Fra magistratura “creativa” e politica decisa a intervenire
PERCHE’ UNA LEGGE SUL FINE VITA
NON SI PUO’ PIU’ ESCLUDERE
Il caso di Eluana Englaro ha letteralmente stravolto tutta la scena relativa al dibattito sul fine vita. L’irrompere della magistratura “creativa” ha spinto anche il governo, la maggioranza e le opposizioni a guardare con un occhio nuovo e diverso ai temi sollevati dai singoli casi che di volta in volta guadagnano i riflettori dei media e finiscono anche con il monopolizzare per settimane il dibattito pubblico.
La triste vicenda di Eluana, con l’autorizzazione della magistratura a sospendere l’alimentazione e l’idratazione, ci ha spinto a lanciare un “appello” che ha fatto il giro del mondo, registrando un ampio consenso fra credenti e non credenti, mobilitando associazioni e movimenti, acquisendo l’adesione di tanti parlamentari di ogni parte politica, costruendo un consenso trasversale contro quella che noi abbiamo definito, con severità, una vera e propria “esecuzione capitale”. Sta di fatto che ancora una volta, come Associazione, siamo stati protagonisti del dibattito pubblico, in un momento delicatissimo che registra il combinato composto di due sentenze, quella della Cassazione e della Corte di Appello di Milano, che configurano uno scenario tutto nuovo, con forti rischi di derive eutanasiche.
Tutto questo deve spingerci, con altri settori più avvertiti dell’opinione pubblica, a prendere atto di una situazione gravemente deteriorata che, forse, richiederà un intervento legislativo. Proprio noi di Scienza & Vita abbiamo dato voce alla preoccupazione di tanti medici che vedono nel testamento biologico il rischio di una deriva eutanasica, sottolineano come questa materia debba essere riportata all’interno di un’adeguata relazione medico-paziente e denunciano la grave carenza di strutture assistenziali. Ce lo hanno detto in tanti, e non possiamo non farci carico di questa preoccupazione che sinceramente condividiamo. Avvertiamo, però, con angoscia, un rischio più grande: lasciare, nelle mani di pochi, la decisione sulle vite di tante persone inermi e indifese.
Se il mondo politico nel suo complesso vorrà legiferare sulla materia del fine vita, noi saremo in prima linea per sostenere il ruolo della società civile che vuole tutelare la vita, come bene umano indisponibile. Certo, riaffermeremo con forza – anche in vista dell’elaborazione di una legge sul fine vita – , che per noi ci sono due limiti invalicabili: né accanimento terapeutico, né eutanasia. Così come riteniamo essenziale riportare le questioni del fine vita (comprese le forme di espressione di volontà preventive) all’interno dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente. Non asseconderemo, pertanto, quella cultura dell’autodeterminazione assoluta che di fatto mira ad estromettere il medico e la famiglia dall’orizzonte del fine vita, e a rendere la vita un bene disponibile.
Sappiamo che queste nostre parole rappresenteranno una novità anche per tanti amici di Scienza & Vita. Ma siamo consapevoli che ci troviamo in uno stato di necessità e chiediamo a tutti, a cominciare dal consiglio esecutivo, come ai soci fondatori e agli amici delle cento associazioni locali, di non lasciarci soli in questa difficile stagione che si sta aprendo. Scienza & Vita dovrà riunire i propri organi, condividere e affinare la linea da seguire. Realismo vuole che, se su questioni così delicate si muovono la magistratura e la politica, il sociale non si attardi. La sfida lanciata dai giudici “creativi” al nostro ordinamento richiede un’assunzione di responsabilità, di cui ciascuno si farà carico. Alla politica tocca legiferare nel rispetto della vita. A tutti noi il compito di vigilare senza disattenzioni, ma anche di formulare proposte in grado di alimentare un dibattito pubblico che si annuncia infuocato. Non mancheranno la nostra pacatezza e la nostra fermezza, la nostra capacità di dialogo e di interpretazione del senso comune.
