Il racconto, in prima persona, di chi ha guidato il fronte della vita
ELUANA, UDINE, IL FRIULI
NULLA E’ PIU’ COME PRIMA
di Gianluigi Gigli*
Seguo le vicende dello stato vegetativo da almeno otto anni. Ero allora presidente della Federazione internazionale delle Associazioni dei medici cattolici e venni sollecitato ad occuparmene dai colleghi americani, allarmati per quanto stava accadendo con la sospensione di idratazione e nutrizione all’interno delle istituzioni sanitarie degli Stati Uniti, comprese quelle cattoliche. Sapevo che Terri Schiavo non era che la punta di un grande iceberg. Tuttavia, non avrei pensato che, grazie a Eluana – lasciata morire di fame e di sete quasi sotto casa mia –, la problematica dello stato vegetativo avrebbe finito per coinvolgermi scientificamente ed emotivamente fino al punto di ritrovarmi impegnato in una tremenda battaglia per la vita.
Ci volle molto tempo per preparare un importante congresso scientifico internazionale, che vide i maggiori esperti di tutto il mondo riunirsi a Roma nel marzo 2004. Apparve evidente che lo stato vegetativo non era più l’entità descritta nel 1994. Solo le Corti di giustizia italiane avrebbero continuato a fare riferimento all’articolo, ormai datato, pubblicato dalla Multi Society Task Force sul New England Journal of Medicine. Al termine dei lavori congressuali, Giovanni Paolo II chiarì in modo autorevole la posizione della Chiesa e diede sostegno e dignità alla resistenza di molti medici e di persone semplici, amanti della vita.
Sull’onda del congresso, il ministro della Salute di allora, on. Storace, aderì alla nostra richiesta di una Commissione tecnico-scientifica ministeriale. La Commissione, presieduta dal sottosegretario Di Virgilio, concluse i suoi lavori nel febbraio 2005, producendo un importante documento che resta di riferimento per tutti, tranne che per chi si è assunto il compito di una sistematica disinformazione.
All’inizio di aprile del 2005 Terri Schiavo moriva, lacerando l’America. In un articolo sull’Osservatore Romano, mi permisi di predire lo tsunami culturale che di lì a poco si sarebbe riversato sull’Italia. Pochi giorni dopo moriva anche Giovanni Paolo II. Da allora, la battaglia in Italia sul caso di Eluana è continuata per me senza soste sui mezzi d‘informazione, in dibattiti pubblici (anche con membri della Consulta di Bioetica e con lo stesso Beppino Englaro) e nelle discussioni all’interno della Società Italiana di Neurologia, dove il dottor De Fanti continuava una tenace opera di penetrazione. Anche la mia conoscenza della letteratura scientifica sull’argomento si è amplificata, con particolare riguardo agli studi sulle presenza di coscienza sommersa dimostrata con le nuove tecnologie.
Ad ottobre 2007 la Corte di Cassazione ha dato il primo importante via libera a Beppino Englaro e nel luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano ha emesso il decreto autorizzativo. Insieme a 25 illustri colleghi, abbiamo ottenuto, con un appello pubblico, che il Procuratore Generale di Milano richiedesse alla Cassazione di riaprire il caso.
Mentre il Parlamento incominciava, tardivamente, a prestare attenzione alla vicenda, il sottosegretario Roccella istituiva una nuova Commissione tecnico-scientifica, i cui lavori sono ancora in corso. Nel frattempo, dopo che la Cassazione dichiarava irricevibile il ricorso del Procuratore Generale di Milano, il centro della scena si spostava a Udine, in una città e in una diocesi ancora del tutto fredde e apatiche verso quanto stava accadendo e disinteressate alle conseguenze che si sarebbero determinate.
Grazie alle prime proteste locali e grazie, soprattutto, all’atto di indirizzo del ministro Sacconi, la prima ipotesi di trasferimento veniva a cadere, a seguito della rinuncia della stessa Casa di Cura “Città di Udine”. Tuttavia, dopo l’ultima sentenza del Tar che bocciava le direttive della sanità lombarda, la scelta del luogo dove condurre Eluana a morire tornava definitivamente su Udine.
Più volte in quei giorni mi sono chiesto: perché a Udine, perché sulla soglia di casa mia? Pian piano le ragioni si sono chiarite. Solo in una piccola città come Udine ed in una piccola regione come il Friuli, avrebbe potuto determinarsi una concentrazione di poteri (giudiziari, politici, amministrativi, sanitari, accademici) tanto compatta da essere impermeabile a ricorsi, ispezioni ministeriali, Nas e polizia. A Udine, infine, vi erano anche dei preti sicuri di poter andare contro le direttive del proprio Arcivescovo e laici cristiani, impegnati sia nei consigli pastorali che in quello comunale, pronti a salvare il sindaco, ma non Eluana.
In giornate frenetiche, mentre ogni sforzo per la vita di Eluana si infrangeva contro il muro del potere e sugli scogli del tradimento, mentre la Chiesa sembrava incapace di alzare la sua voce e aveva abdicato al ruolo di guida del suo popolo, a Udine abbiamo però assistito anche a un piccolo miracolo.
Quasi dal nulla e senza alcun ordine, è nato un gruppo di laici che ha dato prova di saper incidere a fondo nella realtà sociale che li circonda. Molte altre persone si sono aggregate. Ne è nata una presenza pubblica, capace di animare una preghiera quotidiana molto partecipata nella Basilica delle Grazie adiacente alla “Quiete”, di ravvivare il dibattito culturale e di penetrare i mezzi di informazione, di presentare esposti con cui la magistratura dovrà confrontarsi ancora per lungo tempo.
Si è assistito gradualmente alla crescita di una consapevolezza in larghi strati della società friulana. Sono stati suscitati interrogativi profondi sul senso della vita, anche nelle sue condizioni estreme, e sulla dignità dell’uomo, che nessuna malattia – per quanto grave – può scalfire. Ne sono nate una più profonda e critica sensibilità culturale.
Personalmente sono state giornate di grande fatica e di profonda frustrazione. Sono stato tentato dallo scetticismo nella tenuta delle istituzioni e nella possibilità di ricerca della giustizia.
