Un forte impulso dal Quinto incontro nazionale delle associazioni locali
SI’ ALLA LEGGE SUL FINE VITA
SCIENZA & VITA PROTAGONISTA
Unanime convergenza sulla necessità di una legge sul fine vita dopo l’esplosione del caso di Eluana Englaro e la sua pesante deformazione giudiziaria. Sette punti generali d’intesa, un unico elemento di distinzione che riguarda l’approccio alla legislazione in materia, ma che non pregiudica l’assoluta volontà di tutti i partecipanti al Quinto incontro nazionale delle Associazioni locali di Scienza & Vita (Roma, 7/8 novembre) di reclamare un’iniziativa parlamentare che porti in un tempo ragionevole all’approvazione di una legge sul fine vita.
Ma procediamo con ordine. Ecco alcune conclusioni significative, sia circa l’impegno associativo, sia sulle sfide che il Parlamento dovrà affrontare.
• Analogo consenso è stato manifestato da tutti i parlamentari intervenuti, senza distinzioni di appartenenza (maggioranza-opposizioni) o di incarichi (governativi, parlamentari, di partito).
• Convinto incoraggiamento è stato manifestato da leader e rappresentanti di Associazioni e Movimenti intervenuti nel corso del dibattito in aula: Franco Miano (Azione Cattolica), Michele Rizzi (Acli), Giovanni Gut (Mcl), Franco Pasquali (Retinopera). Il Forum delle Associazioni Familiari ha fatto pervenire il proprio sostegno a una soluzione legislativa attraverso un messaggio del presidente Giovanni Giacobbe (impossibilitato a intervenire di persona in quanto, in concomitanza, si riuniva il consiglio direttivo del Forum).
• Infine l’adesione alla necessità di una legge è stata espressa dalla base associativa di Scienza & Vita, attraverso una fitta serie di interventi in aula, da parte dei presidenti e dei rappresentanti locali.
In sostanza si può dire che le perplessità sollevate a fine luglio, e che avevano accompagnato la riflessione dei vertici di Scienza & Vita in direzione di una propensione a legiferare sulla materia del fine vita, a cui erano seguite le dimissioni del prof. Adriano Pessina (docente di Filosofia morale alla Cattolica di Milano e direttore del Centro di Bioetica della stessa università) a mezzo stampa (intervista al “Corriere della Sera”) e successivamente respinte dal Consiglio esecutivo, possano dirsi sostanzialmente superate. E’ ragionevole dire che a tutt’oggi la base associativa di Scienza & Vita, così come il mondo cattolico nelle sue diverse articolazioni e larga parte dell’opinione pubblica laica, abbiano maturato ed espresso la propensione all’approvazione di una legge sul fine vita, in presenza di sentenze aggressive.
Resta per Scienza & Vita l’impegno a dare conto e motivare adeguatamente questa scelta che non è una inversione ad U rispetto alla precedente campagna (“Né accanimento né eutanasia”), né rappresenta un cedimento al testamento biologico. Si tratta piuttosto di una presa d’atto di uno stato di necessità in cui alcuni magistrati hanno costretto tanto il Parlamento quanto la società civile. Sfumature non da poco, ma che vanno sempre richiamate per renderci perfettamente comprensibili.
LO STATO DELL’ARTE
Proviamo a distinguere le posizioni espresse dai rappresentanti politici nel corso del dibattito.
Eugenia Roccella (sottosegretario al Welfare) ha esposto il punto di vista da lei stessa definito “prevalente” nel governo. Ovvero la necessità, dovendo scrivere una legge sul fine vita, di ripartire da due documenti del Comitato nazionale di bioetica (Cnb): quello relativo alle Dat (“Dichiarazioni anticipate di trattamento”) del 18 dicembre 2003 approvato all’unanimità e quello su “Alimentazione e idratazione” del 30 settembre 2005, varato a maggioranza. Di grande rilievo, secondo il sottosegretario, sia sotto il profilo del metodo sia dei contenuti, è la decisione di partire dal documento sulle Dat perché è l’unico che abbia registrato l’unanime consenso di laici e cattolici presenti nel Cnb, all’epoca presieduto dal prof. Francesco D’Agostino.
Pierluigi Castagnetti (deputato Pd) si è apertamente schierato per l’esclusione dell’idratazione e alimentazione in quanto sempre considerati sostegni vitali e non terapie. Con questa dichiarazione si è chiaramente distinto dalle posizioni ufficiali del suo partito, rappresentate e coagulate nella proposta del senatore Marino sul testamento biologico.