La Presidenza di “Scienza & Vita”
PROFILI MORALI
C’è stato un tempo in cui esistevamo, ma ancora non lo sapevamo
MA LA COSCIENZA DI SE’
NON COSTITUISCE L’IDENTITA’ UMANA
di Adriano Pessina *
Eluana Englaro non è una malata terminale e la sua concreta esistenza personale è garantita dal fatto che qualcuno si prende cura di lei, perché lei non è più in grado di farlo autonomamente. Il fatto che Eluana non riesca a stabilire relazioni ambientali significative, ed empiricamente rilevabili, non significa che sia priva di coscienza, o che sia ridotta ad una vita “puramente vegetale”. La storia personale di Eluana, così come la storia personale di ognuno di noi, è sempre scritta anche da altri, perché la coscienza che ognuno di noi ha di se stesso è limitata nel tempo, si alterna tra il sonno e la veglia, subisce gli impedimenti dell’età e della malattia. La coscienza di sé non costituisce l’identità umana, ma la condizione per cui qualcuno è in grado di riconoscersi, apprezzarsi e comprendere, per analogia, la peculiarità di ogni essere umano. La nostra identità precede la coscienza che ne abbiamo e continua al di là delle coscienza che ne avremo.
C’è stato un periodo della vita in cui esistevamo, ma ancora non lo sapevamo; ogni giorno, addormentandoci, sperimentiamo il fatto di cessare, in modo più o meno articolato, di avere coscienza di esistere, tuttavia noi siamo. Eluana, probabilmente (della probabilità del sapere scientifico, e della probabilità dell’esperienza di sé) non ha una chiara coscienza di sé e dell’ambiente che la circonda, ma non ha cessato di essere, in modo unico e irripetibile, la stessa Eluana che amava la libertà e che non avrebbe mai voluto vivere senza la coscienza di sé. In questo Eluana è come ognuno di noi: chi ha l’esperienza della coscienza di sé teme di perderla e non vorrebbe mai vivere senza sapere di vivere. Dimentichiamo presto, infatti, che siamo nati senza sapere di nascere e che spesso viviamo senza sapere di vivere: dimentichiamo presto, infatti, il peso che la coscienza di sé può avere di fronte ai drammi della vita, all’esperienza della solitudine, alla paura della morte, alla noia del vivere senza senso. Ed è questa coscienza inquieta e non rappacificata con la vita personale nelle sue diverse sfumature che sembra governare, con implacabile determinazione, il lungo processo, esistenziale, culturale, filosofico, giuridico, politico, che vorrebbe sottrarre Eluana alle relazioni di custodia e di cura che ne stanno scrivendo la silenziosa, ma significativa biografia, per consegnarla alla morte più innaturale che ci sia, quella che nasce dall’abbandono esistenziale e che trasforma la medicina che cura e custodisce nella medicina che, con l’aiuto dei farmaci, occulta i sintomi dell’orrore e dell’inumanità della morte per disidratazione e per consunzione.
Togliere un sondino non è molto difficile: non ci vuole una laurea per far morire qualcuno. Poi, come scrivono i giudici opportunamente istruiti in proposito, ci vuole un medico perché, mentre Eluana muore, non siano visibili segni di dolore e sofferenza, perché la nostra coscienza vigile non sia colta dall’orrore di un atto che nulla ha a che fare con la voglia di libertà, di vita, di indipendenza che Eluana manifestava quando poteva farlo con le sue parole: parole che in questi anni hanno pronunciato per lei coloro che l’hanno accudita, amata, rispettata, che hanno scrutato il suo viso in attesa di un piccolo segno di condivisione degli affetti e delle cure che la avvolgevano in questa silenziosa storia.
Affermare la non disponibilità della vita umana rispetto alla volontà umana non significa affermare un principio vuoto e generale, ma rendere esplicita, sotto la forma del divieto, la coscienza dell’unicità della vita personale dell’uomo. Non dobbiamo disporre della nostra vita e di quella altrui perché la vita non è una proprietà, un’acquisizione, un dono, una conquista, qualcosa che si aggiunge o toglie a un soggetto: ciò che chiamiamo vita umana siamo noi, noi siamo la nostra vita e la libertà di scegliere stili di vita presuppone come minimo il riconoscimento del valore della vita umana. Ed è per questo che non si tratta di difendere astrattamente la vita, ma di difendere concretamente gli uomini che vivono.
Chi è cresciuto dentro il modello dell’uomo macchina usa spesso in modo riduttivo e dispregiativo il termine “vita vegetativa”, e anche in questa drammatica situazione dimentica che la vita umana è sempre e solo vita personale e che è proprio dal regno vegetale che l’uomo ha ricavato metafore per esprimere la dimensione personale della vita, come gli anni verdi della gioventù, lo sbocciare dell’amore, il radicarsi dell’amicizia, il fiorire dell’esistenza.