Sono state però anche giornate di doni inattesi. Il dono di un popolo capace di ritrovare la sua identità attorno al valore della vita dei disabili. Il dono di sacerdoti senza formale autorità, capaci di supplire all’autorevolezza insufficiente di coloro che l’autorità avrebbero dovuto esercitare. Il dono dell’incontro con gente disposta a rischiare anche il posto e la carriera per opporsi ad un orribile disegno. La soddisfazione di incontrare al supermercato, per strada, in ospedale o al ristorante tanta gente semplice, che ti ringrazia per ciò che hai fatto e per aver dato loro voce. Il dono di incontrare una cassiera che al cinema ti offre il biglietto gratuito e che, quando tu la ringrazi, ti dice che è il minimo che avrebbe potuto fare per te. La certezza di essere stato segno di contraddizione, quando ricevi biglietti o mail contenenti minacce o oscenità.
Il dono, soprattutto, di incontrare famiglie con pazienti in stato vegetativo con la forza di non abbandonarli per un solo giorno, capaci di comprendere che la loro croce è anche testimonianza in grado di aprire il cuore a chi ha ancora occhi limpidi per guardare. Come la famiglia di Pordenone, per la quale la fatica di assistere il figlio non è abbastanza, capace non solo di farlo vivere in mezzo al mondo, ma di aprire uno spazio di solidarietà per chi non ce la fa più.
Michael Schiavo era discendente di emigranti friulani. Beppino Englaro aveva le sue radici in Friuli. Friulano era anche il gruppo socialista erede di Loris Fortuna che ha voluto che Eluana morisse a Udine. Ma il Friuli non è solo questo. E’ anche il popolo che ho cercato di descrivere. Per loro e per me, Eluana non è morta invano. Non siamo gli stessi di prima. Non dimenticheremo Eluana. Ancor più di ieri ci sentiamo in dovere di combattere una cultura di morte che non ha niente a che fare con i valori di questo popolo, mal interpretato dai suoi governanti.
*Neurologo, membro del Consiglio Esecutivo di Scienza & Vita
L’azione del Coordinamento friulano “Per Eluana e per tutti noi”
NON E’ STATO L’EPILOGO
DI UN UMANO FALLIMENTO
di Francesco Comelli*
L’associazione Scienza e Vita ed il Forum delle Associazioni Familiari hanno fondato, il 4 febbraio scorso, – sembra un secolo fa – il Coordinamento friulano “Per Eluana e per tutti noi”. Il Coordinamento è nato per promuovere e sostenere ogni possibile iniziativa o manifestazione civile volta a scongiurare la morte per fame e sete di Eluana Englaro. Il lungo elenco di associazioni e realtà sociali nazionali e locali che nelle ore o giorni successivi hanno aderito testimonia la realtà di un popolo che ha pienamente colto la tragica portata di quanto stava accadendo a Udine.
Purtroppo si sono rivelate inutili le formali e reiterate richieste di bloccare l’attuazione del protocollo, almeno fino a quando non si fosse risposto ad una serie di quesiti sulla regolarità e trasparenza della procedura. Tali quesiti, inviati all’autorità giudiziaria e alle autorità politiche e sanitarie restano, comunque, in attesa di risposta. All’apparenza, altrettanto inutile è apparsa la spontanea mobilitazione di tante persone che in ogni modo hanno chiesto e manifestato il rispetto per la vita. Così come la preghiera che una folla crescente ha elevato ogni sera dal Santuario della Beata Vergine delle Grazie adiacente alla “Quiete”. Così quando la sera del 9 febbraio il gruppo di persone in lacrime che sostava sul marciapiede antistante la struttura di accoglienza ha ascoltato il suono della “campana a martello” con cui il priore del Santuario rendeva l’estremo saluto ad Eluana e l’affidava all’abbraccio di Dio, sembrava davvero l’epilogo di un umano fallimento.
Invece, in modo sorprendente e imprevedibile, la morte di Eluana si è rivelata non una fine ma l’inizio di una sfida portata al cuore di tutti noi: qual è il senso della vita? O la nostra esistenza è una breve parentesi tra il nulla da cui per caso siamo emersi e il nulla a cui siamo destinati – e allora vale il “carpe diem” che censura, fin che può, il dolore e la contraddizione, oppure, come ha detto Jannacci in una bellissima intervista apparsa sul ‘Corriere della Sera’, “è uno spazio che va riempito di senso, sempre e comunque”. “Sempre e comunque”: anche quando è così fragile e segnata dal limite, ancor più allora, come ci hanno mostrato le generazioni che ci hanno preceduto, almeno fino a quando non si è insinuato il dubbio, negli ultimi anni, che forse “non ne vale la pena”.
Questo primo passo di serietà, di verità di fronte alla propria vita non può restare confinato nel ristretto ambito del privato ma deve generare un’azione educativa, capace di ridire le ragioni per cui l’accoglienza della vita, comunque si presenti, è più umana e più vera del nichilismo imperante che ci soffoca dentro una logica suicida. Moltiplicare le occasioni di riflessione su questi temi, sollecitare il dibattito e il confronto serio con tutti coloro che hanno a cuore l’uomo è il compito di ognuno.
C’è, alla fine, un livello ancora più profondo a cui la morte di Eluana ci richiama: si tratta, paradossalmente, del fascino del bello, verso cui il cuore umano è irresistibilmente attratto. Non saranno i nostri sforzi, i nostri convincimenti etici, pur nobili e giusti, a cambiare la realtà ma solo lo stupore di fronte ad una capacità più grande di voler bene come quella della suore Misericordine di Lecco.
Due allora sono le priorità di fronte ai tanti casi di assistenza amorevole a malati gravi e disabili: da un lato il chiedere a gran voce tutto l’aiuto e il supporto di cui hanno diritto, dall’altro permettere che il loro esempio tocchi nel profondo il nostro cuore e lo muova a vivere nello stesso modo.
Abbiamo bisogno di stare di fronte a testimoni che ci mostrino come nessuna circostanza, neanche la più dolorosa e ingiusta, può distruggere la speranza di un bene.
