
Grazie all’evoluzione tecnologica, accanto ai trapianti “consolidati”, si sono sviluppate procedure trapiantologiche innovative, dette anche “sperimentali”. Una di esse è il trapianto di utero, reso possibile dai progressi delle tecniche di fecondazione assistita e della medicina dei trapianti.
Il trapianto di utero a differenza degli altri trapianti di organo non è una operazione “salvavita”, dal momento che l’operazione non riguarda un organo vitale. Il trapianto consentirebbe, invero, alla ricevente di “dare la vita”: dovrebbe, così, rispondere al desiderio delle donne che hanno subito l’asportazione dell’organo o con una infertilità assoluta da fattore uterino di portare a termine una gravidanza e dare alla luce un figlio.
Nel mondo, il trapianto di utero è una procedura praticata per lo più dopo donazione da vivente. Il primo trapianto è avvenuto in Arabia Saudita nel 2000 da una donatrice vivente, ma con esito negativo: l’utero fu espiantato dopo soli 3 mesi. Nel 2011 si segnala il secondo tentativo da cadavere: il trapianto riuscì ma non determinò una gravidanza. Il primo bambino nato da trapianto di utero si registra nel settembre 2014.
In Italia, il Protocollo sperimentale adottato e approvato nel 2018 dal CNT, con il parere positivo del Consiglio Superiore di Sanità, prevede un percorso clinico-assistenziale della durata di 3 anni, con due finalità: l’esito favorevole del trapianto di utero da un punto di vista funzionale e l’esito positivo della gravidanza attraverso le tecniche di PMA e il taglio cesareo. Il Protocollo è rigido e consente in Italia il solo prelievo da cadavere; non è applicabile alle donne con età superiore ai 40 anni. Nell’agosto 2020 è stato eseguito il primo trapianto di utero con successo in Italia presso il Centro Trapianti del Policlinico di Catania, su una paziente di 30 anni con infertilità causata dalla sindrome di Rokitansky da donatrice deceduta. L’utero è stato donato nell’agosto 2020, da una donna di 37 anni, deceduta per arresto cardiaco improvviso, che aveva espresso in vita il proprio consenso alla donazione al momento del rinnovo della carta d’identità. A un anno dal trapianto la paziente ha iniziato a sottoporsi alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: al secondo tentativo, a due anni dal trapianto, ha dato alla luce una bimba. Nel 2022 è stato eseguito il secondo trapianto e un terzo nel 2023.
Un articolo pubblicato su Reproductive Medicine and Biology, dal titolo “Uterus transplantation: A clinical breakthrough after systematic preclinical research”, riporta che dalla nascita del primo bambino nel 2014 a dicembre 2024 sono state eseguite oltre 140 procedure a livello globale, con un risultato di oltre 70 nati vivi.
Lo studio riporta l’importanza delle ricerche sugli animali, che hanno consentito di raggiungere importanti traguardi nelle sperimentazioni, tra cui lo sviluppo di protocolli e approfondimenti sulle tecniche chirurgiche, la tolleranza all’ischemia e la diagnostica del rigetto del trapianto. Tali ricerche hanno fornito dati preclinici essenziali che hanno plasmato la pianificazione degli studi sull’uomo e il successivo successo clinico.
La donazione dell’utero può essere da donatore vivente o da donatore deceduto (in questo caso si tratta di solito di un donatore multiorgano). In Italia, come visto, il Protocollo prevede la donazione solo da cadavere. Il prelievo da donatore deceduto offre il vantaggio di eliminare i rischi chirurgici per il donatore e, in generale, consente tecniche di recupero dell’utero più semplici e veloci. Il trapianto da vivente, invece, consente l’accesso a un’anamnesi completa e facilita una pianificazione pre-chirurgica; d’altro canto, sono diversi i valori in gioco e le problematiche etiche, in considerazione degli importanti rischi per la salute della donatrice. L’utero non è un organo vitale ed è possibile il prelievo ma l’intervento chirurgico è lungo, complesso, molto invasivo e ad alto tasso di rischio. Si segnalano, inoltre, conseguenze sfavorevoli sul piano psicologico, sia per la donatrice che per la ricevente.
