Nel 2017 – ultima rilevazione nazionale – gli hospice erano 240 su tutto il territorio nazionale per un totale di 2.777 posti letto. Lo rivela il Rapporto sullo stato di attuazione della legge n. 38 del 15 marzo 2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” – 2015-2017. A fronte di un miglioramento della qualità e dell’offerta assistenziale per le cure palliative, persistono forti disomogeneità regionali con Lombardia, Emilia Romagna e Lazio in surplus) e Piemonte, Toscana, Campania e Sicilia in grave deficit. Sardegna e Molise ne sono del tutto priviEppure, assicura don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, il “modello relazionale di cura e l’accompagnamento competente e amorevole” che offrono è la vera risposta alla sofferenza  e alla solitudine di chi chiede di essere aiutato a porre fine anticipatamente alla propria vita.

“Di fronte alla malattia complessa a prognosi infausta, inguaribile ma sempre curabile – spiega – occorre rivalutare la dimensione relazionale. L’hospice nasce con questa idea. La fondatrice Cicely Saunders ha immaginato un gruppo di lavoro che prendesse in carico la persona nella sua globalità, compresi gli aspetti spirituali. Nei nostri ospedali, dove il personale diminuisce sempre più e le degenze sono sempre più brevi, crollano gli spazi relazionali. I nosocomi diventano macchine erogatrici di servizi sanitari ma c’è il rischio di perdere la dimensione di accompagnamento e di cura. L’hospice viaggia invece su tempi e modi diversi.

Parola chiave è dunque “accompagnamento”.

Accompagnamento che nasce dalla presenza, dall’esserci anche quando la medicina non sembra più in grado di offrire risposte risolutive. Nostro modello è l’icona di Maria sotto la croce: il suo Stabat. Gesù morente sulla croce, e Maria è lì. Abbassare lo sguardo e vedere Sua madre… Che grande consolazione deve essere stata per Lui.

Dei 240 hospice presenti sul territorio, 22 sono cattolici. Qual è la loro peculiarità?

Nascono tutti dalla logica dell’accompagnamento ma la peculiarità di un hospice cattolico è, in estrema sintesi, la centralità dell’Eucaristia nella dimensione del fine vita.

Un presenza – quella degli hospice sul territorio – molto disomogenea. Due regioni – Sardegna e Molise – ne sono addirittura prive. Perché?

Dal Rapporto al Parlamento si evince che alcune regioni avrebbero dovuto attivare dei posti hospice – calcolati in percentuale rispetto alla popolazione – e ancora non lo hanno fatto. La mancata apertura di hospice – non dico accreditati ma nemmeno autorizzati – è una questione di scelte di politica sanitaria. Da una parte esprime la scarsa consapevolezza dell’importanza dell’hospice, dall’altra la paura di investire su una scelta considerata non strategica. Ritengo che alcune regioni preferiscano investire su altre voci dalle quali si aspettano ritorni. In una logica economicistica l’hospice e le cure di fine vita sono una posta costosa e poco utile.

Alla carenza di hospice si accompagna un’applicazione solo parziale della legge sulle cure palliative…

La legge 38/2010 è una buona legge ma non è stata finanziata in maniera adeguata. In molte regioni manca la rete di cure palliative domiciliari. Il Rapporto riferisce che nel 2017 i pazienti terminali assistiti a domicilio sono stati poco più di 40mila, meno di un quarto delle 170mila persone morte quell’anno per tumore. Siamo ancora lontani dagli standard indicati dalla norma, eppure le cure palliative sono un diritto del malato. E’ questo l’inganno dell’essere liberi fino alla fine…

Che cosa intende dire?

Se non ho un’opzione di scelta – perché lo Stato non mi garantisce cure e sollievo dal dolore, assistenza, sostegno psicologico e familiare, se mi ritrovo a pesare sulla mia famiglia o addirittura mi sento abbandonato e in solitudine – allora comincio ragionevolmente a pensare che morire, ossia chiedere il suicidio assistito, sia la soluzione migliore, l’unica via possibile. Ma che libertà è questa?

Sappiamo per esperienza che se un malato terminale si sente accompagnato e amato, se intorno a sé ha una rete parentale e relazionale non ha motivo per chiedere di morire. Privarlo invece di accompagnamento e cura è condannarlo a morire ma non è una scelta, è di fatto una condanna.

E’ preoccupato per l’iter che seguirà la pronuncia della Corte costituzionale?

Il comunicato esprime l’orientamento chiaro della Consulta. Occorre attendere il dispositivo della sentenza al quale seguirà un percorso parlamentare. Pur non essendo d’accordo con l’impostazione della Corte, esistono spazi di manovra per tentare di normare questo momento in maniera congrua. Tuttavia c’è il rischio che per molti l’orientamento della Consulta equivalga a dire: ‘l’opzione morte è la più semplice e la migliore possibile’. Al di là dei meccanismi giuridici e legislativi c’è la percezione della gente: insinuare l’idea di poter essere un costo e un peso per la propria famiglia e per la società è un’induzione di fatto a ritenere la morte la soluzione migliore. Una logica agghiacciante, frutto della cultura dello scarto, secondo la quale, paradossalmente, scegliere di morire finisce per essere percepito come un atto di altruismo e un sollievo per tutti.

Che cosa accadrebbe nelle strutture sanitarie cattoliche se dovessero cambiare i parametri di accreditamento?

Nel momento in cui una legislazione dovesse entrare in conflitto con il nostro apparato valoriale, ossia il Vangelo, noi sceglieremmo il Vangelo. Molte variabili sono tuttavia ancora aperte. Dei cinque disegni di legge in Parlamento – molto diversi tra loro  – alcuni prevedono l’obiezione di coscienza. Se si parla di libertà di scelta per il paziente, altrettanto valore deve essere riconosciuto alla libertà di scelta dell’operatore sanitario che non può essere obbligato ad agire contro la propria coscienza.  Continua su AgenSIR