Proprio in questa triste vicenda che ha sconvolto la nostra cara Udine abbiamo incontrato tanti di questi testimoni che nel silenzio e nell’umile dedizione quotidiana ai loro cari ci mostrano un modo di stare al mondo più vero e per questo più bello. Ripartiamo da qui e dal loro esempio riscoperto che è il frutto più prezioso che già fin d’ora la morte di Eluana ha generato.
*Gastroenterologo, Presidente Scienza & Vita Udine
La voce di un protagonista della comunicazione. Lui a Udine c’era
LA MALINFORMAZIONE
DEI “SENZA DUBBI”
di Pino Ciociola*
È morta in fretta: molto, forse troppo. Avrebbe potuto e dovuto combattere contro fame e sete almeno dieci o quindici giorni da quando le hanno tolto acqua e cibo, anzi addirittura la scienza medica non escludeva affatto che potesse arrivare a superare i venti. Come pure i primi danni irreversibili dalla mancata nutrizione e idratazione sarebbero dovuti insorgere, nell’ipotesi peggiore, non prima di cinque giorni, più probabilmente dopo sei o sette. Eluana è morta dopo appena quattro. Un paio d’ore prima, nel pomeriggio di lunedì 9 febbraio, il suo neurologo Carlo Alberto Defanti aveva spiegato che era forte, stava bene e sarebbe andata avanti altri dodici, quattordici giorni: «Resisterà più lungo della media».
Sapeva bene, Defanti, che quando Eluana era stata portata via dalla casa di cura lecchese “Beato Talamoni” e tolta alle suore Misericordine che l’amavano, a parte la lesione cerebrale per l’incidente del 1992, era in condizioni ottime. Mai preso un antibiotico in diciassette anni di stato vegetativo persistente.
E del resto qualunque Tribunale potrà anche avere decretato ciò che ha preferito (non a caso le disposizioni per autorizzare la volontà di Beppino Englaro sono cambiate negli anni a seconda degli uomini in toga chiamati a deciderne…), ma qualunque Tribunale non avrebbe mai e poi mai potuto negare che lei respirasse senza affanni. Che il suo cuore battesse sereno. Tossisse. Fosse capace di deglutire. Avesse il ciclo mestruale. Sapesse aprire i suoi occhi di giorno e chiuderli la notte. Perché allora non è bastato a farla considerare viva? E perché neppure è servito sapere bene – nonostante le menzogne quasi sempre lette sui giornali e ascoltate in televisione – che nella sua stanza non c’era alcun genere di macchinario, ma solo un piccolo sondino, per nutrirla, posto in una sua narice?
In realtà ce ne sono tante altre di domande che restano senza risposta (per ora) intorno alla sua fine. Affacciatesi soprattutto negli ultimi sette giorni della vita di Eluana: quelli trascorsi a Udine, nell’”Azienda di servizi pubblici alla persona – La Quiete”. Domande che rimbalzano ogni notte nella testa di chi quei giorni li ha vissuti proprio davanti alla Procura di Udine, alla stessa “Quiete”, alla Questura, allo studio di Giuseppe Campeis, l’avvocato di Beppino Englaro. Spesso passando sotto le finestre dove intanto stavano finendo Eluana. Domande però alle quali verrà data – presto o tardi – risposta.
Prendiamo per esempio il capitolo legale. Nelle varie dichiarazioni “ufficiose” Campeis parlava di «sentenza» o «sentenza passata in giudicato», ma lo facevano addirittura anche il Procuratore di Udine Antonio Biancardi e il Procuratore generale di Trieste Beniamino Deidda. E però nei documenti ufficiali – come ad esempio il "Protocollo" per far morire Eluana – il pronunciamento della Corte di appello civile milanese era invece e solo un «decreto del 25 giugno 2008», per autorizzare l’«interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale della signora Eluana Englaro». È una differenza decisiva, quella tra sentenze e decreti: per questi ultimi, che sono provvedimenti di volontaria giurisdizione (cioè pronunciamenti d’un giudice non per comporre una lite, ma nell’interesse di uno o più soggetti), l’articolo 742 del Codice di procedura civile dispone che «possono essere in ogni tempo modificati o revocati». Dunque tutt’altro che una «sentenza passata in giudicato la cui esecuzione è doverosa», come si era affrettato a precisare il Procuratore generale triestino la mattina di venerdì 6 febbraio. Domanda: ma la cosiddetta “sentenza” sarebbe stata «doverosamente da eseguire», appunto poiché ormai «passata in giudicato», anche se Eluana avesse mostrato segni di risveglio o coscienza?
In quei giorni a Udine pioveva quasi sempre. E si passava dalla speranza (che accadesse qualcosa in grado di fermare la condanna morte per Eluana) alla disperazione (perché nulla invece accadeva) nel giro di mezz’ora mille e mille volte. Mentre i grandi quotidiani nazionali descrivevano le sue condizioni fisiche ora quasi fosse una modella, ora quasi fosse come una larva. Adesso riposa nel cimitero di un piccolo paesino poco più in là di Udine, Paluzzo. E finalmente parla. Con Dio.
*Inviato speciale di Avvenire
Dal rifiuto di cure all’eutanasia: il passo è breve
IL DESIDERIO DI MORIRE
PRIVO DI GARANZIE COSTITUZIONALI
di Ilaria Nava
Di che cosa stiamo parlando quando discutiamo delle dichiarazioni anticipate di trattamento? Dell’articolo 32 della Costituzione, che afferma che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Ragioniamo, quindi, sul fatto che il medico in nessun caso può coattivamente imporre una terapia ad un paziente che non lo voglia, e per tale motivo nel nostro ordinamento è stato introdotto il consenso informato.
