sia né utile né necessaria.

Perché se – come viene detto – non si muove da una logica eutanasica, la legge sul testamento biologico è allora inutile: l’autonomia dei singoli ha già davanti a sé altre vie praticabili per raccogliere in un documento i propri desiderata senza bisogno di scomodare un legislatore.
Se non è utile, perché allora proporla? Vi sono forse altri scopi come, ad esempio, veicolare logiche di abbandono a danno delle persone più fragili e di incoraggiare scelte rinunciatari? Se non è necessaria, perché proporla?

Questa parte del Paese non ha ricevuto ancora risposte a conferma che per ora si è assistito solo a un monologo. Adesso è, però, arrivata l’ora di dialogare, non di legiferare.

Maria Luisa Di Pietro
Presidente Nazionale Scienza & vita

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