Il dovere di prendersi cura di chi non è più in grado di farlo non può conoscere eccezioni o limitazioni, ma soltanto equilibrate modulazioni. Non è necessario discutere del primato dell’autonomia, della libertà di scelta, della possibilità giuridica di rifiutare i trattamenti, per difendere il principio per cui la vita non è un bene disponibile: tutte quelle tesi, infatti, lo presuppongono e lo postulano. Se non ci muoviamo soltanto sul piano dei fatti, dove è facile constatare che gli uomini uccidono e si uccidono, ma su quello dei valori e dei diritti, allora dobbiamo riconoscere che non c’è diritto, valore, bene morale, che non presupponga il rispetto, la tutela, il riconoscimento incondizionato dell’uomo che vive.
Eluana è stata trasformata in un caso, in un modello sul quale sperimentare teorie antropologiche, ricerche neurologiche, equilibri giuridici, consensi politici: discutiamo pure di questo caso, riflettiamo pure su questo modello, ma lasciamo vivere la concreta Eluana, lo dobbiamo a lei e alla coscienza che abbiamo della sua vita personale.
* Ordinario di Filosofia morale, Università Cattolica del Sacro Cuore, membro del Consiglio Esecutivo di Scienza & Vita
PROFILI GIURIDICI
Cassazione, tutti i limiti di una sentenza “creativa”
NO, IL DIRITTO ALLA SALUTE
NON SI CONVERTE NEL DIRITTO A MORIRE
di Marco Olivetti *
1. La sentenza della Corte di Cassazione n. 21748 del 2007 – sulla base della quale la Corte di appello di Milano ha recentemente ordinato l’interruzione del nutrimento e dell’idratazione di Eluana Englaro, la paziente lombarda che si trova in stato vegetativo permanente dal 1992 – è una decisione importante, sorretta da una articolata motivazione. Con essa vengono stabiliti alcuni principi di diritto fortemente innovativi, suscettibili di mutare in profondità le regole sul trattamento dei pazienti in stato vegetativo permanente e di produrre un impatto più generale su altre situazioni di fine vita.
2. La decisione della Cassazione si basa su tre principali passaggi argomentativi, da cui vanno desunti due principi di diritto.
In primo luogo, secondo la Cassazione, il principio del consenso informato come condizione ordinariamente legittimante l’intervento curativo del medico è basato, nell’ordinamento italiano, sul combinato disposto degli articoli 2 (diritti inviolabili dell’uomo), 13 (tutela della libertà personale) e 32 (diritto alla salute e liceità dei trattamenti sanitari obbligatori solo per disposizione di legge). In base a tale principio – che trova, secondo la Cassazione, conferma in varie norme di rango legislativo – solo sulla base del consenso dell’interessato possono essere iniziate e proseguite cure a suo vantaggio. Il consenso informato è espressione del principio di autodeterminazione nelle cure, che non incontra un limite nemmeno nella eventualità che dal rifiuto di determinate cure o dalla interruzione delle stesse derivi la morte della persona.
In secondo luogo, secondo la Cassazione, nei casi in cui un paziente non sia capace di intendere e di volere, il consenso alla prosecuzione delle cure – dopo una eventuale fase emergenziale iniziale – deve essere prestato dal rappresentante legale (tutore e curatore: nella fattispecie il padre della sig.na Englaro). Il tutore, infatti, deve farsi carico non solo degli interessi patrimoniali, ma anche di quelli non patrimoniali del paziente incapace. Secondo la Cassazione, il tutore deve prendere decisioni sulla salute del paziente “a garanzia del soggetto incapace, e quindi, rivolte, oggettivamente, a preservarne la vita”. Al tempo stesso, però, il tutore può assumere una posizione diversa, tenuto conto della presunta volontà del paziente, del suo stile di vita e della sua concezione del mondo. Le scelte del tutore devono ove possibile riprodurre la “presunta volontà del paziente”. Nel caso di pazienti in stato vegetativo permanente, occorrerà tenere conto delle concezioni del mondo degli interessati: pur essendo “vita umana” la persona che si trova in tale stato, secondo la Cassazione la visione del mondo dell’interessato può condurlo a ritenere che tale vita non sia degna di essere vissuta.
Infine, sempre secondo la Cassazione, l’idratazione e l’alimentazione artificiali – che nel caso di specie tengono in vita Eluana Englaro – vanno ritenuti senza dubbio un trattamento sanitario, pur essendo “un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale” e non dando quindi luogo ad un accanimento terapeutico.
La Cassazione conclude pertanto che il giudice di rinvio (nel caso: la Corte di appello di Milano), può ordinare il distacco del sondino che provvede all’alimentazione, in presenza della relativa istanza, a due condizioni: a) che lo stato vegetativo sia irreversibile; b) che l’istanza rifletta realmente la volontà del paziente, “tratta dalle sue precedenti dichiarazioni, ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti”.