Paola Binetti (deputata Pd) ha rimarcato la dialettica libertà-vita che sta molto a cuore anche ai cattolici, non escludendo la possibilità di ricorrere alla Dat, opportunamente disciplinate. E ha denunciato, ancora una volta, la strategia del “caso pietoso” messa in atto dal “partito dell’eutanasia” che si può ricondurre ai radicali come al senatore Veronesi (Pd).
Alfredo Mantovano (sottosegretario all’Interno) ispiratore del fronte della fermezza, si è soffermato in particolare su un vincolo a suo parere insormontabile: gli eventuali desideri del soggetto devono essere tutti ricompresi all’interno del rapporto medico-paziente e all’interno del tragitto di cura. In sostanza si può parlare del futuro e dell’esito individuale solo dentro il rapporto medico-paziente e quindi in costanza di una malattia. E’ pertanto esclusa, a suo avviso, la possibilità di dichiarazioni anticipate “ora per allora”. Ad esempio, quando si è giovani e sani.
Carlo Casini (europarlamentare Udc) ha rinnovato l’invito a tener conto dei documenti del Cnb, ma ha chiesto se non si possa fare di più. Ha inoltre evocato lo spirito della legge 40 e ha invitato i parlamentari a tentare di riprodurre quella stagione, attraverso le scelte dell’unità, dell’umiltà, e del riserbo. Tutte condizioni per lui “essenziali” per approdare ad un risultato adeguato alla gravità del tema.
Laura Bianconi (senatrice Pdl) ha sostanzialmente presentato il disegno di legge depositato al Senato, con l’avvertenza che bisogna tenere alta la guardia, perché una trattativa che partisse dalle Dat (nella versione del Cnb) a suo avviso rischierebbe di produrre un compromesso al ribasso.
Massimo Polledri (deputato Lega Nord) si è soffermato soprattutto sulla necessità di sbarrare la strada all’eutanasia in tutte le sue forme, non solo quella attiva. Infatti egli intravede nel tragitto delle Dat il rischio di una deriva eutanasica, nella sua forma “passiva”. Ha poi ricordato la necessità di far scendere in campo i rispettivi leader e partiti.
Sin qui le posizioni con l’emergere di alcune distinzioni. Ma vediamo i sette punti condivisi sui quali tutti gli interlocutori si sono detti sostanzialmente d’accordo:
• Indisponibilità della vita umana;
• Né accanimento né eutanasia;
• Esclusione dell’idratazione e dell’alimentazione da eventuali dichiarazioni, in quanto sostegni vitali mai riconducibili nell’orbita delle terapie;
• Non vincolatività delle dichiarazioni;
• Alleanza terapeutica e rafforzamento del rapporto medico-paziente;
• L’ultima parola spetta al medico;
• No all’autodeterminazione “assoluta”.
Al di là di alcune sfumature, siamo in presenza di un’ampia piattaforma valoriale che sembra unire questi parlamentari. Resta un nodo da sciogliere che non è da poco: dichiarazioni anticipate “ora per allora” (cioè rese anche quando si è sani, anche giovani e lontani da un quadro clinico) o solo in presenza di una malattia conclamata.
Questo nodo costituisce il principale punto di frizione, ma non deve far gridare alla scandalo della “ divisione” nel campo dei parlamentari che si ispirano all’antropologia cristiana. Certo, può oggettivamente costituire un momento di debolezza, in presenza di proposte stringenti e aggressive sul testamento biologico, prevalenti nello schieramento oggi all’opposizione. Da non trascurare, poi, che anche nell’attuale maggioranza ci sono settori libertari e radicali sostanzialmente favorevoli all’autodeterminazione “assoluta” del singolo individuo. Dunque spetta a questi parlamentari, nella loro libertà, costruire un cammino condiviso e fruttuoso, in grado di ottenere il massimo consenso possibile.
Sul tema dell’autodeterminazione va inoltre tenuto conto di un aspetto non secondario: se tutti sono contrari all’autodeterminazione “assoluta” del singolo, non mancano voci, anche nel nostro campo, che ricordano il valore della libertà individuale. In tal senso le Dat riconoscono di fatto una sorta di autodeterminazione “relativa”, in quanto maturata in una dimensione relazionale (nello specifico fra medico e paziente) come previsto dalla Convenzione di Oviedo all’articolo 9. Un terreno, questo, sul quale già è maturata una convergenza fra laici e cattolici in seno al Cnb. Convergenza che andrebbe oggi verificata e adeguatamente valorizzata per farne un punto di forza nel dialogo pubblico e parlamentare. In questa prospettiva non è da trascurare il peso della riflessione del prof. Francesco D’Agostino, il quale ritiene opportuno non demonizzare il concetto di autodeterminazione che va ricompreso e approfondito nell’ottica cristiana e nella bioetica correttamente ispirata ai principi dell’antropologia cristiana.
