
La Corte con la recentissima sentenza n. 66 del 2025 ha ritenuto non costituzionalmente illegittimo subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente sia tenuto in vita per mezzo di trattamento di sostegno vitale. Il giudice delle leggi ha ricordato che anche nel contesto del pluralismo etico che caratterizza una democrazia liberale, non può essere il punto di riferimento una concezione astratta dell’autonomia individuale del soggetto. Dal principio personalista di cui all’art. 2 Cost. si ricava, invece, “il preciso dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo”.
In attesa di un intervento del Parlamento, che ha un significativo margine di apprezzamento nel bilanciamento degli interessi in una materia così delicata, la Corte ricorda la necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili e la necessità di contrastare “derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”. La Repubblica ha, infatti, il dovere “di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé”, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale. È cruciale, pertanto, anche in un contesto caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche garantire il sostegno sociale, sanitario e umano al paziente. Sono, in particolare, da garantire in maniera universale ed equa le cure palliative, formare i professionisti in tale ambito, mettere a disposizione la tecnologia, “prendersi cura” del paziente e del caregiver.
1. La nuova questione di illegittimità costituzionale sull’art. 580 c.p.
Con la sentenza n. 66 del 2025 la Corte costituzionale è tornata a decidere una questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 580 del codice penale, il quale punisce il reato di istigazione e di aiuto al suicidio, nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio di persona “non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita.” La questione riguardava, ancora una volta, il requisito sub c) indicato dalla Corte nella nota sent. n. 242 del 2019come una delle condizioni in presenza delle quali la condotta di aiuto al suicidio può essere ritenuta non punibile: l’essere tenuto in vita per mezzo di trattamento di sostegno vitale.
In altre parole, si chiedeva di allargare l’ambito applicativo della non punibilità dell’agevolazione al suicidio individuato dalla stessa Corte nel 2019, per far dipendere la stessa dalla sola presenza di una malattia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili, e anticipare, così, il momento della scelta di porre fine alla vita. Si legge nell’ordinanza che “Si tratta infatti, di persone che affrontano con certezza la prospettiva della loro morte, più o meno imminente, preceduta da un periodo più o meno lungo di decadimento fisico, accompagnato spesso da acute sofferenze fisiche”. Il giudice rimettente, il Tribunale di Milano, riteneva essere il requisito in contrasto con l’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza), ma anche in violazione dell’autodeterminazione personale.
Si riproponevano, così, i dubbi già dichiarati non fondati con la sentenza n. 135 del luglio del 2024. Con tale decisione la Consulta aveva affermato la legittimità del requisito, ricordando che “nella misura in cui tali procedure …si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019.”In tale sentenza si riconosceva, in ogni caso, “un significativo spazio alla discrezionalità del legislatore, al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza. Il che esclude possa ravvisarsi, nella situazione normativa attuale, una violazione del loro diritto all’autodeterminazione”.
2. I contenuti della sentenza n. 66 della Corte costituzionale
2.1 La discrezionalità del Parlamento e la non irragionevole disparità di trattamento
La Corte con la recentissima sentenza n. 66 del 2025 ha ritenuto non fondata la questione, riconoscendo altresì il “significativo margine di discrezionalità che questa Corte ha riconosciuto al legislatore nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’art. 2 Cost., e il principio dell’«autonomia» del paziente «nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona»”.
La Corte, in relazione alla presunta violazione del principio di uguaglianza, ricorda che “laddove si decida di rifiutare trattamenti che non possono essere considerati «necessari ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente» – in quanto l’omissione o interruzione degli stessi non «determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo» – la diversità di disciplina rispetto ai pazienti che hanno accesso al suicidio assistito dovrà essere considerata non irragionevole”. Si richiamano a tal proposito le stesse considerazioni già esplicitate nella sentenza n. 135 del 2024e, in particolare, il necessario collegamento del requisito al rifiuto delle cure previsto dall’art. 1 e, soprattutto, dall’art. 2 della legge 219 del 2017: già nel 2024 la Corte affermava che la circoscritta area di non punibilità individuata “..non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost.” Per il giudice delle leggi in tali casi i pazienti non si trovano ancora “nella condizione di poter optare per la propria morte sulla base della legge n. 219 del 2017, rifiutando (rispettivamente) la prosecuzione o la stessa attivazione di un tale trattamento. Pertanto, la sua situazione non è assimilabile a quella di un paziente la cui vita dipenda, ormai, dal trattamento in questione”
2.2 Sulla autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana
Appaiono estremamente importanti – anche al di là del singolo caso oggetto del giudizio – le indicazioni fornite nel paragrafo n. 7 della motivazione della sentenza, in riferimento alla libertà della persona e alla tutela della vita umana nella vulnerabilità.
Si legge, infatti, che “anche nel contesto del pluralismo etico che caratterizza una democrazia liberale, solo «una concezione astratta dell’autonomia individuale» del soggetto, nel senso etimologico di abs-tractus (ovvero tratto fuori, in forza di una visione individualistica assoluta, dal contesto sociale), può rivelarsi insensibile a questa preoccupazione: se l’autodeterminazione, infatti, è costretta o comunque condizionata dalle circostanze, allora non è più tale”.