3. La decisione è criticabile per molti aspetti. In primo luogo essa sacralizza ed estremizza il principio del consenso informato, che pure fa parte del nostro ordinamento, ma non è né un principio assoluto e privo di limiti, né può essere elevato a supernorma. In particolare, il suo fondamento costituzionale è molto più problematico di quanto la Corte di Cassazione (e, purtroppo, molta dottrina), vuole far credere. In particolare, si cade in grave contraddizione quando si ritiene che il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. possa convertirsi nel suo contrario, cioè nel diritto a morire: nell’attribuzione del diritto alla salute è infatti inclusa una irriducibile componente finalistica, la quale esclude che tale diritto si trasformi in una mera procedura di autodeterminazione (o in un diritto di libertà del tipo di quelli garantiti dagli articoli 13 e seguenti della Costituzione). Ma questi profili di fondo meritano una ulteriore discussione per definirne i controlli, anche se la ricognizione di tale principio operata dalla Cassazione non può essere ritenuta infondata.
4. Molto più controversi sono gli altri passaggi. In primo luogo è problematica l’estensione del potere del tutore alla decisione di porre fine alla vita dell’incapace di cui ha tutela: qui il rovesciamento della finalità storica dell’istituto della tutela è evidente e d’altro canto si realizza il paradossale esito non solo del sacrificio del diritto alla vita in nome del principio di autodeterminazione individuale, ma di una vera e propria eterodeterminazione: la decisione sulla fine della vita della sig.na Englaro verrebbe presa non da lei, ma da altri. In secondo luogo, la pretesa di definire la presunta volontà del paziente in assenza di qualsivoglia dichiarazione formale, effettuata quantomeno in forma scritta, rappresenta uno stravolgimento radicale dei principi relativi alla espressione della volontà individuale in relazione ai beni della vita (anche di beni molto meno importanti del bene vita, come le norme del codice civile in materia di successione testamentaria chiaramente dimostrano).
5. Ancora più discutibile è il cortocircuito cui giunge la Corte circa il rapporto fra stato vegetativo permanente e idratazione del paziente che si trova in tale stato. In primo luogo la Corte afferma al tempo stesso che lo stato vegetativo permanente è a tutti gli effetti una forma di vita, e che è obbligo del Servizio Sanitario Nazionale predisporre tutte le cautele necessarie a tutelare le persone che si trovino in tale stato. Al tempo stesso, però, tale stato può essere ritenuto non degno di essere vissuto, in base alle concezioni del mondo di una o più persone, che “uno Stato organizzato… sul pluralismo dei valori…non può che rispettare”. Qui si vede chiaramente la portata eversiva – e a nostro avviso del tutto estranea al sistema dei valori della pur vigente Costituzione italiana del 1947 – della nozione di pluralismo dei valori. Tale nozione diventa infatti il cavallo di Troia per affermare il principio della vita come valida solo in presenza di una sua “qualità” e non in conseguenza del fatto che l’essere davanti a cui ci si trova è un essere umano. Che la Costituzione italiana accolga siffatta concezione del pluralismo dei valori è fortemente dubbio: questa è piuttosto la tesi sostenuta da correnti dottrinali radicaleggianti, che mirano sostanzialmente a riscrivere per via interpretativa la prima parte della Costituzione del 1947 e la visione “oggettivamente” (e non”soggettivamente”) personalista in essa accolta (sulla contrapposizione fra “qualità della vita” e “sacralità della vita” come principi fondanti per la bioetica si v. per tutti A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, II ed., Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 74).
D’altro lato, la qualificazione come “cure” del nutrimento e dell’idratazione appare fortemente dubbia e tutt’altro che incontroversa sia nella letteratura scientifica, sia nella giurisprudenza (si v. da ultimo i rilievi di G. Gigli, L’abile colpo di mano di un gruppetto di pressione, in Avvenire, 29 luglio 2008, p. 2).