Il trapianto di utero consente a tutti gli effetti, anche biologici, alla donna di essere madre e di partorire il bambino ma, allo stesso, tempo è molto rischioso anche per la ricevente stessa. Anche se il trapianto è temporaneo, in quanto finalizzato alla procreazione – l’organo è, infatti, rimosso subito dopo la gravidanza – la chirurgia necessaria al trapianto è particolarmente complessa: sono indispensabili almeno tre operazioni sulla ricevente per il successo dell’intervento e per la nascita del figlio: l’impianto dell’utero, il parto cesareo e la rimozione dell’utero.
Inoltre, a differenza di altri trapianti di organi, il trapianto di utero richiede un periodo lungo prima di poter considerare di successo l’intervento, dal momento che esso si verifica solo quando nasce un bambino. Il successo del trapianto è generalmente diviso, pertanto, in due fasi: successo chirurgico e successo definitivo. Il successo chirurgico si ottiene quando l’innesto dimostra vitalità e funzionalità (indicate dal normale flusso sanguigno e dalle mestruazioni spontanee). Questo può essere valutato in genere circa 3 mesi dopo il trapianto, dopo aver osservato almeno due cicli mestruali. Tuttavia, il vero successo non si considera la sola gravidanza – durante la quale è alto il rischio di aborti spontanei – ma la nascita di un bambino. I successi chirurgici sono stati recentemente riassunti da 71 casi pubblicati: in essi, complessivamente, il successo chirurgico è stato raggiunto nel 77% dei casi.
Attualmente, esiste solo un rapporto completo sugli esiti riproduttivi e ostetrici a seguito di trapianto di utero con fecondazione in vitro: sette donne su nove hanno avuto trapianti di successo, iniziando il trasferimento dell’embrione 12 mesi dopo il trapianto. I dati riportano che su 46 trasferimenti di embrioni, il tasso di gravidanza clinica è stato del 32,6%, mentre il tasso di nati vivi per trasferimento è stato complessivamente del 19,6% e del 30,0% tra coloro che hanno partorito. Nell’articolo si riporta che una paziente, nonostante 16 trasferimenti di embrioni, ha avuto sei aborti spontanei (quattro intorno alla settima settimana e due alla quindicesima settimana).
Si segnalano, pertanto, importanti rischi per la vita del nascituro, legati alla “precarietà” del trapianto stesso, e una generale reificazione dell’embrione umano. Tale aspetto sembra essere trascurato negli studi. Eppure, il bilanciamento rischi/benefici nel caso di trapianto di utero è profondamente diverso e non paragonabile al trapianto di organi, anche rispetto alle finalità sottese (non essendo un intervento salva-vita). I soggetti coinvolti nelle procedure sono, poi, più numerosi: nel rapporto medico-paziente farà` ingresso non solo il donatore, come in ogni trapianto, ma si aggiungerà anche, e soprattutto, l’embrione umano.
Per approfondire:
- Brännström M, Milenkovic M, Tsakos E. Uterus transplantation: A clinical breakthrough after systematic preclinical research. Reprod Med Biol. 2025 Feb 11
- Brännström M, Bokström H, Hagberg H, Carlsson Y. Maternal and perinatal outcomes of live births after uterus transplantation: a systematic review. Acta Obstet Gynecol Scand. 2024.
- Fronek J, Kristek J, Chlupac J, Janousek L, Olausson M. Human Uterus Transplantation from Living and Deceased Donors: The Interim Results of the First 10 Cases of the Czech Trial. J Clin Med. 2021 Feb 4
- Brännström M, Dahm-Kähler P, Kvarnström N, Enskog A, Olofsson JI, Olausson M, Mölne J, Akouri R, Järvholm S, Nilsson L, Stigson L, Hagberg H, Bokström H. Reproductive, obstetric, and long-term health outcome after uterus transplantation: results of the first clinical trial. Fertil Steril. 2022 Sep;11
ultimo aggiornamento il 17 Aprile 2025