LEGGE 40 O LEGGE 194?
Questo interrogativo è risuonato più volte nel corso del dibattito e si è convenuto sull’opportunità di ricostruire il clima parlamentare che ha portato all’approvazione della Legge 40, ma sapendo che è alto il rischio, qualora non emerga un forte compattamento trasversale, di mettere in moto un meccanismo che porti ad una legiferazione perdente. Di qui la necessità, sia di valutare con freddezza i passi successivi, sia di discernere la situazione attuale.
IL RUOLO DI SCIENZA & VITA
Riconquistato un certo positivo protagonismo, all’Associazione spetta il compito prioritario di animare il dibattito culturale, a partire dai punti di consenso che sono emersi nel discorso pubblico. Resta il nodo della strategia di avvicinamento alla legge che si racchiude nel dilemma precedentemente sollevato fra Dat e rapporto esclusivo medico-paziente che ora spetta solo al Parlamento sciogliere, nella sua responsabilità e saggezza.
In questa fase Scienza & Vita può animare la propria riflessione interna per non far mancare spunti utili alla costruzione di una legislazione sul fine vita, all’interno del quadro valoriale già evidenziato. Il tutto nella consapevolezza che in larghi settori dell’opinione pubblica emerge una propensione sia al testamento biologico sia all’autodeterminazione “assoluta” degli individui. Propensione che rischia di farsi ancora più marcata, dopo la decisione della Cassazione di dare esecutività alla sentenza che decreta la morte di Eluana Englaro per fame e per sete. Tutto ciò deve portare a considerare con grande attenzione i rapporti di forza e scegliere la strada migliore perché si realizzi un incontro fecondo, non solo in Parlamento, ma anche nella società civile, tra laici e cattolici.
Rassegna stampa sull’incontro
Di seguito vi riproponiamo la rassegna stampa dell’ 8 novembre scorso, che documenta le riprese delle Agenzie stampa e gli articoli dei principali quotidiani relativamente al dibattito sul fine vita svoltosi all’interno del 5° incontro delle associazioni locali.
Agenzie Stampa 07/11/2008
Avvenire 08/11/08: “Un ddl per dire no all’eutanasia”
Avvenire 08/11/08: “Legge sul fine vita: tre i punti fermi”
Il Messaggero 08/11/08: “Pdl e Udc, disegno di legge contro l’eutanasia e il testamento biologico”
Il Giornale 08/11/08: “Norme No al testamento biologico e all’eutanasia. Mantovano: serve un testo che non lasci ambiguità”
L’Unità 08/11/08: “No al testamento biologico. Arriva la legge del Pdl”
Avvenire 09/11/08:
“A tutto campo per i valori non negoziabili”
“Dare più forza alla rete locale”
Il punto sul caso di Eluana dopo la sentenza della Cassazione
ASPETTANDO I GESTI DI PAPA’ ENGLARO
LA SOCIETA’ CIVILE NON SI ARRENDE
di Ilaria Nava
Alla perseveranza di Beppino Englaro nell’invocare una struttura sanitaria che possa accogliere la figlia per farla morire, si aggiungono giorno dopo giorno proposte e iniziative per salvarla. C’è chi ha suggerito che sia adottata dalla suore mirsericordine che già da anni si prendono cura di lei – e che invocano di poter continuare a farlo senza pretendere nient’altro – e chi, come le 34 associazioni che riuniscono pazienti con patologie simili a quella di Eluana, ha deciso di ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo. In ogni caso, la vicenda giudiziaria è ormai giunta ad una svolta decisiva: il ricorso da parte della Procura di Milano contro il provvedimento dei giudici di Milano è stato dichiarato inammissibile dalle Sezioni unite della Cassazione il 13 novembre. Un ultimo, clamoroso, colpo di coda, assestato al termine di un iter giudiziario che non lasciava presagire nulla di buono.
Motivazioni ragionevoli e di evidente rilevanza anche per i non addetti ai lavori, che tuttavia non sono neppure state considerate dalla Suprema Corte. Gli Ermellini, non sono, infatti, neppure entrati nel merito della vicenda, dichiarando inammissibile il ricorso della Procura milanese.