In attuazione di tale articolo ogni persona può decidere di rifiutare un atto medico, ad esempio può decidere di non sottoporsi a un intervento di amputazione di un arto, come accaduto a una signora di Monza qualche anno fa. La signora in questione è tornata a casa sua, vivendo accanto ai suoi cari i suoi ultimi giorni. Così come qualsiasi persona che sospetti di essere affetta da una malattia incurabile, può decidere di non recarsi neppure dal medico e lasciare che la malattia la porti inesorabilmente alla morte. In questi casi nessuna prestazione è richiesta al medico per abbreviare la vita del paziente, proprio perché è vero che l’ordinamento non considera degne di tutela tutte le scelte compiute qualunque esse siano, perché, come detto “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
L’obiettivo a cui tende l’articolo 32 della Costituzione, infatti, è quello di evitare che una persona sia sottoposta a un trattamento sanitario che pensa di non essere in grado di sopportare (fisicamente o psicologicamente) e non quella di ottenere la morte. Ciò non toglie che nella sua mente vi possa essere questo desiderio, ma esso resta e deve restare, se non per essere dissuaso, su un piano puramente “interno” del soggetto, dal momento che non è possibile ricondurlo all’articolo 32 della Costituzione.
Negli ultimi mesi, invece, si è passati dalla discussione sulla possibilità di rifiutare i trattamenti sanitari al diritto di ottenere la morte, come bene illustra il discutibile editoriale di Umberto Eco pubblicato qualche giorno fa su Repubblica dal titolo “Perché ho il diritto di scegliere la mia morte”. Una vertiginosa parabola che ci ha portati in un batter d’occhio a dover difendere il diritto al nutrimento di pazienti non più capaci di intendere e di volere, che alcuni vorrebbero sospendere sulla base del fatto che “preferirebbero morire piuttosto che vivere così”.
Un film già visto al contrario: Welby nella suo primo messaggio indirizzato al presidente Napolitano aveva affermato: “Voglio l’eutanasia”. Solo in seguito la strategia si era lentamente spostata sul diritto a rifiutare un trattamento sanitario e la parola “eutanasia” era sparita dal vocabolario radicale e dalle lotte di piazza. Ora che è stato indebitamente distorto il concetto di “rifiuto dei trattamenti sanitari” e dell’articolo 32 della Costituzione possiamo ripartire da dove eravamo rimasti e ripercorrere al contrario il sentiero, ormai spianato, per arrivare, se non interverrà una legge rigorosa, al diritto di ottenere la morte di Stato.
In mille al convegno milanese promosso dal Centro di Bioetica
“IL CASO E” HA SMOSSO
L’INTELLIGHENTIA CATTOLICA
di Dino Moltisanti*
“Eluana Englaro non sia la nostra Terry Schiavo”. Con queste parole il Sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella ha chiuso il convegno di studio “Il caso E in Italia. Eluana. Eutanasia. Eversione.” organizzato a Milano dal Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Un auspicio, quello del sottosegretario, un impegno, una vera e propria corsa contro il tempo che, come sappiamo, si è chiusa in modo infausto: Eluana Englaro è morta. Il suo cuore si è fermato dopo pochi giorni dall’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, frustrando le speranze di chi guardava proprio al caso di Terry Schiavo (che morì dopo 13 giorni dal distacco del sondino) per convincersi che un intervento legislativo d’urgenza avrebbe potuto strapparla alla morte.
La vicenda-Englaro ha indubbiamente lacerato (e diviso) l’Italia. L’opinione pubblica è stata sollecitata a interrogarsi su temi centrali per l’esistenza di ciascuno: malattia, sofferenza e morte. Il dibattito che ne è scaturito ha però evidenziato quella che pare essere una triste costante della “bioetica mass-mediatica”: l’incapacità di offrire una sistematica riflessione che, sia pur non prescindendo dalle emozioni, dai sentimenti e dalle esperienze soggettive suscitate dal caso, possa “elevarsi” a conoscenza, con argomenti e ragioni fondate. In tal senso, il contributo apportato dal convegno “Il caso E” è stato preziosissimo, dal momento che, seppure in un contesto di grande tensione (si è svolto il 7 febbraio, ossia due giorni prima della morte di Eluana), si è imposto come “vero e proprio momento di studio” – così ha esordito il direttore del Centro di Ateneo di Bioetica, il prof. Adriano Pessina, rivolgendosi agli oltre mille partecipanti all’evento. In pieno accordo con la metodologia consolidata del sapere bioetico, si sono alternati relatori che hanno affrontato la questione secondo tre punti di vista distinti ma integrati: giuridico, medico e politico.
Incisivi e molto apprezzati sono stati in particolare gli interventi dell’area giuridica. Il prof. Nicolò Zanon, docente di Diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Milano, commentando la sentenza della Cassazione che di fatto ha aperto l’iter che ha portato alla morte di Eluana, osserva come di fronte ad una materia non regolata da legge (non almeno in modo diretto), il giudice “ha sì potere interpretativo, ma deve restare ancorato al rispetto del potere legislativo e ancor di più ai dati del diritto positivo (che propendono in modo chiaro alla tutela del diritto alla vita)”. Nel caso-Eluana, invece, è evidentissimo come si sia varcato proprio il confine tra interpretazione e creazione di nuovo diritto. Un giudizio duro condiviso dal prof. Alberto Gambino, Docente di diritto privato presso l’Università Europea di Roma, il quale nel suo intervento ha argomentato una tesi molto precisa: “Il caso-Englaro ha dimostrato come la sovranità non appartiene più al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1). Ora la sovranità, in taluni casi, appartiene all’individuo che la esercita attraverso le sentenze dei giudici”. Una tale affermazione sembra il commento più adeguato alla vicenda che ha portato il Capo dello Stato a respingere il decreto legge del Governo che avrebbe “salvato” Eluana. Il Quirinale, infatti, nel motivare il rifiuto ha spiegato che un tale decreto avrebbe disatteso una soluzione giudiziaria definitiva. Ebbene, il decreto della Corte d’Appello non può essere giudicato soluzione giudiziaria definitiva, rappresentando un decreto di autorizzazione non vincolante per terzi.
