S&V FOCUS | 25 luglio 2025

Suicidio assistito | L’aiuto al suicidio non è un atto medico ed esula dalla cura. Considerazioni alla luce della sentenza n. 132 del 2025

Gli approfondimenti di Scienza & Vita | di Francesca Piergentili

Medical syringe in the doctor's hands on the patient's in room hospital blur background

In un recente articolo pubblicato sul Journal of Medical Ethics, dal titolo Why administration of lethal drugs should not be the role of the doctor, gli autori riflettono criticamente sul ruolo che i medici avrebbero nell’eventualità che l’assistenza al suicidio venga legalizzata in Inghilterra e Galles, come previsto dal Terminally Ill Adults (End of Life) Bill.
Secondo la proposta di legge, i medici assumerebbero la funzione di “praticanti dell’assistenza al morire” (“Assisted Dying Practitioners”, ADP), con il compito di valutare l’idoneità dei pazienti e, in alcuni casi, somministrare direttamente i farmaci letali.

Gli autori sollevano una questione: è corretto attribuire ai medici il compito di dare assistenza al suicidio? La loro risposta è negativa: il cuore dell’argomentazione ruota attorno alla distinzione tra la figura del medico e quella del futuro ADP. Mentre la medicina, infatti, è volta alla cura, ad alleviare la sofferenza e a promuovere la salute attraverso la pratica clinica, l’assistenza al suicidio, per definizione, ha come scopo ultimo quello di porre fine alla vita del paziente: ciò rappresenta un cambiamento radicale di finalità che, secondo gli autori, non può essere considerato una semplice estensione dell’attività medica. Non vi sarebbe, pertanto, continuità tra l’attività medica e l’assistenza al morire: il medico agisce entro un orizzonte terapeutico, l’ADP opera fuori da quel quadro.

Nel delineare le implicazioni di un’eventuale attribuzione di questo nuovo ruolo alla professione medica, gli autori evidenziano il rischio di una trasformazione profonda del rapporto medico-paziente, della formazione professionale, della regolamentazione e, più in generale, dell’identità stessa della medicina. Ciò potrebbe portare a una crisi di fiducia pubblica, oltre a sollevare questioni pratiche legate all’obiezione di coscienza e alla coerenza interna del Servizio Sanitario. L’aiuto al suicidio non è un atto medico ed esula dalla logica della cura: l’obiettivo è porre fine alla vita del paziente.

Tali riflessioni riguardano da vicino anche il nostro Paese, in un momento storico caratterizzato da forti pressioni, a livello sociale e culturale, per la legalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia, proposti come espressione della libera autodeterminazione del paziente e del diritto alla morte: si richiede, così, al Servizio Sanitario la collaborazione diretta per erogare prestazioni suicidiarie ed eutanasiche, stravolgendo la sua vocazione e la sua finalità.

In Toscana, ad esempio, è stata approvata l’11 febbraio 2025 una legge regionale in materia di assistenza al suicidio – sulla quale pende, tra l’altro, un giudizio di legittimità costituzionale – che prevede prestazioni e trattamenti gratuiti di suicidio assistito erogati dal servizio sanitario regionale. Simili conclusioni sul ruolo della medicina si potrebbero, inoltre, estendere a quanto affermato nella recentissima sentenza della Corte costituzionale, la n. 132 del 25 luglio 2025.

La sentenza ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sull’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente), non consentendo così l’estensione della causa di non punibilità, individuata con la sent. n. 242 del 2019 per l’assistenza al suicidio, anche all’atto eutanasico.

La Corte, all’interno della motivazione della decisione, è però entrata in contraddizione con le sue stesse pronunce precedenti sul fine-vita, affermando la necessità dell’intervento diretto del Servizio Sanitario per le prestazioni di assistenza al suicidio. La libertà di autodeterminazione del paziente determinerebbe, per la Consulta, il “diritto” di essere accompagnato dal Servizio sanitario nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito: un diritto che include il reperimento dei dispositivi idonei e l’ausilio nel relativo impiego. Il coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale nel cagionare la morte di un paziente rappresenta, invero, lo stravolgimento delle finalità per le quali è sorto e della sua stessa essenza.

Tale decisione rende, ancora una volta, evidente il rischio che si cela dietro alle derive sociali e culturali che, in nome dell’individualismo e dell’efficientismo, ritengono la vita umana un bene da tutelare solo a certe condizioni.

La Corte solo alcuni mesi fa, con la sentenza n. 66, aveva ricordato, invece, il dovere della Repubblica “di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé”, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale”. Sottolineava, inoltre, che il presunto diritto di morire “rivendicato in alcune circostanze” è rischioso, poiché potrebbe “essere paradossalmente percepito dal malato come un ‘dovere di morire’ per non ‘essere di peso’ , con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili””.

Oltre alla dimensione filosofica e ideologica della problematica, che tenta di ricondurre tutto all’autonomia assoluta dell’uomo e al principio dell’autodeterminazione, vi è una dimensione medica ed assistenziale del fenomeno, che si esprime in una tendenza ad abbandonare il paziente: questo comporta non solo il rischio di limitare la cura dei malati gravi ma anche la perdita per la persona ospedalizzata del contatto con la famiglia.

Di fronte alle nuove manifestazioni della cultura “dello scarto” anche la medicina è chiamata, allora, a non stravolgere se stessa ma a continuare ad offrire il suo contributo: possiede, infatti, una importante dimensione di “arte terapeutica” che favorisce una relazione stretta tra paziente, operatori sanitari, familiari.

Come affermava la Lettera Samaritanus bonus “arte terapeutica, atti clinici e cura sono inscindibilmente uniti nella pratica medica, soprattutto nelle fasi critiche e terminali della vita.”Riconoscere l’impossibilità di guarire non significala fine dell’agire medico e infermieristico: esercitare la responsabilità nei confronti della persona malata, significa assicurarne la cura fino alla fine, allargando la nozione di cura: l’obiettivo dell’assistenza non dovrebbe essere mai provocare la morte ma dovrebbe “mirare all’integrità della persona, garantendo con i mezzi adeguati e necessari il supporto fisico, psicologico, sociale, familiare e religioso”.

È però da riconoscere che la tendenza che porta a considerare la propria esistenza un peso per sé e per gli altri trasforma la cultura dello scarto in cultura di morte. È sul piano culturale, allora, che è necessario agire, contrastando ogni logica di abbandono del paziente ma anche ogni tentativo di legittimare pratiche eutanasiche e suicide in nome di una astratta autonomia personale, riaffermando l’inviolabile dignità di ogni vita umana.

È su questo piano che le azioni oggi sono urgenti: sarebbe necessario partire dalle reali necessità dei pazienti, spesso “invisibili”, in una prospettiva che tenga conto della popolazione che invecchia, della crisi delle famiglie, dell’individuo sempre più solo. In gioco, a ben vedere, vi è il ruolo della medicina ma anche l’anima delle relazioni etico-sociali e il destino della stessa umanità.

Per approfondire:

  1. Barker S, Fritz Z, Ruck Keene AWhy administration of lethal drugs should not be the role of the doctorJournal of Medical Ethics Published Online First: 02 May 2025.

  1. Corte cost. Sent. n. 132 del 2025

ultimo aggiornamento il 16 Settembre 2025

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