Ora il padre di Eluana cerca una struttura sanitaria disposta ad eseguire il decreto, nel quale si enunciano anche alcune “modalità attuative”, prescrivendo, paradossalmente, che la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione dovrà avvenire “in hospice o altro luogo di ricovero confacente”, attuando tutti quegli accorgimenti tali “da garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad es. anche con l’umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell’igiene del corpo e dell’abbigliamento, ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento”.
Nella girandola di dichiarazioni su quale struttura possa accettare di eseguire il decreto si inserisce quella del sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella che ha subito chiarito che “non c’e’ nessun obbligo né da parte dei medici né delle strutture pubbliche”. Dal canto suo, il sottosegretario del medesimo dicastero, Francesca Martini, ha precisato che “il ruolo dell’Servizio sanitario nazionale è quello di offrire al paziente cure commisurate ai suoi bisogni”. E sarebbe proprio il governo, secondo l’autorevole parere del presidente emerito della Consulta, Piero Alberto Capotosti, l’unico ad avere qualche margine d’azione in questa intricata vicenda, potendo emanare un decreto legge che dichiari l’obbligo per tutte le strutture sanitarie pubbliche e private di astenersi dal praticare il distacco dei sondini per l’alimentazione artificiale in attesa di una legge.
Dalla Pennsylvania la denuncia di alcuni casi in soggetti cardiopatici
SE IL TESTAMENTO BIOLOGICO
APRE ALLA CATTIVA PRATICA MEDICA
di Renzo Puccetti *
Il principio di non maleficienza, bene indicato dall’aforisma primum non nocere, rappresenta uno dei capisaldi della pratica medica. Nel dibattito sul tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento, più conosciuto come testamento biologico, di questo principio basilare sembra si tenda a sorvolare con troppa sufficienza. Eppure la questione è seria. I numerosi postulati che sostengono l’impianto del testamento biologico troppo spesso vengono recepiti come acquisiti senza la minima preoccupazione verso la verifica sperimentale.
Le evidenze fornite dalla letteratura medica internazionale sono però ancora più impressionanti. Il dottor Ferdinando Mirarchi, medico del dipartimento di medicina d’urgenza all’Hamot Medical Center in Pennsylvania, ha pubblicato una serie di case reports per documentare la pericolosità del testamento biologico. Tra questi quello di un signore di 75 anni che per convenzione chiameremo signor Smith, cardiopatico, giunto in ospedale per dolori al petto a cui viene diagnosticato un infarto. Su richiesta del medico di turno, il paziente mostra una copia del proprio testamento biologico. Interpellato telefonicamente sul da farsi, il primario chiede quale sia il codice del paziente; la risposta che riceve dal collega in reparto è che il signor Smith, in base al suo testamento biologico, è un codice DNR (Do Not Resuscitate), un soggetto da non rianimare. Viene pertanto deciso un trattamento medico conservativo. Alle 4 del mattino il sig. Smith si lamenta del dolore sempre più forte, suda e chiama l’infermiera col campanello. Un cardiologo che si trova a passare, accorgendosi dal monitor che il paziente è in arresto cardiaco, si precipita nella stanza per tentare di defibrillarlo, ma viene fermato dall’infermiera perché si tratta di un codice DNR. Il secondo tentativo d’intervento viene di nuovo fermato dal capo infermiere. Alla fine il paziente è dichiarato morto.
Si tratta di un chiaro caso in cui quanto scritto nel testamento biologico era in contraddizione con quanto richiesto nel momento della vera malattia. Quel premere il campanello in cerca di soccorso era una chiara sconfessione di quanto scritto sul testamento biologico, eppure le cose sono andate in modo tale che la volontà attuale è stata considerata meno importante della volontà espressa in precedenza. Probabilmente il sig. Smith non si rendeva conto che sottoscrivendo il testamento biologico stava firmando la propria condanna a morte.
Casi come questo non sono una tragica eccezione. In una vastissima casistica condotta su 147.475 pazienti ricoverati per infarto del miocardio in 4.111 reparti di emergenza negli Stati Uniti, è risultato che i pazienti che hanno compilato il testamento biologico più facilmente hanno ricevuto terapie non in accordo con le linee guida per la terapia dell’infarto del miocardio. Il testamento biologico può quindi rappresentare un fattore di rischio per malpractice clinica. Dopo soltanto 4 mesi un terzo dei pazienti affetti da Aids cambia idea e vuole ricevere la rianimazione in caso di arresto cardiaco.