Pertanto, per la Corte, è “proprio la tutela della libertà di autodeterminazione a giustificarne, innanzitutto affinché sia genuina e responsabile, il bilanciamento con il dovere dello Stato di tutela della vita, la quale «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona»”. Dal principio personalista di cui all’art. 2 Cost. si ricava, infatti, “il preciso dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo”. L’autodeterminazione, pertanto, deve essere sottoposta a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana: un “bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento”.
In tale prospettiva – in attesa di un intervento del Parlamento, che ha tale significativo margine di apprezzamento nel bilanciamento – la Corte ricorda che la sua giurisprudenza ha sviluppato, “su un duplice livello”, le condizioni per le quali l’aiuto al suicidio può essere non punito, in considerazione dei “rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana” di cui all’art. 2 Cost.
Il primo livello attiene alla necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, in quanto vi è “il rischio che la richiesta di accesso al suicidio assistito costituisca una scelta non sufficientemente meditata”. Sono, quindi, previste precise condizioni procedurali, a tutela delle persone deboli e vulnerabili. In questo contesto, “assume grande importanza la concreta messa a disposizione di un percorso di cure palliative, che configura un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.
Infatti, “il contatto con sanitari e con una struttura effettivamente in grado di assicurare la tempestiva attivazione di terapie palliative può garantire il diritto dei pazienti a ricevere informazioni complete sul loro percorso di cura e permettere a ogni persona l’opportunità di confrontarsi con la malattia e con l’ultimo tratto del cammino di vita in maniera dignitosa e libera da sofferenze, anche nella prospettiva di prevenire e ridurre in misura molto rilevante la domanda di suicidio assistito”.
L’altra condizione prevista è il coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale (SSN), per garantire “un disinteressato accertamento della sussistenza dei requisiti di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito”. Il compito del SSN è limitato all’accertamento della sussistenza dei requisiti, non essendo previsto, infatti, come ricordava la sent. n. 242 del 2019, alcun obbligo di procedere in capo ai sanitari.
2.3 Le derive culturali e sociali da contrastare per rispondere “all’appello che sgorga dalla fragilità”: cura e solidarietà
È poi descritto “il secondo livello” di azioni per contrastare rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana.
In particolare, la Corte pone l’attenzione alla necessità di contrastare “derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”. Tali derive sociali e culturali rappresentano uno “scivolamento”, che si pone in collisione frontale con il principio personalista che anima la Costituzione italiana.
È importante, come fa la Corte, ricordare “il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale”.
Diventa quindi “cruciale”, come riconosce anche il giudice delle leggi, “garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte. È inoltre rilevante mettere a disposizione delle persone con malattie inguaribili tutti gli strumenti tecnologici e informatici che permettono loro di superare l’isolamento e ampliare la possibilità di comunicazione e interazione con gli altri. Al tempo stesso non può essere trascurato il “prendersi cura” anche di coloro che, nelle famiglie o all’interno delle relazioni affettive, assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi”.
La Corte si mostra particolarmente sensibile al tema e ricorda i dati relativi alla mancata attuazione della legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore. Afferma, infatti, che “va evidenziato che, a oggi, in Italia: a) non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; b) vi sono spesso lunghe liste di attesa (intollerabili in relazione a chi versa in situazioni di grave sofferenza); c) si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata (in tal senso Comitato nazionale per la bioetica, parere “Cure Palliative”, approvato il 14 dicembre 2023); d) la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente”.
È evidente, allora, la necessità di dare pienamente attuazione alla legge n. 38 del 2010 per il dovere di tutela della vita umana. È cruciale “garantire un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari”. Si rinnova, così, lo stringente appello al legislatore “affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito”.
3. Il monito della sentenza: risorse scarse e cura delle persone fragili, spesso “invisibili”
La Corte nella sua ultima pronuncia ci ricorda, così, che è stata riconosciuta in Italia una circoscritta area di non punibilità relativa all’aiuto al suicidio, ma non un diritto a ricevere prestazione di suicidio. Le condizioni poste – a partire dal coinvolgimento in un percorso di cure palliative e dall’accertamento rigoroso delle stesse da parte del SSN – sono in funzione della tutela dei pazienti fragili rispetto al rischio di premature rinunce alla vita. Lo Stato ha, infatti, il dovere – che nasce dal principio personalista – di tutelare la vita umana. Tale dovere impone di contrastare derive culturali e sociali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso.
La Corte costituzionale ci ricorda che “la prospettiva della morte come unica via di uscita potrebbe essere frutto di un irrimediabile abbaglio”.
In un periodo storico molto complesso, “caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche” è fondamentale dare voce all’appello che “sgorga dalla fragilità”, garantendo sostegno sociale, sanitario, umano, esistenziale al paziente e al caregiver.
Ed è importante, in conclusione, ricordare la necessità di contrastare a livello culturale e sociale ogni deriva che ritiene la morte un diritto e la vita umana fragile disponibile. Sottolinea sempre la Corte che il presunto diritto di morire “rivendicato in alcune circostanze” è rischioso, potrebbe, infatti, “essere paradossalmente percepito dal malato come un ‘dovere di morire’ per non ‘essere di peso’ , con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili””.
Per approfondire:
ultimo aggiornamento il 23 Maggio 2025