
Il ritrovamento di un feto di 30 settimane morto tra i rifiuti dell’Ospedale di Piacenza rilancia la necessità di un nuovo strumento per prevenire altre tragedie. Ecco un’idea efficace, e chi ci sta.
Fuori dall’Ospedale “Guglielmo da Saliceto” di Piacenza per alcuni giorni mazzi di fiori lasciati dalla gente hanno ricordato alla città un lutto sul quale non si può passare oltre troppo alla svelta. Anzitutto perché manca la verità sull’accaduto: il 19 giugno nel bagno del Pronto soccorso gli addetti alle pulizie hanno trovato, chiuso in un sacchetto, il cadavere di un feto giunto alla 30esima settimana di gestazione. «Materiale abortivo espulsivo» è stato definito dall’Ausl piacentina. In termini umani, un bambino. E questo è il secondo motivo che impedisce di girare pagina, in attesa dei rilievi autoptici dell’Istituto di Medicina legale di Pavia e dell’incrocio del dna del piccolo per risalire alla madre (che quasi certamente non ha agito da sola).
Un modo per far sì che il bambino – come altri prima di lui, in altre città – non sia tragicamente morto invano è che si consideri attentamente la proposta di FederVita Emilia Romagna: una “culla per la vita” in ogni ospedale italiano. Perché all’esterno delle strutture sanitarie non restino solo fiori a ricordare tragedie ma nascano presìdi che – come già accade in una sessantina di luoghi in giro per l’Italia, e finora sempre a cura del privato sociale – consentano a chi non vuole neppure metter piede al pronto soccorso per il parto in anonimato di non “buttare via” una vita. Un figlio. Dire basta a drammi come quello di Piacenza significa anche provare questa strada.
«Quando nel 2006 abbiamo inaugurato la prima culla per la vita in Emilia-Romagna – racconta Antonella Diegoli, presidente di FederVita regionale – la spinta era stata data dal ritrovamento del corpicino del piccolo Jacopo a Modena. A Piacenza subito dopo venne inaugurata la seconda. Proprio in quei giorni era stato ritrovato in una culla ospedaliera a Roma il primo bambino dopo molto tempo. Vivo. Oggi dopo quasi vent’anni la situazione è molto cambiata: la solitudine, cresciuta a dismisura a causa del Covid, mentre la vita umana ha sempre meno valore. Occorre ripensare misure e strumenti di tutela dei più indifesi». Per questo FederVita aveva presentato alla giunta regionale «la proposta di aprire una culla per la vita in ogni presidio ospedaliero: è uno spazio pubblico, facilmente riconoscibile, con vigilanza h24.
Non si può lasciare sulle spalle di volontari una responsabilità così grande, ma soprattutto occorre moltiplicare la possibilità di accogliere un bambino nell’anonimato. Ci sono molte situazioni complesse, delicate. Sapere di poter affidare il bambino a qualcuno che se ne può occupare può aiutare la madre in maggiori difficoltà». Per parte sua FederVita (che è espressione territoriale del Movimento per la Vita) pubblicizza come può il numero verde Sos Vita 800813000. «Nel 2009 – ricorda Diegoli – l’assessore regionale alla Salute aveva consentito di farlo conoscere in ogni ospedale e consultorio. Negli ultimi mesi abbiamo ricevuto molte richieste di aiuto, informazioni, sostegno: significa che la domanda è molta e la risposta insufficiente».
E se la rete di “culle per la vita” coprisse tutti gli ospedali del Paese? La vita dei bambini – e ciò che uno sforzo simile può significare – merita di pensarci seriamente: «Se lo Stato prestasse attenzione alle culle per la vita e se ne facesse carico attraverso il sistema sanitario sarebbe una bella notizia – reagisce Marina Casini, che del Movimento per la Vita è presidente nazionale –. La custodia e la cura della vita umana, specialmente fragile, non può essere affidata solo al volontariato. Proteggerla è ciò che rende un’organizzazione statuale “Stato di diritto”, ed è fondativo della democrazia. Queste culle parlano di una società che non abbandona mai, non scarta, ma si prende cura e accoglie. Una logica che dovrebbe riguardare tutto l’arco dell’esistenza umana, fin dal concepimento. Per questo proponiamo i Centri di Aiuto alla Vita, come espressione di una intera comunità che accoglie e modello anche per i consultori».
La proposta di “una culla per la vita in ogni ospedale” – osservando le condizioni per renderla sicura per il bambino e per chi voglia affidarlo anche senza lasciar traccia di sé – è condivisa al di fuori del volontariato pro life: «Doveri del medico – dice Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) – sono “la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”: recita così l’articolo 3 del Codice di deontologia medica. La proposta di dotare di una “culla per la vita” ben si coniuga con il dovere di ogni sanitario di tutelare la vita anche in quelle situazioni socialmente difficili come quella di Piacenza. Ogni città dovrebbe dotarsi di una “culla per la vita”, gestita da strutture sanitarie pubbliche in grado di offrire sempre un’opportunità alla vita che nasce. È un segno di grande attenzione alla tutela della vita e di rispetto nei confronti di coloro che hanno difficoltà o non vogliono accedere ai servizi pubblici, gratuiti, che già oggi garantiscono assistenza, anonimato e tutela del nascituro».
D’accordo con la proposta anche i dirigenti delle aziende sanitarie pubbliche: «Da sempre – osserva Paolo Petralia, vicepresidente della Federazione che li rappresenta (Fiaso) – l’identità, oltre che le normative regolatorie, degli ospedali pubblici garantiscono la possibilità di tutela a chiunque, specie nelle situazioni di maggiore fragilità e svantaggio.La certezza quindi di poter affidare un neonato in anonimato e senza discriminazioni può davvero fare la differenza in fasi della vita di grandi dubbi e angosce da parte di una madre. E trovare nelle aziende pubbliche una risposta di accoglienza di questo tipo è un segno tangibile di prossimità e di accessibilità per tutti».
Stefano Ojetti, presidente dei Medici cattolici, apprezza «la lodevole iniziativa», e proprio per questo invita a considerare con realismo le questioni realizzative da affrontare, «pratiche, economiche e giuridiche». «La problematica degli abbandoni – considera il leader Amci – riteniamo derivi non tanto da una impossibilità concreta di allocazione del feto quanto piuttosto da un fatto culturale che porta la gestante, pur comprendendone le motivazioni, ad abbandonare in qualsiasi luogo il proprio feto che andrà incontro a morte sicura. Ben vengano, ove possibile, le culle della vita, con la speranza che si sviluppi nelle neo mamme una cultura della vita attraverso un sentimento di amore per il neonato che è stato portato per così tanto tempo nel proprio grembo».
ultimo aggiornamento il 6 Luglio 2025