La cosa sconvolgente è che, a seconda della modalità con cui le domande sono poste nello stampato, si ottengono risposte opposte. Negli Usa una minoranza delle persone si consulta col medico al momento di compilare il testamento biologico e quando questo avviene la durata media del colloquio è di 5 minuti. Insomma, pensare al testamento biologico come ad un consenso informato anticipato è come intendere il primo bacino dato all’asilo una promessa di matrimonio.
* Socio fondatore di Scienza & Vita, medico internista
Il criterio di morte cerebrale resta scientificamente fondato e accettabile
MORTE E TRAPIANTI, LA FRONTIERA (LONTANA)
E’ L’ESPIANTO DA CADAVERE A CUORE FERMO
di Massimo Gandolfini *
Fino alla fine degli anni ’50 la morte veniva tradizionalmente definita come la cessazione delle "funzioni vitali", cioè battito cardiaco e funzione respiratoria. La cessazione delle funzioni cerebrali era una conseguenza dell’arresto cardiorespiratorio. Lo sviluppo della tecnologia medica permise di elaborare tecniche rianimatorie che resero possibile riattivare il sistema cardiorespiratorio con la conseguenza che il precedente criterio di morte (irreversibile perché impossibile il recupero funzionale del complesso cardiorespiratorio) doveva essere ridiscusso.
Nel 1958 i neurologi europei richiamarono l’attenzione su uno stato di coma in cui il cervello risultava irreparabilmente leso e aveva cessato di funzionare, mentre la funzionalità cardiorespiratoria poteva essere mantenuta con mezzi artificiali. Due francesi, Mollaret e Goulon, proposero il termine di "coma depassè", volendo indicare uno "stato oltre il coma". Si affacciava, quindi, un nuovo concetto – criterio di morte: la cosiddetta "morte cerebrale". Questo termine è stato coniato per evidenziare la cessazione funzionale dell’intero cervello, in entrambe le sue due componenti anatomo-funzionali: il cervello vero e proprio (corteccia ed emisferi cerebrali, talamo e nuclei grigi della base) e le strutture sottotentoriali, chiamate "tronco cerebrale". Fu così che, nel 1968, fu costituita la "Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School", per definire criteri sicuri circa la determinazione della morte cerebrale. Durante i lavori vennero consultati specialisti di tutto il mondo, giungendo all’assunto che "il cervello regola tutte le altre funzioni dell’organismo ed è essenziale alla vita. Quando ricorre un danno generalizzato irreversibile del cervello, il paziente è effettivamente morto anche se la respirazione ed il battito cardiaco possono essere sostenuti con presidi meccanici o chimici. Gravi e diffuse alterazioni patologiche si sviluppano rapidamente nel cervello dopo la morte cerebrale" (la traduzione è mia).Quindi, venne proposto il concetto che una persona è morta se il suo cervello è morto, perchè esso costituisce l’organo integratore e coordinatore della funzionalità di tutti gli altri organi o apparati del corpo umano. Sul piano medico-legale, numerosi Paesi costituirono commissioni ad hoc per valutare il problema. La Finlandia, nel 1971, fu la prima ad accettare legalmente il concetto di morte cerebrale. In Italia la materia è regolata dalla Legge 578 del 29.12.93 e dal DM 582 del 22.8.94.
Addentrandoci almeno un po’ nei particolari (ma tralasciando trattazioni troppo specialistiche), i criteri per l’accertamento di "morte" in pazienti con lesioni cerebrali, sono costituiti dalla contemporanea presenza di:
– stato di coma;
– assenza dei riflessi del tronco cerebrale;
– assenza di ogni reazione allo stimolo doloroso;
– assenza di respirazione spontanea (test di apnea);
– silenzio elettrico cerebrale;
Qualora sussistesse un dubbio, è necessario eseguire un approfondimento strumentale (potenziali evocati, angiografia, ecoDoppler, scintigrafia).
Ognuna di queste rilevazioni va eseguita secondo modalità rigorose e ben dettagliate, ad opera di un collegio medico costituito da tre componenti (medicolegale, rianimatore, neurofisiologo, o sostituti rigorosamente specificati). Per pazienti – bambini al di sotto dei 5 anni d’età, si applicano criteri ancora più rigidi. Infine, va ricordato e sottolineato che questi criteri cerebrali per la diagnosi di morte non sono utilizzabili in tutti i pazienti, ma solo in quelli in cui la causa del coma è un insulto cerebrale primitivo (ad esempio, trauma cranico, emorragia cerebrale massiva, anossia cerebrale da arresto cardiaco): solo in tali pazienti può essere fatta diagnosi di "morte cerebrale" (cosiddetta morte a cuore battente) irreversibile.