Il “caso E.”, però, oltre che sollecitare la scienza giuridica, chiama in causa la medicina, le sue conoscenze e competenze, la sua natura e i suoi fini, le sue obbligazioni morali. Gli organizzatori del convegno hanno perciò previsto un cospicuo tempo di riflessione sugli aspetti medici della questione. La prof.ssa Maria Luisa Di Pietro, associato di Bioetica e presidente dell’Associazione Scienza e Vita, e il dott. Marco Bregni, presidente di Medicina e Persona, sia pur con prospettive diverse, hanno argomentato come, con il “caso E.”, vengano disattese la stessa natura e i fini della prassi medica. Maria Luisa Di Pietro ha insistito in particolare sulla necessità per il medico di non trasformarsi, nonostante le forti spinte esterne alla medicina, in “burocrate” o “ideologizzato”. Il dott. Bregni ha invece messo in guardia dalla pericolosa tendenza di non considerare uomo (e quindi paziente) chi abbia perso le capacità di relazione.
Il prof. Rodolfo Proietti e il prof. Antonio Pesenti, ordinari di Anestesia e Rianimazione rispettivamente dell’Università Cattolica di Roma e dell’Università di Milano Bicocca, sono poi entrati nel dettaglio clinico mostrando come, nel “caso E.”, non si possa certamente prefigurare una situazione di accanimento terapeutico e come la nutrizione e l’idratazione non abbiano una funzione tipicamente terapeutica ma siano atti dovuti alla persona.
Molto applaudito l’intervento della dott.ssa Matilde Leonardi (medico e membro della Commissione ministeriale su Stato Vegetativo e Stato di minima coscienza) che ha mirabilmente palesato come il cosiddetto “stato vegetativo persistente” sia una condizione di disabilità che, oltre a lasciare aperto un cospicuo margine di incertezza circa alcune questioni, consente di fare alcune conclusioni incontrovertibili supportate dalla letteratura scientifica: la persona in Svp non è un malato terminale; la persona in Svp non è escluso che provi dolore; il cervello delle persone in Svp mostra evidenti segni di “funzionamento”; le persone in Svp hanno funzioni cognitive residue; alcune persone in Svp (anche dopo molti anni, 19 in un caso) si sono “risvegliate”. Le persone in Svp sono insomma persone disabili che hanno bisogno di “facilitatori ambientali” e quindi la società deve sentirsi sollecitata a garantire quell’assistenza che ad ogni essere umano è dovuta.
Il convegno si è chiuso con due appassionati interventi del presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, e dell’on. Eugenia Roccella che hanno ricostruito le vicende giudiziarie e politiche legate al “caso E.”, richiamando la classe politica ad assumersi le proprie responsabilità, a partire dalla riconferma – così si legge nelle conclusioni al convegno del Centro di Ateneo di Bioetica, “dell’indisponibilità della vita come principio base della democrazia. Una società democratica e solidaristica non può infatti promuovere una concezione ristretta e arbitraria della dignità della vita”. Come è avvenuto, purtroppo, con Eluana Englaro.
*Docente di filosofia e bioetica, Istituto di bioetica Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma
Scelta filmologica inesorabile: quella vita non è degna di essere vissuta
COSI’ IL CINEMA HA PREPARATO
LA DERIVA VERSO L’EUTANASIA
di Emanuela Vinai
Quand’è che un crimine non è più tale? Quando è compiuto in nome di nobili fini. Il quesito è sottile ma, una volta insinuato il dubbio, diviene emozionalmente dirompente.
Che cosa saremmo disposti a fare per alleviare le sofferenze di una persona cara, per strapparla al dolore e allo strazio di una malattia gravissima? Che cos’è che rende la vita degna di essere vissuta?
Il cinema affronta questo tema, scottante e controverso, da molto tempo e con gradazioni di dolore diverse, quasi come se si volesse far passare l’idea che, in fondo, non c’è crimine nell’uccidere qualcuno, perché lo si fa per un nobile fine: aiutarlo.
Lo affronta da così tanto tempo che nessuno si stupisce più se nel film chi soffre lo fa così orribilmente che l’empatia umana porta immediatamente a chiedere una fine per queste sofferenze. E a questo punto gli sceneggiatori, dopo aver proposto il lungo travaglio interiore degli attori coinvolti, suggeriscono che la scelta c’è ed è pietosa. E’ una scelta umanamente possibile e forse è anche un atto d’amore.
Ed è questo che manda in crisi lo spettatore, cioè noi.
Pur quando, come ad esempio in “Million dollar baby”, l’eutanasia viene presentata come un atto illecito, fatto meccanicamente e quasi senza adesione di volontà da un amico, convinto dalla pressante richiesta di una ragazza disperata. Un atto che, come aveva previsto il sacerdote che raccoglie le confidenze di Frank (Clint Eastwood), porta alla perdizione chi lo commette. Eppure è percepito come ineluttabile.
Così come in “Mare Dentro”, una sorta di “via crucis” in cui il protagonista, da trent’anni (trent’anni!) immobile a letto, tetraplegico dopo una caduta in mare, guarda la vita scorrere da una finestra e chiede di essere aiutato a morire.
Colpisce duro, colpisce allo stomaco. Scatta il processo di identificazione. Ciascuno non può fare a meno di interrogarsi: io vorrei vivere così?
Anche perché, spesso, si parla di giovani, nel fiore degli anni, normalmente soli, per scelta o per traversie, condannati ad un destino peggiore della morte stessa.
Un destino peggiore della morte: lo si diceva, un tempo, per indicare lo stupro. Come se per la donna fosse preferibile uccidersi, piuttosto che farsi contaminare da un atto che, inevitabilmente avrebbe avuto delle ripercussioni anche sulla famiglia. Già, la famiglia, grande assente salvo tardivi ripensamenti. Eppure è statisticamente dimostrato che la domanda di eutanasia crolla quando c’è una rete, familiare e di amicizia, di solidarietà diffusa.
Si potrebbe continuare, partendo da “Le Invasioni barbariche”, fino al recentissimo “Ti amerò sempre”. Ma un tratto comune lo si può trovare.
Quello che manca, spesso, nei film è la proposta positiva. E a dominare, è il male di vivere, la tristezza esistenziale, la depressione, i sensi di colpa, l’incapacità di trovare il senso della vita.
Per vedere un ottimo film che parli di eutanasia, ma dove a vincere è la vita, l’uomo in quanto tale, nonostante le mille difficoltà e imperfezioni, dobbiamo ancora aspettare.
