
Stiamo assistendo ad un dibattito molto intenso su suicidio assistito ed uccisione eutanasica nel nostro Paese. I numeri di queste richieste, per il momento, sono molto bassi e nella pratica clinica non rappresentano un’emergenza sanitaria o una routine comunemente accettata. Anzi, l’esperienza di chi opera nel campo delle cure palliative mostra che, quando i bisogni fisici, psicologici, sociali e spirituali dei malati vengono adeguatamente attenzionati, raramente si hanno richieste di morte. Come mai allora, anche in Italia, tali richieste vengono (sempre più spesso) dipinte come necessità da prevedere nell’ordinamento e, addirittura, come diritti?
Le principali ragioni a supporto sembrano essere riassumibili in quattro punti fondamentali:
(1) le sofferenze tremende collegate ad alcune condizioni patologiche gravi,
(2) l’autodeterminazione del paziente che liberamente vuole interrompere la sua vita,
(3) l’affermazione di una perdita di valore e di dignità della vita umana in determinate situazioni,
(4) il rifiuto (e il timore) del cosiddetto “accanimento terapeutico”.
L’ultimo punto (4) è decisamente anomalo e non varrebbe la pena di considerarlo, se non fosse divenuto oggetto di numerosi fraintendimenti. Sebbene ampiamente utilizzato, il termine si riferisce ad un atteggiamento che è in realtà da sempre considerato estraneo alla Medicina e, pertanto, escluso dalla Deontologia medica. Con l’infelice espressione di accanimento terapeutico si vuole indicare la somministrazione di trattamenti sproporzionati, inefficaci e gravosi, che prolungano inutilmente l’agonia rendendola più pesante. Pertanto, astenersi o interrompere una tale pratica è doveroso e non ha nulla a che fare con l’uccisione eutanasica o con il suicidio assistito. Il Codice deontologico, la competenza medica, la legge e il buon senso già vietano tali forme di “ostinazione in trattamenti inadeguati”, che possono derivare o da errori medici o da pressioni esterne non governate. Il giudizio di inadeguatezza/sproporzione sul singolo trattamento nel singolo paziente, poi, ha alcuni margini discrezionali e possibili variazioni applicative nei diversi contesti sanitari, che non è possibile normare o livellare del tutto, poiché hanno a che fare con la particolarità dell’ars medica. È sostanziale definire il fatto che evitare questa “ostinazione” in alcun modo è equiparabile, e nemmeno similare, al dare volontariamente la morte ad un malato, neanche come mezzo per eliminare il dolore o come risposta ad una sua richiesta. La morte naturale, in questo senso, non è né la morte procurata né la medicalizzazione dell’agonia.
I primi due punti, invece, sembrano avere una particolare forza valutativa ed emotiva, la sfida del dolore (1), in particolare di quello terminale, può essere molto ardua. Ma c’è una risposta efficace a questa sfida, che è la degna accoglienza e presa in carico di un’implicita richiesta di aiuto. Si possono aiutare le persone a non soffrire attraverso i percorsi di cure palliative, che si avvalgono dei grandi avanzamenti della terapia del dolore, al punto da poter intercettare e lenire ogni dolore fisico, anche il più intenso e prolungato. Oltre a ciò, le cure palliative comprendono e affrontano anche gli altri tipi di sofferenza – psicologica, sociale e spirituale –, circondando il malato e la sua famiglia di una rete di interventi coordinati interprofessionali, in grado di rispondere ai molteplici bisogni che la malattia inguaribile produce. Certamente la realizzazione di queste reti, a livello residenziale e domiciliare, è ancora ampiamente in fieri. Tuttavia, la strada c’è, è ben tracciata e dà già buoni risultati, come dimostrano i dati. Quindi, se il problema che porta alla scelta suicidaria o eutanasica è di specie medicale, la soluzione percorribile è il rafforzamento delle cure palliative e la loro erogazione precoce.
C’è tuttavia anche il tema della volontà di morire (2), che va oltre la sfida del dolore. Perché non lasciare la libertà di farla finita a chi, nella sua autonomia soggettiva, ha deciso così? Non sarebbe quasi un “costringere a vivere”? Questa provocazione lanciata alle coscienze è densa di presupposti, difficili da districare senza ripartire da un lavoro paziente di recupero del valore della vita umana. Qualche elemento sintetico però può venire in aiuto:
(a) La ricerca e il desiderio della propria morte non sono in sé qualcosa di “fisiologico”, bensì rappresentano spinte che nascono da condizioni di prostrazione, abbandono o fatica estrema, da affrontare e curare in quanto tali. Cedere alla disperazione è una sconfitta, non un successo.
(b) Inoltre, la morte si presenta come un fatto, non come un diritto, e pertanto non sussiste alcun dovere di assecondarne la richiesta come si trattasse, appunto, di una legittima rivendicazione. Certa propaganda ci ha abituati al lessico del “diritto di morire”, ma poche considerazioni etico-giuridiche bastano a far comprendere come una richiesta di morte crei relazioni personali e professionali sbilanciate, dal momento che un “diritto di morire” configurerebbe un corrispondente “dovere di far morire”. Tuttavia, l’idea di una società in cui vi sia un “dovere di uccidere” stride profondamente con il senso civico e stravolge la sostanziale fiducia alla base di un corretto rapporto paziente-medico.
(c) Infine, occorre ammettere che la volontà del singolo – ad esempio la richiesta di morte – non può essere una ragione sufficiente per giustificare l’agire, perché non ogni atto di volontà va assecondato “per sé”. Ciò significherebbe infatti consegnare l’etica al puro arbitrio, trascurando ogni considerazione sul bene comune. In questo senso, è piuttosto il diritto alla vita come bene primario, irrinunciabile e indisponibile, a fondare il corpo sociale.
Rimane infine l’altro punto (3), quello forse meno utilizzato nel dibattito pubblico e percepito come fastidioso, perché richiama l’idea che ci siano “vite non degne di essere vissute”, tristemente nota ai tempi del nazionalsocialismo. Eppure, è questa la logica sottesa, più o meno consapevolmente, a ogni cedimento in tema di suicidio assistito o eutanasia. Non l’insopportabilità del dolore, non l’autodeterminazione del soggetto, che in nessun sistema sociale può chiedere e ottenere “qualsiasi cosa”, ma il deprezzamento di alcune vite proprio in ragione della loro maggiore fragilità. Con un lento processo di assuefazione al male, ci si ritrova a pensare che, in certe condizioni, non si dovrebbe più tutelare la vita, persino indipendentemente dal desiderio di conservarla o meno da parte dell’interessato. In altre parole, chi soddisfa i requisiti di “non dignità” (tutt’altro che scontati o definiti) può, e quasi dovrebbe, morire. È un verdetto già pronunciato in anticipo.
Nei Paesi in cui l’uccisione eutanasica e il suicidio assistito sono di normale amministrazione, occorre sempre più spesso “giustificare” la volontà di vivere, a riprova del fatto che l’autodeterminazione – al di là delle apparenze – non è poi così centrale. Ecco allora lo scivolamento inesorabile verso le forme di eutanasia non consensuale, verso le indebite pressioni sui più vulnerabili, verso la riduzione assistenziale e l’indifferenza sociale. Travestito di libertà e di compassione, un approccio selettivo e ingiustamente discriminatorio come quello eutanasico rischia così di diventare pseudo-cultura diffusa.
ultimo aggiornamento il 15 Luglio 2025