Spero di aver esposto in modo chiaro e rigoroso, anche se necessariamente sintetico, i termini fondamentali del tema: l’accertamento di morte con criteri neurologici.
Ritengo si tratti di criteri rigorosi ed assolutamente "garantisti". Anche se il dato storico della quasi contemporaneità fra il nascere della chirurgia dei trapianti (Barnard, 1968) e l’assunzione del concetto di "morte cerebrale" può far nascere qualche dubbio che si sia trattata di una "decisione strumentale", finalizzata appunto ad avere numerosi organi a disposizione, penso che si possa affermare con elevata certezza (in medicina non esiste il 100%) che si tratta di una condizione clinica di reale irreversibilità. Se questo dato scientifico viene coniugato con l’assoluta rigorosità di applicazione-rilevazione dei criteri di morte cerebrale, ritengo che si possa ottemperare, secondo scienza e coscienza, alla illuminata esortazione che il Santo Padre ci ha rivolto pochi giorni fa (08.11.208): "…ricerca di soluzioni che diano certezza a tutti… in un ambito come questo non può esserci il minimo sospetto di arbitrio…".
Ovviamente, come sempre, la ricerca scientifica non si può e non si deve fermare. Anche se, ribadisco, il criterio di "morte cerebrale" come morte della persona è a mio modesto avviso oggi scientificamente fondato ed accettabile, ciò non toglie che non si debbano profondere sforzi, studi ed energie nella direzione di quello che viene chiamato "espianto da cadavere a cuore fermo". Si spera, cioè, di giungere ad identificare metodiche che consentano la conservazione anatomica (e,quindi, funzionale) di organi prelevati da soggetto morto, in stato di arresto cardiorespiratorio. E’ facile intuire che si tratta di risolvere un problema arduo: prelevare in tempo utile, e conservare intatti, organi vitali da destinare a trapianto. Ma la storia della medicina ci insegna che quello che appare oggi "impossibile", domani può diventare una concreta realtà.
Nel frattempo, però, assumendo con forza il criterio etico del principio di precauzione e rigettando ogni soluzione utilitarista, non si percorra la strada del "dubbio paralizzante": il prezzo da pagare sarebbe insopportabile, milioni di vite perse per mancanza di organi da trapiantare.
* primario Neurochirurgo presso la Poliambulanza in Brescia, Presidente AMCI regionale e Presidente dell’Associazione “Scienza & Vita” di Brescia
Presentata dal prof. Dallapiccola alla Camera la rilevazione del 2007
GENETICA MEDICA IN ITALIA
UN CENSIMENTO CHE FA LUCE
E’ vero che la genetica può schiuderci tutti i segreti sull’uomo? Attraverso un test genetico possiamo conoscere le malattie a cui siamo più soggetti? Come si fa un esame di questo tipo, e soprattutto, dove? L’utilizzo di queste tecniche è sempre utile per la diagnosi e la prevenzione o può essere inquinato da interessi commerciali?
A queste e altre domande ha risposto Bruno Dallapiccola, ordinario di genetica medica alla Sapienza e direttore scientifico dell’istituto CSS Mendel di Roma, nel corso della presentazione dei risultati dell’ultimo censimento sulle attività che si svolgono nelle oltre 250 strutture di genetica medica presenti nel nostro Paese.
Tra i risultati appaiono particolarmente significativi quelli emersi in relazione alle analisi molecolari prenatali: 1276 diagnosi prenatali sono state eseguite per ricercare microdelazioni del cromosoma Y, che comporta solo conseguenze sull’infertilità maschile, mentre sono state svolte addirittura 14 diagnosi prenatali di paternità. Lo studio, inoltre, ha analizzato 6 malattie, su cui si è definita l’appropriatezza dei test, che denotano un abuso nell’utilizzo, essendo risultata positiva solo in minima percentuale. A questo dato si accompagna quello delle consulenze genetiche, il cui numero risulta ancora irrilevante a fronte delle numerose diagnosi eseguite.
Pubblichiamo di seguito la sintesi dei risultati del censimento redatta dal professor Dalla piccola e divulgata dall’Istituto Css-Mendel.