In fondo, la contraddizione più grave della sentenza n. 21748 del 1997 sta proprio nella formulazione dei principi di diritto con cui essa si conclude: l’interruzione della nutrizione può essere autorizzata solo qualora lo stato vegetativo permanente sia irreversibile (il che tra l’altro è scientificamente difficile da provare); al tempo stesso ciò può avvenire solo qualora la volontà del paziente sia presuntivamente in tal senso. Ma se il criterio decisivo è il secondo (la presunta volontà del paziente), il primo (l’irreversibilità della condizione vegetativa) dovrebbe essere irrilevante (e dovrebbe bastare il principio di autodeterminazione), così come dovrebbe essere irrilevante il secondo se il primo è il criterio fondante. In altre parole: o lo stato vegetativo permanente è vita – come pure dice la Cassazione – e allora non potranno essere interrotte quelle forme di sostegno (fra l’altro distinte dalle cure) che il paziente non è in grado espressamente di rifiutare. Oppure esso non è vita: e allora solo una volontà espressa del paziente potrà giustificare la prosecuzione della nutrizione, che oltretutto dovrebbe essere posta economicamente a carico del paziente stesso. Ma se non si ha il coraggio intellettuale di sostenere questa seconda posizione (la quale, seppur errata ed inumana, sarebbe almeno cinicamente coerente fino in fondo), non è logicamente sostenibile fermarsi a metà e dire che una certa condizione (in questo caso lo stato vegetativo permanente) è vita in base al principio “così è se vi pare”, che almeno per ora non fa ancora parte del diritto costituzionale italiano (e neppure di quello legislativo).
6. Al di là del merito delle decisioni in essa contenute, la sentenza n. 21478 si caratterizza come una sentenza “creativa”, vale a dire come un atto formalmente giurisdizionale, ma materialmente legislativo: essa non applica diritto preesistente, ma crea nuovo diritto. La creazione di nuovo diritto sta, essenzialmente, in ciò: la fattispecie della interruzione della nutrizione di un soggetto in stato vegetativo permanente, il quale non l’abbia espressamente richiesta, concreta il reato di omicidio (ove la richiesta vi fosse stata, di omicidio del consenziente). La Cassazione modifica con la sua decisione una norma di diritto penale, ovvero compie una scelta radicalmente riservata al legislatore. E lo fa non escludendo la colpevolezza in concreto di un soggetto, come senza dubbio può fare, ma qualificando come lecito ex ante tale comportamento. Per quanto la nozione di “sentenza creativa” sia concettualmente problematica e ancor più difficile sia delinearne confini definiti, la sentenza n. 21748 potrebbe essere assunta come caso paradigmatico nei manuali di diritto dei prossimi anni. Ne consegue una lesione dell’articolo 70 della Costituzione – che riserva alle due Camere, collettivamente, l’esercizio della funzione legislativa, nel quale è inclusa anche la facoltà di non esercitarla, mantenendo immutata la situazione normativa preesistente – ed una radicale alterazione della logica del nostro sistema costituzionale (nella Costituzione dei diritti come nella Costituzione dei poteri).
* Ordinario di Diritto costtuzionale nella Facoltà di Giuriprudenza dell’Università di Foggia, membro del Comitato Esecutivo di Scienza & Vita
PROFILI TEOLOGICI
In linea di principio non c’è preclusione per una legge sul fine vita, ma…
L’INTANGIBILITA’ DELLA VITA
PREVALE SULL’AUTODETERMINAZIONE
di padre Maurizio P. Faggioni, ofm *
Non solo il nostro tempo ha dovuto confrontarsi con il dramma esistenziale e morale di un malato che chiede al suo medico, in nome del patto di alleanza fra loro e dell’umana pietà, di dargli la morte. Il Giuramento di Ippocrate, evocando con sintesi potente questa tragica situazione, fa promettere al medico: “Non darò mai a nessuno un farmaco mortale, anche se ne sarò richiesto”.
L’intangibilità della vita umana innocente è un principio morale intuitivo e condiviso che si trova a fondamento del convivere civile. La vita umana è un bene prezioso: ciascuna vita, la mia come quella dell’altro, è un bene prezioso e merita di essere rispettata, tutelata, curata. La crescita del rispetto per la vita umana è un indice della crescita civile di un popolo e questo rispetto e cura diventano tanto più significativi quanto si esercitano verso le vite deboli, indifese, declinanti.
In linea di principio, non si vedono preclusioni assolute a fare leggi sulla fine della vita, compresa la disciplina delle dichiarazioni anticipate di trattamento: una legge potrebbe meglio tematizzare e regolare i comportamenti corretti del medico verso un malato, indicare la soglia che separa un auspicabile impegno terapeutico e l’inutile insistenza in presidi inefficaci e onerosi, garantire in modo sempre più chiaro la centralità della persona malata, della sua volontà, dei suoi desideri e della sua percezione della propria situazione. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, parlando dei mezzi terapeutici e della eventuale rinuncia a quelli inadeguati, afferma che tali “decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente” (CCC 2278) .
