La vita nella disabilità:diritti del singolo e doveri della comunità Ci ha lasciati sgomenti lo scritto apparso nella seconda metà di febbraio sul Journal of Medical Ethics a firma dei due ricercatori italiani Giubilini e Minerva che lavorano in Australia dal titolo : “ L’aborto dopo la nascita: perché il bambino dovrebbe vivere?”. Si va ben oltre il famigerato Protocollo di Groningen, in base al quale dal 2002 in Olanda è permesso porre fine attivamente alla vita dei neonati con prognosi infausta che , a giudizio dei medici e dei genitori si trovano in condizioni di “sofferenza insopportabile”. Nell’articolo si sostiene la liceità morale(auspicandone domani anche la liceità giuridica) dell’infanticidio per motivi economici, psicologici o sociali, volendo però far rientrare l’uccisione del neonato non nella nozione di infanticidio ma di aborto postnatale. Non è un caso che l’articolo sia stato pubblicato sulla rivista fondata da Tristam H. Engelhardt, il bioeticista che introdusse la definizione di “straniero morale”per indicare quegli esseri umani(non nati, ritardati mentali gravi, dementi, comatosi, in stato vegetativo etc.) che non avrebbero diritto ad essere qualificati persone umane perché mancanti della relazionalità, incapaci di esprimere giudizi e, pertanto, estranei alla comunità sociale. È ugualmente significativo il fatto che uno degli autori sia collegato con la Monash University di Melbourne, tempio della bioetica utilitarista legato al nome di Peter Singer e che tutti e due risultino legati alla scuola di bioetica di Maurizio Mori e Sergio Bartolommei. Si deve riflettere sul fatto che con tali disumane teorie bioetiche siamo retrocessi a un costume in auge nel mondo precristiano quando i bambini affetti da disabilità venivano gettati dalla rupe, con l’aggravante che oggi si teorizza la stessa fine per ragioni anche di carattere economico, psicologico, sociale. Siamo ormai di fronte, sul piano internazionale ma anche in Italia, alla fine di un universo di idee che potevano riconoscersi nella tradizione umana e civile di ispirazione cristiana (la dignità della vita di ognuno in quanto tutti figli dello stesso padre) che era arrivata fino alle grandi Carte internazionali del dopoguerra : la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” dell’ONU e la “Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Nel ricordo scottante dell’olocausto di Hitler e della selezione genetica attuata dal dottor Mengele, veniva riaffermato il valore assoluto del diritto alla vita , primo e fonte di tutti i diritti. Oggi , nella stagione della morte di Dio, del relativismo e dell’individualismo, la vita non appare più un valore assoluto, modello di riferimento e la si qualifica con un aggettivo “degna” che la relativizza. Nella visione del positivismo efficientistico e dell’utilitarismo, la vita “degna” deve avere il connotato del perfettismo senza il quale non meriterebbe di nascere né varrebbe la pena di continuare a vivere. Il convegno “la vita nella disabilità”, innanzitutto, a fronte delle teorie che fanno riferimento alla “qualità della vita” vuole riproporre l’impostazione che si incentra sul “valore della vita”tout court. Questo comporta sottolineare anche il valore e il significato umano e affettivo della vita nella disabilità, unitamente ai diritti del disabile come persona e come cittadino e ai doveri della società; ma esige anche il ribaltamento di quella visione della vita, prima citata, impostata all’insegna dell’individualismo e dell’utilitarismo. La vita sempre, e tanto più in presenza della disabilità, è impegno serio e difficile che esige forza e solidarietà di tutti anche nella consapevolezza della fragilità che accompagna l’esistenza di ognuno . Madre Teresa ha scritto:”La vita tristezza superala, la vita è una lotta accettala, la vita è un’avventura rischiala, la vita è la vita, difendila”. Il Presidente Scienza & Vita Firenze Marcello Masotti
ultimo aggiornamento il 9 Marzo 2022