L’Italia è l’unico Paese, nel contesto internazionale, che può vantare, a partire dalla metà degli anni ’80, il monitoraggio dell’utilizzazione dei test genetici e, negli ultimi anni, il monitoraggio complessivo delle attività delle Strutture di Genetica Medica. Questi censimenti sono stati realizzati dalle Associazioni Italiane di Citogenetica Medica (AICM) e di Genetica Medica (AIGM) fino alla fine degli anni ’90 e, dal 1998, dalla Società Italiana di Genetica Umana (SIGU).
La SIGU ha affidato all’Istituto Mendel di Roma la realizzazione del Censimento delle Strutture Italiane di Genetica Medica, relative all’anno 2007. Il censimento si è svolto a tre anni di distanza dal precedente censimento e ha avuto lo scopo di fotografare l’offerta e la domanda dei servizi svolti dalle strutture di Genetica Medica operanti nel nostro Paese. Il censimento 2007 ha coinvolto gli Istituti Universitari, gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), le Aziende Ospedaliere, le Aziende Sanitarie Locali, i laboratori del CNR e i laboratori privati. Il rilevamento dei dati, avvenuto nel periodo maggio-settembre 2008 mediante autocertificazione, è stato realizzato per via informatica on-line attraverso la compilazione di schede nel sito www.sigu.net e ha riguardato la tipologia, i dati anagrafici della struttura, le diagnosi citogenetiche (analisi cromosomiche), quelle genetiche-molecolari e immunogenetiche e l’attività clinica (consulenza genetica). Per la prima volta è stato rilevato il sistema di gestione della qualità presente nelle strutture e l’appropriatezza di alcuni test genetici. Le strutture arruolate sono state quelle storicamente registrate dai precedenti censimenti, aggiornate e integrate di anno in anno, nonché quelle reclutate attraverso ricerche mirate via internet o quelle che hanno spontaneamente aderito all’iniziativa attraverso la sua divulgazione nei convegni scientifici nazionali o attraverso il sito della SIGU e i contatti personali. Si stima che i risultati acquisiti coprano non meno del 95% delle strutture presenti sul nostro territorio.
Il censimento 2007 ha registrato l’attività di 388 Laboratori Diagnostici di Citogenetica, Genetica Molecolare e Immunogenetica e 102 Servizi di Genetica Clinica, ospitati all’interno di 278 strutture (comprendenti, tra l’altro, 83 Aziende Ospedaliere, 72 Università, 45 Strutture private, 38 IRCCS, 29 Aziende Sanitarie Locali), nelle quali, al momento del rilevamento, risultavano occupate complessivamente 2.748 persone.
Delle 278 strutture censite, 108 sono risultate accreditate con il Sistema Sanitario Nazionale (39%), mentre 62 (22%) erano in corso di accreditamento. Relativamente al sistema di gestione della qualità, sono risultate certificate 79 strutture secondo la norma ISO-9001 (28%) e 31 sono in corso (11%), mentre 27 strutture (10)% sono risultate accreditate in base alle norme ISO-15189 e ISO-17025 mentre 37 (14%) sono in corso di accreditamento. Solo 96/278 strutture (34.5%) avevano partecipato alle valutazioni esterne di qualità.
Nel 2007 sono stati eseguiti complessivamente circa 560.000 test genetici, comprese 311.069 analisi citogenetiche (148.380 postnatali e 162.689 prenatali) e 227.878 analisi di genetica molecolare (215.551 postnatali e 12.327 prenatali) e 20.813 analisi immunogenetiche. Nello stesso periodo, le consulenze di Genetica Clinica sono risultate 70.154.
Tutti i dati raccolti confermano l’esistenza di un gradiente decrescente dal Nord al Sud/Isole di tutte le attività. Così, ad esempio, il 46% dei laboratori di Citogenetica era collocato nelle regioni del Nord, rispetto al 20% del Sud e all’11% delle Isole; un analogo trend è stato osservato per i laboratori di Genetica Molecolare, presenti per il 50% al Nord e per il 22% al Sud, e per i servizi di Genetica Clinica, che erano localizzati nel 55% al Nord e nel 17% al Sud. Il 64% delle strutture del Nord risultavano certificate con un sistema qualità, rispetto al 12% di quelle del Sud.
Il Censimento 2007 ha confermato un dato già rilevato nel censimento del 2004, e cioè il raggiungimento di un plateau, per quanto attiene le diagnosi prenatali invasive. Di fatto, il numero delle diagnosi citogenetiche prenatali (127.919, di cui 101.750 sugli amniociti, 25.691 sul trofoblasto e 478 sul sangue fetale) è di poco superiore ai valori registrati nel 2004 e confermano che oltre una gravidanza ogni 5 viene monitorata in Italia con una tecnica invasiva.