Di fatto, ascoltando il dibattito italiano, si vede che coloro che con più determinazione chiedono una legge sulla fine della vita e, in particolare, sul cosiddetto testamento biologico, non chiedono una applicazione in un contesto medico e sociale nuovo dei principi fondamentali del nostro convivere civile, ma l’introduzione di un principio etico e giuridico nuovo, quello della disponibilità della vita. Se finora si è insistito sul diritto alla vita, ora si vuole introdurre il diritto alla morte.
Esiste un accordo pressoché generale che la vita è un bene, ma esiste anche un accordo pressoché generale che affermare il bene della vita non significa che sia ragionevole e, quindi, obbligatorio usare qualunque mezzo per conservarla in qualunque condizione. Pur rallegrandoci tutti dei progressi della medicina nella conservazione e cura della nostra salute, sappiamo per esperienza che una persona saggia arriva al punto in cui capisce che bisogna arrendersi di fronte alla malattia e accettare il limiti che anche la medicina, purtroppo, ha. Insomma, è ragionevole per un malato chiedere la non effettuazione o la sospensione di interventi terapeutici inefficaci o addirittura gravidi di effetti negavi su di lui ed è doveroso per il medico accondiscendere a questa richiesta, anzi un buon medico dovrebbe – proprio in virtù del rapporto fiduciario con il paziente – evitare di proporre o iniziare terapie che prevede possano portare il malato in un vicolo cieco.
Il rispetto per la persona, fondamento della vita civile, proibisce sia di sopprimerne la vita, sia di privarla della dignità della morte: né accanimento, né eutanasia. Vediamo, però, che chi reclama a gran voce leggi nuove sul fine vita non si muove fra questi due confini ideali, ma vuole porre un principio che li scavalca entrambi: una persona ha diritto di decidere se e quando darsi la morte e la società ha il dovere di aiutarla ad attuare tale decisione. Ovviamente, si dirà che questo diritto alla morte sarà esercitato solo in certi contesti accertati secondo parametri severissimi, che si cercherà di aggiornare periodicamente le dichiarazioni anticipate per assicurarne la corrispondenza al sentire cangiante della persona, che, comunque, i medici potranno fare l’obiezione di coscienza. Resta, però, il fatto che – richiamandosi pretestuosamente al diritto – si introduce un principio che non era nell’orizzonte etico della nostra cultura etica e giuridica: esiste per una persona il diritto a darsi la morte ed è dovere speculare del medico mettere in atto una decisione in questo senso.
Finora abbiamo ritenuto che dare la morte ad un innocente non fosse un atto buono e né fosse socialmente accettabile. Ora si dice che provocare la morte attraverso la sospensione dell’alimentazione e della idratazione è lecito e dovrebbe essere garantito per legge. Esiste una differenza fondamentale tra decidere di non contrastare più una malattia, permettendo volontariamente il subentrare della morte, e causare o affrettare la morte, somministrando una sostanza letale o privando la persona di sostegni vitali. Strana alleanza quella che prevede la distruzione dell’alleato.
Ci sono, anche tra i cattolici, quanti giustificano un testamento biologico perché queste dichiarazioni anticipate di trattamento – dicono – sarebbero come un prolungarsi del dialogo fra paziente e malato quando questi non può più intervenire nelle decisioni che lo riguardano e offrono a coloro che devono prendere le decisioni (tutori, amministratori di sostegno, congiunti …) indicazioni orientative che li liberano da dilemmi angosciosi. Questi cattolici aggiungono, inoltre, che non è certo obbligatorio che un testamento biologico contenga clausole di tipo eutanasico, come quella della sospensione dell’alimentazione e idratazione in pazienti irrecuperabili. Questo è vero teoricamente, ma i modelli di testamenti biologici che circolano ormai da anni in Italia contengono immancabilmente una clausola. Non dimentichiamo che si invoca il testamento biologico prendendo le mosse dalla situazione di Eluana Englaro che non viene tenuta in vita né da macchine, né da una assistenza sofisticata: è giusto rispettare la sua volontà – ammesso che fosse davvero questa – perché non ha senso continuare a permettere che viva un essere umano in una condizione così deficitaria e, pertanto, provocarne la morte in modo indolore è un atto civile e buono. A differenza di Piergiorgio Welby, per Eluana non ci sono né tubi da disconnettere né spine da staccare, eppure queste due storie vengono sempre accomunate: indipendentemente dalla patologia e dalle cure, indipendentemente dalla sofferenza della persona e dalla oggettiva onerosità di un’assistenza, ciascuno ha diritto a decidere la propria morte e il buon medico a procurarla.