Intanto chiediamoci: perché questi temi, al di là dell’indubbia bravura degli attori, sono stati tutti premiati con uno o più Oscar?
Gli scenari disastrosi evocati non hanno trovato alcun riscontro
CINQUE ANNI DOPO LA LEGGE 40
DALLAPICCOLA: “IO RIFAREI TUTTO”
di Bruno Dallapiccola*
In occasione del quinto anniversario dell’approvazione della legge 40 (19 febbraio 2004) ripensando alle motivazioni che mi hanno spinto a scendere in campo in sua difesa, posso dire che oggi le confermerei tutte. E lo dico per ragioni oggettive, sulla base delle evidenze scientifiche emerse dalla sua applicazione. I disastrosi scenari che erano stati preannunciati all’epoca dell’approvazione e del referendum, non hanno trovato alcun riscontro.
I risultati forniti dall’Istituto superiore di sanità sono tutt’altro che tragici e il tasso di successo della tecnica italiana è simile a quello degli altri Paesi europei. Una differenza però c’è, dal momento che in Italia la donna assume meno ormoni, non si creano embrioni in sovrannumero e si tende comunque a produrne e trasferirne meno del numero massimo consentito, ossia meno di tre. Il tasso di successo della fecondazione in vitro è diminuito rispetto a prima solo per le aspiranti mamme più avanti con l’età, ossia intorno ai 40 anni. Tuttavia, è bene ricordare che non a caso, non molto tempo fa era considerato deontologicamente non corretto, da parte della classe medica, permettere l’accesso alla procreazione in vitro per questi soggetti.
Un altro degli aspetti maggiormente criticati da chi non condivide la Legge 40 è quello relativo al divieto di diagnosi pre-impianto. I dati a disposizione, forniti dai Paesi in cui è permessa, sono piuttosto scoraggianti. Uno studio pubblicato due anni fa prendeva in considerazione 20mila embrioni in provetta analizzati nella fase pre-impianto. Sono nati solo il 2,6% degli embrioni sottoposti a biopsia.
Inoltre, chi si occupa di diagnostica genetica sa quanto sia importante il fattore “errore” in questo tipo di attività. Gli errori diagnostici sono relativamente contenuti per le patologie geniche, oscillando tra l’1 e il 5%, e abbiamo risultati analoghi per quanto riguarda le analisi cromosomiche. Tuttavia, questi risultati non tengono conto degli errori che vengono fatti dall’utilizzo di tecniche di diagnosi genetica nelle primissime fasi di sviluppo embrionale e in base ai quali gli embrioni patologici vengono eliminati. Sappiamo infatti che l’errore relativo alle traslocazioni cromosomiche su due cellule, a 70 ore dalla fecondazione, è non inferiore al 15%. Una serie di lavori scientifici dimostra, infatti, che gli embrioni che risultano patologici in quello stadio, se invece di essere scartati vengono rimessi in coltura e analizzati nella settimana successiva, in almeno il 15% si verifica una correzione. Questo perché nelle prime fase della vita sono presenti dei mosaicismi, ossia delle doppie popolazioni cellulari coesistenti, per cui se nell’analisi viene presa una delle cellule in cui la patologia è presente, può risultare patologico un embrione che in realtà è normale.
A ciò si aggiunga che per arrivare alla diagnosi pre-impianto è necessaria la fecondazione in vitro. Non possiamo sottovalutare il fatto che questa tecnica comporta necessariamente aspetti problematici, come l’assunzione di ormoni da parte della donna, la possibilità di partorire un figlio prematuro, e un rischio 12 volte maggiore di avere un bimbo con patologie da alterata regolazione genica, ossia patologie “da imprinting”, che si traducono in alterazioni morfologiche del neonato e ritardo mentale.
Uno studio pubblicato nel 2008 dall’organo ufficiale della Società europea di genetica umana, la rivista European Journal of Human Genetic, ha preso in considerazione 53 centri, appartenenti a 17 Paesi, che praticano queste tecniche. Emerge che nella maggioranza dei casi vi è un livello di accuratezza nelle tecniche piuttosto bassa: il 66% di queste strutture non sono state ancora accreditate; il 66% non pratica controlli di qualità, ossia non ha alcuna validazione esterna; il 19% non raccoglie dati per verificare se le diagnosi eseguite sono corrette, e infine il 9% dichiara di non seguire la paziente fino al parto. Un dato inquietante, se pensiamo che queste indagini sono finalizzate a valutare le fasi iniziali della vita.
Da ciò emerge che a livello europeo esiste una sorta di giungla riproduttiva e ho avuto modo di constatarlo per testimonianza diretta da parte di pazienti che si sono rivolti a centri esteri. Ad esempio, una donna mi ha raccontato di essersi recata in Spagna per effettuare la diagnosi pre-impianto, e lì i12 embrioni prodotti erano risultati tutti patologici e quindi scartati. Questo da una parte conferma che il tasso di patologie cromosomiche al concepimento è altissimo, dall’altro che non è stato tenuto in considerazione il fatto che non tutte le patologie cromosomiche viste a 70 ore sono reali, perché può trattarsi, come abbiamo detto, di pseudomosaicismi che la settimana dopo si normalizzano.
A fronte di questa situazione, la legge 40 ha posto – in Italia – un argine e introdotto una regolamentazione: ne è sintomo il fatto che noi genetisti veniamo interpellati dai centri con maggior frequenza rispetto a prima, per eseguire analisi preliminari sulle coppie, anche se non sono certo che tutti i centri italiani abbiano un contatto preliminare col genetista prima di accedere alla tecnica.
La legge non toglie nulla alle coppie, se non la possibilità di praticare la diagnosi preimpianto. Quando si invoca questa possibilità, vorrei sapere se le coppie che la richiedono sono davvero consapevoli di cosa sia, del bassissimo successo di questa tecnica, dell’alto tasso di errori, delle patologie potenzialmente indotte.
Penso che oggi la battaglia alla legge 40 più che sul piano scientifico si giochi su quello ideologico, dal momento che, a cinque anni dall’approvazione, di argomenti scientifici per dire che varare questa legge non è stata una scelta sbagliata, ne abbiamo in abbondanza.
