AVVENIRE | 11 settembre 2025

Morte assistita | Suicidi dei malati, i sintomi rimossi

di Matilde Leonardi (Neurologa, membro del Comitato nazionale per la Bioetica, esperto Oms per neurologia e disabilità, board member della European Academy of Neurology)

La neurologa Matilde Leonardi: la volontà di morire di chi soffre di gravi patologie non può essere considerata veramente libera

«La volontà di morire di chi ha deficit cognitivi causati dalla sua malattia neurologica può essere equiparata a quella di una persona sana? Chi soffre di gravi patologie è spesso cognitivamente menomato»

Le persone che si suicidano sono disperate sempre, depresse spesso e cognitivamente menomate talvolta. Se non vale questo per tutti coloro che si suicidano, vale però per tutti i suicidi con diagnosi di malattia neurologica. È un fatto dimostrato scientificamente. Eppure il dibattito italiano tende a semplificare, a ridurre tutto a una questione di libertà individuale, trascurando dimensioni decisive come la disperazione, la clinica della malattia, che se è neurologica ha sempre implicazioni di danno cerebrale, e la fragilità cognitiva.

Immaginiamo una scena. Brad Pitt va su un ponte per suicidarsi gettandosi giù. La folla lo vede e si prodiga per convincerlo a desistere, a restare in vita. Lui non si suicida. Poco dopo, sullo stesso ponte, arriva un uomo in sedia a rotelle, tetraplegico per una grave patologia neurologica, un esito di cerebrolesione da incidente o una sclerosi multipla. Dice di volersi buttare. In nome del rispetto della sua autonomia, la folla non lo ferma, anzi: ritenendo che la sua vita da disabile sia terribile lo asseconda. Ecco il pregiudizio che attraversa la nostra società: la vita malata, fragile, è percepita come meno degna di essere difesa. E si promuove il suicidio assistito come supporto alla dignità individuale. S i parla molto di suicidio in questo periodo in Italia, mai però in relazione alla eziologia di un evento clinico che in psichiatria è considerato una delle priorità delle campagne sulla salute mentale nazionali ed internazionali. Il suicidio ha a che fare con l’individuo, la sua autonomia, le sue malattie e il loro decorso, il suo contesto relazionale, sociale culturale, morale, economico e politico. Quando parliamo di ambiente dobbiamo perciò prendere in considerazione diversi ambiti che possono influenzare il comportamento suicidario. La discussione pubblica sul suicidio trascura spesso il ruolo dei media. Quando i giornali descrivono nei dettagli il metodo usato per togliersi la vita il rischio di imitazione aumenta: è il cosiddetto effetto Werther, dal nome del protagonista de I dolori del giovane Werther di Goethe che si suicidò e fu poi emulato da molti ammiratori del libro. Questo rischio di emulazione è maggiore in soggetti vulnerabili. Al contrario, quando i media raccontano storie di chi ha superato la tentazione suicidaria grazie a supporto, aiuto, reti di sostegno, si attiva l’effetto Papageno, protettivo verso le persone vulnerabili. Infatti la descrizione da parte dei media di meccanismi di reazione ( coping) efficaci può avere un effetto protettivo sulla imitazione del suicidio. Il termine si basa su un personaggio dell’opera Il flauto magico di Mozart: Papageno, temendo la perdita di una persona cara, aveva progettato di suicidarsi finché i suoi amici non lo aiutarono e convinsero a non farlo.

Una analisi del suicidio e sulla volontà di suicidarsi, un atto esclusivamente soggettivo in cui la volontà dell’individuo regna sovrana, deve necessariamente tenere conto oltre che dalle attitudini individuali, culturali e dei media anche di alcuni elementi che nel dibattito attuale sul suicidio medicalmente assistito sembrano essere volutamente ignorati. Questi sono la disperazione, la depressione e la menomazione cognitiva. Mentre la prima connota ed è alla base di tutti i suicidi, la seconda e la terza incidono in maniera differente sulla volontà di suicidarsi, in particolare per le persone con malattie neurologiche.

Suicidio e disperazione. La disperazione è la matrice comune di tutti i suicidi. Non sempre coincide con la depressione: può nascere da traumi, malattie croniche, solitudine, fallimenti affettivi o sociali. Può essere lucida, quando il soggetto mantiene intatte le proprie capacità di giudizio e razionalizza la scelta della morte; oppure offuscata, quando la sofferenza deforma la percezione della realtà. Il disperato è spesso solo, disconnesso dal mondo. Laddove la comunità riesce a offrire sostegno, ascolto e consolazione, la disperazione può trasformarsi in resistenza. Dove invece prevale l’abbandono essa diventa un vicolo cieco.

