UN MEDICO, UN MALATO, UN UOMO Come la malattia che mi uccide mi ha insegnato a vivere

Un medico di successo, una bella famiglia, una forma fisica da far invidia. Nel febbraio del 2002 Mario Melazzini pensa di essere un uomo realizzato. Ma quando sale in bicicletta per il suo allenamento quotidiano capisce che qualcosa non va. Il piede sinistro non risponde, il corpo gli disubbidisce. Comincia così il calvario della malattia. Ci vuole un anno per avere la diagnosi: è SLA, sclerosi laterale amiotrofica, una patologia degenerativa con la quale, mediamente, non si vive più di tre anni.

Il medico diventa malato e incontra sul suo cammino la sofferenza, la depressione, la paura, il desiderio di farla finita prima di finire come un vegetale.

L’anno successivo è durissimo: Mario passa dal rifiuto della malattia alla depressione più nera, arrivando a prendere un appuntamento con una clinica svizzera dove praticano il suicidio assistito. Poi fugge, lascia la famiglia e va nella sua casa in montagna, accompagnato dalla badante. Lì, nella più totale solitudine, reagisce, prende coscienza della sua malattia e scopre che la vita può essere ricca e interessante, nonostante tutto. Anzi, anche «grazie» a essa. La sua stessa professione acquista una nuova profondità. Ora, infatti, Mario vede le cose «dall’altra parte».

Da malato capisce il vero significato del rapporto tra medico e paziente, prende contatto con l’Associazione, viene eletto presidente e diventa un punto di riferimento per tantissimi malati.

Entra in contatto con decine di persone fragili e in compagnia di un cantautore famoso incomincia la sua più grande battaglia: quella contro la solitudine e l’abbandono che spesso accompagnano le patologie più gravi, contro quel sentimento di esclusione e di insignificanza che prima o dopo coglie tutti coloro che soffrono di handicap invalidanti.

Adesso non vuole più morire, ma «godere ogni minuto del miracolo di essere vivo».

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