*Genetista, Presidente Associazione Scienza & Vita
L’Associazione Scienza & Vita approva un documento e apre il dibattito
MEGLIO DONARE IL SANGUE
DA CORDONE OMBELICALE
di Carlo Valerio Bellieni*
Il documento dell’Associazione Scienza & Vita sulla conservazione del sangue di Cordone Ombelicale (scaricalo qui), vuole fare il punto su una serie di ambiguità che possono essere generate da un’informazione non corretta. Invitiamo a leggere il testo ed eventualmente opporre critiche di carattere scientifico, se eventualmente ci fossero, per far uscire il dibattito attuale sull’etica in Italia dal recinto dei preconcetti.
Il documento, con lo stile tipico dell’Associazione, esamina la letteratura scientifica che negli ultimi anni ha mostrato l’importanza dell’uso delle cellule staminali adulte (tra cui quelle del cordone ombelicale) per uso terapeutico – che “Scienza & Vita” ha sempre incoraggiato e i cui frutti si vedono con sempre maggiore frequenza – così come ha sollevato perplessità sull’uso “per se stessi” (altresì detto autologo) del sangue del cordone ombelicale. Le ragioni degli scienziati sono semplici: se il soggetto presenterà una malattia genetica, è probabile che essa sia presente anche nelle cellule messe da parte alla nascita. Chi si curerebbe con cellule in cui è forse già presente la malattia? Certo, non si escludono possibili futuri utilizzi terapeutici, ma vari studi riportati nel documento, che invitiamo ad approfondire, mostrano dati sulle scarse probabilità di utilizzo. Esistono anche motivi medico-legali (se il sangue va disperso alla nascita perché l’ostetrica deve operare d’urgenza sulla donna, come ne risponde?) che la letteratura riportata solleva.
Il documento riporta anche i pareri di varie società scientifiche internazionali, le quali sollevano similari obiezioni sulla conservazione “per se stessi” (autologa) del sangue preso dal cordone ombelicale, mentre sono tese a favorire – e “Scienza & Vita” con loro – la sua donazione al pubblico, come del resto da decenni fanno i donatori di sangue comune. Varie associazioni italiane sostengono da tempo la vertenza cui “Scienza & Vita” ha dato voce, come l’Associazione Italiana Donatrici di Cordone Ombelicale, sul cui sito (www.adisco.it) leggiamo ad esempio: “…l’aspetto principale della questione è l’effetto che il bancaggio per uso autologo, rispetto alla donazione altruistica, potrà avere sulla popolazione in generale. È evidente infatti che, su base economica, verrebbe introdotta una variabile di discriminazione sociale particolarmente sgradevole, essendo la conservazione privata del sangue cordonale appannaggio solo delle famiglie che possono permetterselo”.
Il documento dunque ribadisce quattro punti fondamentali:
1. Le cellule staminali non-embrionali tra cui quelle prese dal cordone ombelicale (a differenza di quelle ottenute dagli embrioni umani), hanno una forte utilità terapeutica.
2. La raccolta di sangue di cordone deve essere ottimizzata e resa disponibile su tutto il territorio nazionale, fornendo a tutte le donne lo strumento per poter compiere un gesto di utilità sociale che ovviamente potrà essere utile anche al proprio figlio.
3. La donazione eterologa (pubblica) ha un valore solidale che è un segnale forte per l’Italia sempre più immersa in una mentalità di decisioni etiche improntate ad un’autodeterminazione estrema e di conseguenza spesso alla solitudine. Fargli sapere che la propria nascita è coincisa con un gesto di solidarietà è il primo dono che la mamma può fare al proprio figlio.
4. Mentre è ben riconosciuta l’utilità dell’uso “eterologo” del sangue di cordone, cioè donato al pubblico uso; perplessità esistono sull’utilità dell’uso “per sé” (autologo).
Auspichiamo perciò un dialogo pacato e sereno su un tema in cui è imprescindibile partire dalle evidenze scientifiche di cui “Scienza & Vita” qui fornisce una sintesi articolata e fruibile da chiunque.
*Neonatologo, membro del Consiglio Esecutivo di Scienza & Vita
Fondi alle lobby pro aborto e alla ricerca sulle staminali embrionali
L’OBAMA BIOETICO
QUANTA FRETTA MR. PRESIDENT
di Giulia Galeotti
Nei mesi tra l’elezione del 4 novembre 2008 e il giuramento del 20 gennaio 2009, una domanda che ci siamo più volte posti è stata quella di come il nuovo presidente Barack Obama si sarebbe posto nei confronti del suo predecessore. Obama avrebbe mantenuto fede all’impegno, ribadito di conti-nuo nei lunghissimi mesi della campagna elettorale, di prendere una netta distanza dalla politica di George W. Bush? La risposta non è tardata ad arrivare.
Un primo dato su cui riflettere è che tali questioni, a differenza di altri eclatanti nodi, erano state ge-stite in modo estremamente “abile” ed “accorto” durante la campagna elettorale. Le formule usate dal non ancora 44esimo presidente americano, infatti, lasciavano ampio spazio a varie e contrastanti interpretazioni. In molti comunque speravano che, alla luce della crisi internazionale e dei tanti ap-pelli del presidente alla collaborazione e all’unità tra gli americani, Obama non avrebbe preso una chiara posizione in tema, rimandando le decisioni a tempi futuri. Invece, non è stato affatto così. Dopo il trionfale ingresso alla Casa Bianca infatti, il nuovo presidente è uscito subito dal limbo sia in tema di aborto che di ricerca sulle staminali embrionali
In materia di aborto, dopo la liberalizzazione del 1973 (con la celeberrima sentenza Roe v. Wade) un netto cambiamento si era avuto nel 1984, quando l’allora presidente Ronald Reagan annunciò che gli Stati Uniti non avrebbero più finanziato Ong che avessero procurato, consigliato o anche so-lo fatto azione di lobby a favore dell’aborto. Questo divieto (chiamato, dai favorevoli, la regola di Mexico City, e dai detrattori la “gag rule”, la legge bavaglio) è rimasto in vigore fino all’elezione di Bill Clinton, per essere poi prontamente reinserito da George W. Bush nel 2001, nel suo primo giorno di lavoro. Barack Obama di giorni ne ha attesi tre, firmando l’eliminazione del divieto alle sette di sera di venerdì 23 gennaio (nel vano tentativo di far passare la decisione in sordina).