I “soliti” cattolici dicono che non bisogna preoccuparsi perché le dichiarazioni anticipate permetteranno diverse scelte, anche in merito alla sospensione di alimentazione e idratazione, e che ciascuno si regolerà come crede. Affermare il valore intangibile di ogni vita umana non è, però, questione di fede o di ideologia, come se fosse il problema del rispetto di usi e costumi tipici di una minoranza etnica. Nel pluralismo babelico dei valori e delle persuasioni, il nucleo irrinunciabile e condiviso del convivere civile è il rispetto della persona ed è contraddittorio che, in nome della libertà, la società permetta la distruzione dei soggetti liberi.
Si sente sempre parlare di razionalità e di laicità in questo contesto. Ma quale comportamento è da ritenersi ragionevole per una ragione laica e quale, di contro, irragionevole? Se in certe situazioni è ragionevole darsi la morte, allora chi non lo fa dovrà essere giudicato irragionevole. Suppongo che si daranno “indicazioni” e “linee-guida” per i trattamenti scientificamente più ragionevoli dei malati terminali o dei malati – come Eluana – senza speranza di guarigione, così come ci sono “indicazioni” per l’aborto in certe situazioni difficili della donna o del bambino. Suppongo che, come oggi si ritiene ragionevole abortire per una donna che ha scoperto di avere un feto Down, così si riterrà ragionevole o – come si dice – “nel suo miglior interesse” non impedire la morte di un neonato Down se, per esempio, avesse bisogno di rianimazione neonatale. Anche in questo caso genitori e medici saranno tutti legalmente “puliti”: nessuno farà eutanasia attiva, ma resta il fatto che la morte del bimbo Down sarà direttamente voluta e ottenuta attraverso l’omissione di quelle manovre rianimatorie e terapie intensive che gli sarebbero state praticate se, invece di essere Down, fosse stato normale. Non parliamo degli aborti tardivi perché – si sa – la 194 non si tocca.
Ci sono vite – si dice – che è meglio che non siano più, meglio per loro, meglio per noi. Secondo me ci saranno sempre e solo vite umane, umane e basta, vite degne di essere accolte, amate e custodite.
* Moralista, Ordinario di Bioetica alla Accademia Alfonsiana, Roma.
Conclusa la nostra indagine fra i medici italiani
SONDAGGIO SUL TESTAMENTO BIOLOGICO
AL TRAGUARDO DELLE 100 INTERVISTE
Finalmente al traguardo: con quelle pubblicate oggi, abbiamo raggiunto la quota fatidica di cento interviste ai medici italiani sul tema del testamento biologico. Sarà nostra cura effettuare anche un’analisi qualitativa delle risultanze di questo nostro piccolo “sondaggio” fatto in ogni angolo del Paese. Possiamo comunque rilevare che fra i medici da noi interpellati prevale la preoccupazione di garantire adeguata assistenza ai pazienti nel fine vita, anche attraverso la diffusione sull’intero territorio italiano di strutture attrezzate (hospice) per i malati terminali.
Emerge, inoltre, una sostanziale contrarietà all’introduzione del testamento biologico così come è stato propagandato in questi anni, anche attraverso alcuni progetti di legge, perché si intravedono chiaramente i rischi di deriva eutanasica. Piuttosto si sostiene e rilancia l’assoluta necessità dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente, come strumento essenziale per gestire i problemi complessi e delicati del fine vita.
Paolo Pesce. Medico di Medicina Generale. Lavora all’”ITIS”, Azienda di Servizi alla Persona di Trieste. Frequenta il Corso di Bioetica avanzata.
Cynthia Filippini. Medico-Chirurgo. Specializzata in Ginecologia e Ostetricia. Psicoterapeuta. Medico d’azienda alla Rai-Tv – Roma.
Rosa Maria Gallo. Medico-Chirurgo. Specializzata in Ginecologia e Ostetricia. Lavora a Pisticci, in provincia di Matera e frequenta il Corso avanzato di Bioetica.
Francesco Amaduzzi. Medico-Chirurgo. Specializzato in Cardiologia. Ha svolto per più di dieci anni, nell’Ospedale di Fano (Ancona) attività presso la Terapia Intensiva di Cardiologia.
Giampiero Gasparrini. Medico-Chirurgo. Svolge attività di medico di base di Medicina generale a Pesaro.