Suicidio e malattie neurologiche. Le malattie neurologiche costituiscono un terreno particolarmente fertile e ben noto in letteratura per il rischio suicidario. Patologie come sclerosi multipla, Parkinson, Sla o epilessie farmacoresistenti possono determinare dolore cronico, perdita progressiva dell’autonomia, angoscia per il futuro. Non è solo la sofferenza fisica a pesare ma la disperazione psichica che la accompagna. Inoltre, molte malattie neurologiche alterano i circuiti cerebrali che regolano l’umore: per questo depressione e malattia diventano spesso inseparabili. È difficile distinguere quanto il desiderio di morire sia frutto di una scelta lucida o quanto sia condizionato da una distorsione patologica dell’umore. La neurofisiologia del suicidio nella Sclerosi multipla (SM) per esempio è complessa e non è pienamente compresa, ma implica una combinazione di fattori neurobiologici e psicologici derivanti dalla progressione della malattia. Il danno neuroinfiammatorio alla mielina e agli assoni altera la comunicazione nervosa, compromettendo la funzione cerebrale e influenzando la regolazione emotiva. Questo può contribuire a sintomi come depressione e ansia, che sono fattori di rischio significativi per il comportamento suicidario nelle persone con SM, in particolare di quelle con minore sintomatologia clinica motoria.

Un ruolo decisivo per il rischio suicidario del malato neurologico lo gioca il contesto: cure palliative, riabilitazione, sostegno psicologico, sociale ed economico possono cambiare radicalmente la traiettoria di vita di un malato. Il suicidio, in questi casi, non riflette solo la malattia ma anche la capacità – o l’incapacità – di una società di accompagnare e custodire i suoi membri più fragili.

Declino cognitivo e rischio suicidio. Il tema si fa ancora più complesso quando la malattia neurologica porta con sé decadimento cognitivo. Nella Sclerosi multipla, nella Sla, nelle demenze o nelle cerebrolesioni acquisite, il livello di compromissione varia, ma sempre mette in discussione – o dovrebbe farlo – la lucidità della volontà. Un malato cognitivamente compromesso può essere più vulnerabile a impulsi autodistruttivi o all’influenza di altri. Di fronte a un desiderio di morire la società rischia due errori opposti: considerarlo una volontà pienamente valida quando non lo è, oppure ignorarlo come irrilevante, negandogli dignità. Se questo è accettabile per ignoranza da parte dei fautori del “suicidio ideologico”, non lo è da parte di medici e specialisti. La questione etica è cruciale: la volontà di morire di chi ha deficit cognitivi causati dalla sua malattia può essere equiparata a quella di una persona sana? La responsabilità di una società civile non è spingere verso la morte, ma curare, proteggere, assistere, consolare. I n un Paese laico si può anche decidere che non potendo impedire alle persone di suicidarsi, se queste lo vogliono a tutti i costi, non le si può bloccare. Su questo in Italia alcune associazioni hanno deciso di intestarsi battaglie che, di fatto, non hanno senso di esistere. Fai la battaglia perché un disperato si vuole suicidare? Tutti, volendolo, si possono suicidare in qualunque momento e spesso purtroppo è impossibile fermare questo atto.

La sentenza 242 della Corte costituzionale del 2019 e la proposta di legge successiva hanno aperto un varco giuridico al suicidio assistito, circoscrivendolo ai malati con sofferenze insopportabili e irreversibili, pienamente capaci di autodeterminarsi. È un passo delicato, che deve mantenere chiari confini: il suicidio è e resta un atto individuale, mai un servizio essenziale da equiparare a una cura, e quindi è indispensabile mantenerlo nei confini di quello che è, l’atto individuale e soggettivo di persone con gravi malattie che sono sempre disperate, spesso depresse e talvolta cognitivamente menomate. Uno Stato civile deve definire i confini ben precisi in cui limitare il desiderio effettivo di pochi di suicidarsi. Di fatto, le sentenze in discussione hanno solo depenalizzato il soggetto che aiuta un altro che decide di suicidarsi. E hanno definito che se soggettivamente vuoi suicidarti non posso impedirti di farlo.

Il suicida può cambiare idea, dilazionare l’atto, trasformarlo in un vecchio desiderio inattuato. Ma resta sempre un comportamento individuale e mai una attitudine da assecondare come base sociale per un paese civile. La cura possibile in caso di insopportabilità di una malattia infatti esiste e si chiama sedazione palliativa, è un diritto del paziente e il suo scopo tramite farmaci sedativi è alleviare la sofferenza senza incidere sui tempi di vita residua: muori per la tua malattia che ti fa morire. Fa parte delle cure palliative, obbligatorie ed erogate gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale nel nostro Paese. Chi confonde il suicidio, assistito o no, con l’eutanasia lo fa per ignoranza o malafede. Tertium non datur. L’eutanasia provoca la morte di una persona in un dato momento e senza scampo. È contro le leggi italiane e non è degna di un Paese in cui i disperati non si spingono nel baratro ma si consolano, i depressi non si abbandonano ma si curano, i cognitivamente fragili non si stigmatizzano ma si supportano. Chi mischia tutto, asseconda i disperati, abbandona i depressi e stigmatizza quelli che sono cognitivamente menomati di fatto disorienta l’opinione pubblica e tradisce chi ha una malattia. La ricerca non deve cedere a questi tranelli e si deve concentrare sull’identificazione dei meccanismi neurobiologici che legano la neuroinfiammazione e la neurodegenerazione ai disturbi dell’umore e ai pensieri suicidari, al fine di sviluppare interventi più mirati e efficaci. Perché uno scienziato il sintomo come il rischio suicidario lo cura, non lo asseconda.

Anche se sei tetraplegico per la Sclerosi multipla e non sei Brad Pitt.

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ultimo aggiornamento il 19 Settembre 2025

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