Il percorso della ricerca sulle cellule staminali è invece ben più recente. Se la loro scoperta risale al 1963 (furono due ricercatori canadesi, Ernest McCulloch e James Till, a individuarne l’esistenza nel sangue), fu però solo nel 1998 che James Thompson, dell’università del Wisconsin, isolò per la prima volta cellule staminali embrionali. Quella che venne salutata con enorme enfasi dalla comuni-tà scientifica come una delle più gloriose scoperte della contemporaneità, capace di eliminare malat-tie e sofferenze a costo zero, venne spazzata via dal presidente Bush, che nel 2001 tagliò “brutal-mente” i fondi federali a queste ricerche. Agli occhi dei suoi tanti detrattori, la colpa di Bush risie-deva nel fatto che la sua scelta non era stata dovuta a questioni economiche, ma era stata presa in nome di “anacronistiche, illiberali ed oscure preoccupazioni morali”. Da qui, la scelta di tanti scien-ziati americani, di emigrare (proseguendo all’estero il loro lavoro) o di agire in patria nell’ombra, tra mille difficoltà. Ora, però, grazie al nuovo presidente Obama – e al fiume di denaro che egli ha ripristinato – è arrivato, per loro, il momento della riscossa.
Come prevedibile, i vescovi cattolici americani sono decisamente interdetti, e con loro tantissimi fedeli, che pure hanno votato in maggioranza per Obama (ribaltando i dati del 2004, quando la maggioranza del voto cattolico andò al repubblicano Bush, a scapito del democratico John Kerry). Se molte sono state le cause di questo mutamento (probabilmente un ruolo non decisivo lo ha svolto la novità, pur interessante nel panorama politico americano, della candidatura di un vice presidente cattolico), sarà però ben interessante vedere a questo punto come tali elettori reagiranno alle posi-zioni assunte dal nuovo presidente.
Una nuova rubrica per essere tutti più avvertiti
VIAGGIO NELLA FANTASCIENZA
CHE INTERROGA LA BIOETICA
“Bioetica & fantascienza: l’utopia al potere”. Parte con la newsletter di febbraio una nuova rubrica affidata alle sapienti cure di Umberto Folena, un’autorità nel settore, oltre che un valente giornalista la cui firma è nota non solo agli addetti ai lavori. Siamo felici di offrire un ulteriore strumento informativo e culturale che può essere di ausilio a quanti, all’interno dell’Associazione Scienza & Vita hanno la possibilità di incontrare soprattutto i giovani e con loro avviare un’attività di formazione.
Già nel 1932 prevedeva la produzione (di serie) degli esseri umani
IL “MONDO NUOVO” DI HUXLEY
PROFEZIA AUTOAVVERANTESI
di Umberto Folena
Per alcuni maître à penser nostrani è un autentico paradiso, l’agognata liberazione dalle famiglie e dalle chiese e dalle morali. Il sesso liberato dalle pastoie dei sentimenti; la procreazione liberata dall’amore, dal sesso e dall’utero femminile; l’educazione dei figli affidata allo Stato che provvede a tirarli su liberati dai conflitti e dalle insufficienze della famiglia. Un’autentica meraviglia. Per Aldous Huxley, invece, è il più angoscioso degli incubi. Non ci deve essere alcun dubbio in proposito fin dalla prima frase, di appena nove parole, opprimente anche nell’ironia conclusiva: «Un edificio grigio e pesante di soli trentaquattro piani».
Il Direttore conduce gli studenti in visita al Centro e non riesce a nascondere l’entusiasmo: «Novantasei gemelli identici che lavorano a novantasei macchine identiche! Adesso si sa veramente dove si va. Per la prima volta nella storia». Storia… «La storia è una sciocchezza», ripete il Direttore. E spiega, non senza raccapriccio, i tempi oscuri in cui il bambino veniva travasato – anzi no, partorito è il termine esatto – dalla madre, già perché c’erano un padre e una madre e il bambino viveva con loro. Gli studenti lo seguono increduli e con raccapriccio.
Noi sorridiamo. Che razza di distopia sarà mai questa, una miscela di iperliberismo inserito in una società marxista, però con delle classi rigide, il tutto condito di radicalismo, con un triplice motto, quello dello Stato Mondiale: «Comunità, Identità, Stabilità»? Una società liberata sessualmente, dove la droga è un fattore di controllo sociale? E poi, tutto questo nel 1932? Addirittura? Il fatto è che Aldous Huxley non era un semplice visionario che le sparava grosse. Era colto e apparteneva a una famiglia importante. Il nonno, Thomas Huxley, biologo e filosofo, era soprannominato «il mastino di Darwin», per la tenacia con cui ne sosteneva le teorie. Il padre, Leonard, era uno scrittore. Il fratello, Julian, era biologo, genetista e scrittore, è ricordato per aver rifondato la teoria genetista all’interno della teoria darwiniana della selezione naturale e vinse il Nobel. Possiamo affermare serenamente che Aldous sapeva quello che scriveva e non tirava a casaccio. Temeva una deriva dell’umanità verso un razionalismo produttivistico. E metteva la sua visione per iscritto in una prosa algida, logica, a cui – non senza ragione – è stata rimproverata l’assenza di calore, di vibrazioni, di cuore.
Nel 1958 Huxley pubblica Ritorno al mondo nuovo, un breve saggio in cui rivisita i temi del Mondo nuovo concludendo che le sue profezie negative si stanno compiendo ben prima del previsto. Difficile dargli torto. C’è chi ci prova, eccome se ci prova. La generazione intesa come produzione (di embrioni, feti, bambini…), separata dall’amore e dal sesso, con semi e uteri sempre più anonimi, proprio come nelle catene di montaggio; e il condizionamento affidato al mercato e ai mass media. Ci siamo quasi.