Manfuso Catello. Medico-Chirurgo. Specializzato in Medicina Omeopatica. Svolge la sua attività a Pesaro.
Matteo Dell’Olio. Medico-Chirurgo. Specializzato in Ematologia. Opera presso l’Ospedale “Divina Provvidenza” di San Giovanni Rotondo.
Giovanna Dorani. Medico-Chirurgo. Opera a Pesaro, prestando assistenza domiciliare oncologica. Svolge attività presso il reparto di Oncologia dell’Ospedale.
Claudio Buccelli. Medico-Chirurgo, Specializzato in Cardiologia e in Medicina Legale e delle Assicurazioni, Dal 1990 è Professore Ordinario di Medicina Legale presso la suddetta Facoltà e dal 1994 Primario del Servizio di Medicina Legale della medesima Facoltà.
Daniela Marchetti. Medico-Chirurgo. Specializzata in Medicina Legale. Svolge la sua attività presso l’Ospedale Gemelli di Roma. Professore associato di Medicina Legale presso l’Università Cattolica di Roma.
Maria Rita Cardella. Laureata in Scienze Infermieristiche. Lavora presso il Presidio Ospedaliero dei Bianchi, a Corleone (Palermo). Frequenta il Corso di Alta Specializzazione in Bioetica.
Giovanni Borroni. Medico-Chirurgo, specializzato in Anestesia e Rianimazione. Specializzazione in Tossicodipendenze e “Medicina Estetica”. Aiuto a tempo pieno di Anestesia e Rianimazione presso l’Ospedale di Macerata. Dirigente I livello Servizio Anestesia e Rianimazione di Macerata.
Giuliano Auber. Medico-Chirurgo. Specializzato in Ostetricia e Ginecologia. Ha svolto la sua attività professionale nella Clinica Ostetrica Ginecologica dell’ IRCCS Burlo Garofalo di Trieste fino al 2000. Dal 2002 dirigente medico presso la Direzione Sanitaria del medesimo Istituto.
Leonardo Damiani. Medico-Chirurgo, Specialista in Ostetricia e Ginecologia. Opera all’Ospedale “Di Venere” di Bari.
Paolo Bonino. Laureato in Medicina e Chirurgia, specialista in Geriatria e Gerontologia. Iscritto all’Ordine dei Medici della Valle d’Aosta. Dal 1987 dirigente medico presso la SC di Geriatria dell’Ospedale Regionale “Umberto Parini” di Aosta.
Santino Ciuffolini. Medico-Chirurgo. Specializzato in Gerontologia e Geriatria. Opera come medico di Medicina Generale a Pesaro. Ha curato diverse pubblicazioni in ambito internistico e geriatrico.
Vittorio Pompei. Medico-Chirurgo, specializzato in Ginecologia e Ostetricia. Dal 1982 lavora, dapprima nella Medicina dei servizi poi nella Medicina specialistica ambulatoriale(SUMAI), nei distretti della ASL di Pesaro e provincia come medico specialista ginecologo ambulatoriale.
Emanuela Lulli. Laureata in Medicina e Chirurgia alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del S. Cuore di Roma. Specializzata in Ostetricia e Ginecologia
Graziella Ricci. Medico-Chirurgo. Specializzata in Igiene e Medicina Preventiva. Opera presso l’Azienda per i Sevizi Sanitari n.6 Friuli Occidentale – Distretto Ovest di Sacile (Pordenone).
Luigia Santoro. Medico-Chirurgo. Specializzata in Odontoiatria. Lavora presso i Poliambulatori dell’Azienda USL 16 di Modena
Stefania Di Noia. Medico Chirurgo. Specialista in Igiene e Medicina Preventiva. Ha collaborato con l’Osservatorio Epidemiologico della Regione Puglia, e con il Dipartimento di Prevenzione dell’AUSL Le/2, partecipando a studi epidemiologici ed a studi per la valutazione dell’immunogenicità e della sicurezza di alcuni vaccini.
Veronika Montiel. Medico-Chirurgo. Specialista in Medicina Fisica e Riabilitazione. Oltre a essere docente di Etica medica presso il Centro de Estudios Universitarios Xochicalco (Messico), ricopre la carica di vice-direttrice nella direzione generale dello sviluppo accademico della stessa università.
Giovanni Gambassi. Geriatra e cardiologo presso il Centro di Medicina dell’Invecchiamento del Policlinico Agostino Gemelli di Roma dove è responsabile della Unità di Riabilitazione. Professore Associato di Medicina Interna e Geriatria presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma.