AgenSir | 11 novembre 2025

Editing genetico | CRISPR e i “bambini su misura”: quando la scienza dimentica la persona

di Maurizio Calipari

La prospettiva di una “ri-produzione progettata” rovescia il senso della generazione. L’essere umano non nasce più come frutto di una relazione personale – l’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente l’un l’altro – ma come risultato di un processo tecnico, programmato e selezionato.

Tornano a far discutere i “bambini CRISPR”. Un articolo pubblicato su “Nature   (https://www.nature.com/articles/d41586-025-03554-y) racconta il progetto di una giovane imprenditrice biotech – ribattezzata dai media “Biotech Barbie” – che propone di creare embrioni geneticamente modificati per prevenire malattie ereditarie.

“È arrivato il momento di pensare a bambini CRISPR”, ha dichiarato.
Parole che evocano scenari da fantascienza, ma che oggi la tecnica CRISPR renderebbe teoricamente possibili. CRISPR è infatti una sorta di “forbice molecolare” capace di tagliare e riscrivere con grande precisione tratti di Dna, correggendo o modificando i geni.

La comunità scientifica, tuttavia, invita alla prudenza: gli effetti a lungo termine dell’editing genetico restano imprevedibili e i rischi, soprattutto se applicati alla linea germinale, sono enormi.
Al di là della dimensione tecnica, la vicenda riapre una domanda radicale: che idea di essere umano sta alla base di una scienza che vuole “produrre” le persone in laboratorio?

La prospettiva di una “ri-produzione progettata” rovescia il senso della generazione.
L’essere umano non nasce più come frutto di una relazione personale – l’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente l’un l’altro – ma come risultato di un processo tecnico, programmato e selezionato.

È come se la nascita del “buon individuo” dovesse ormai avvenire non nell’incontro, ma nella provetta: in vitro, sotto controllo, garantita da un algoritmo.

Così, la generazione si trasforma in “produzione”; il figlio, da dono da accogliere, diventa progetto da ottimizzare.
Si sostituisce la logica dell’amore con quella dell’efficienza: invece di chiedersi “posso accogliere questa vita?”, ci si domanda “questa vita possiede la qualità che volevo?”.

Dietro la promessa di eliminare possibili difetti genetici si nasconde una visione riduttiva: l’idea che la perfezione biologica coincida con la “bontà” umana. Ma il valore di una persona non dipende dal suo Dna, bensì dalla sua capacità di relazione, di libertà e di amore.

Dal punto di vista personalista, ogni essere umano possiede una dignità originaria, indipendente da salute, efficienza o aspetto fisico. L’ipotesi dei “bambini su misura” nega proprio questo principio: valuta la vita secondo criteri di prestazione, non di valore intrinseco. Ma una persona non è mai un “prodotto riuscito”: è un essere unico e irripetibile, che va accolto, non progettato.

Le conseguenze sociali di una simile mentalità sarebbero devastanti. Si rischierebbe di creare una nuova forma di discriminazione su basi genetiche, una divisione tra “figli di laboratorio” – sani, certificati, perfettamente selezionati – e “figli naturali”, con i loro limiti e imperfezioni. Una nuova e potente ingiustizia, che rischierebbe di minare l’eguaglianza stessa tra gli esseri umani.

In una società che privilegia il “prodotto perfetto”, chi nascerà naturalmente potrebbe essere considerato di “serie B”, come avveniva nei romanzi distopici. Eppure, è proprio nella diversità e nella fragilità che si radica la dignità della persona.

La scienza può e deve cercare di curare, ma non può sostituirsi all’origine della vita. L’editing genetico di cellule somatiche, non trasmissibili, può avere un significato terapeutico e aprire vie di speranza per molti malati. Ben diverso, però, è intervenire sugli embrioni: significa modificare in modo irreversibile il patrimonio genetico di un individuo – che peraltro non può dare il proprio consenso -, trasmettendo le alterazioni anche alla sua eventuale discendenza e, in definitiva, alle generazioni future.

La ricerca, se vuole rimanere umana, deve rimanere focalizzata sulla persona e sulla sua dignità inalienabile. Il desiderio di sconfiggere la malattia è comprensibile, condivisibile e nobile. Ma se la via per farlo passa attraverso la progettazione della vita, il rischio è perdere proprio ciò che si vorrebbe salvare: l’umanità. Una società che affida la nascita alle macchine e la qualità alla genetica dimentica che la vita non è mai “perfetta”, e proprio per questo è degna di essere amata.

La vera frontiera della scienza non è costruire bambini su misura, ma custodire la persona nella sua unicità e vulnerabilità.

Solo una tecnologia che riconosce la dignità di ogni essere umano, fin dal suo sorgere, può dirsi davvero al servizio dell’uomo. Perché il futuro non si progetta in provetta: si genera nell’incontro, nella libertà e nell’amore reciproco di due persone che scelgono di donare la vita, non di fabbricarla.

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ultimo aggiornamento il 11 Novembre 2025

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