Il numero complessivo delle analisi molecolari (227.878) segna un significativo aumento rispetto ai dati del 2004 (190.610), ma indica che la curva incrementale è meno importante rispetto a quelle registrata in altri Paesi Europei.
Il numero dei geni-malattia analizzati, meno di 500, resta basso, rispetto alla generale disponibilità diagnostica in Europa, che oggi riguarda circa 1.500 geni. Inoltre, il 67% della diagnostica molecolare è confinata nell’analisi di 10 geni-malattia; infine 91/201 laboratori di genetica molecolare (45%) hanno eseguito meno di 500 diagnosi nel corso dell’anno 2007 e 61/171 laboratori di citogenetica (35%), meno di 1000 diagnosi .
Il numero delle analisi molecolari prenatali registrate (12.327) è solo in apparenza inferiore al numero registrato nel 2004 (20.342), in quanto non ha partecipato al Censimento una struttura privata che gestisce una parte significativa di questa casistica che fa per lo più riferimento a servizi ‘acquistati’ da coppie non a rischio, contestualmente all’analisi citogenetica. Sono espressione dell’uso non appropriato di questi test (commercially driven) 1.004 diagnosi di sordità genetica, 848 diagnosi di ritardo mentale legato all’X, 340 diagnosi di distrofia muscolare di Duchenne. In questo stesso contesto meritano di essere evidenziate 1.276 diagnosi prenatali finalizzate alla ricerca di microdelezioni del cromosoma Y (le cui conseguenze sono confinate all’infertilità maschile) e 14 analisi prenatali di paternità.
Appaiono particolarmente importanti i risultati emersi dallo studio focalizzato su 6 malattie, con il quale si è voluto definire l’appropriatezza dei test. In particolare, sono risultati positivi solo il 2,82% dei test relativi alla sindrome di Williams (delezione 7q11.23), il 3,34 di quelli relativi alla sindrome di DiGeorge/Velo-cardio-facciale (delezione 22q11.2), il 4,17 di quelli relativi al ritardo mentale da X-fragile (gene FMR1), l’8,83% dei test per la diagnosi di sindrome di Angelman (anomalie della regione 15q11-13). Questi dati sottolineano la necessità e l’urgenza di investire nella formazione clinica dei prescrittori dei test genetici.
Resta tuttora molto limitata la richiesta di test dedicati a identificare la suscettibilità alle malattie complesse (si tratta per lo più di analisi di limitata o irrilevante utilità clinica, ma molto sponsorizzati a livello commerciale, soprattutto all’estero). Fanno eccezione gli oltre 65.000 test relativi all’analisi di 7 geni le cui mutazioni possono conferire un rischio di trombofilia e le oltre 27.000 analisi del sistema maggiore dell’istocompatibilità (HLA), che comunque rappresentano circa il 37% di tutte le diagnosi molecolari eseguite nel 2007.
Un cenno a parte merita l’introduzione e l’applicazione diagnostica, in alcuni laboratori, delle nuove piattaforme tecnologiche. In particolare, nel 2007 sono state eseguite, in 24 laboratori, 1.443 diagnosi postnatali e ben 393 diagnosi prenatali citogenetiche basate su array-CGH (analisi genomiche ad alta risoluzione). E’ rilevante, soprattutto, il dato relativo all’uso di queste tecniche nella diagnosi prenatale, dato che al momento mancano linee-guida di riferimento e, per le caratteristiche intrinseche di questi test che analizzano variazioni spesso comuni del genoma, esse richiedono estrema prudenza interpretativa, dato che molte variazioni evidenziate non si associano a quadri clinici patologici. La popolarità che stanno assumendo questi test sottolinea l’eccessiva disinvoltura con la quale la traslazionalità tecnologica invade il mercato della salute, raccomanda l’avvio di studi dedicati da parte delle Società Scientifiche e sottolinea la necessità di una maggiore vigilanza da parte degli organi di controllo.
Il numero complessivo delle Consulenze Genetiche registrate nel 2007 resta basso, in rapporto alla numerosità dell’attività diagnostica di laboratorio. Solo 11,5% delle analisi cromosomiche e 13,5% di quelle di genetica molecolare sono state accompagnate dalla Consulenza Genetica. Si tratta di una percentuale pressoché invariata rispetto a quella del precedente Censimento, che evidenzia come le raccomandazioni contenute nelle linee-guida nazionali e internazionali restino ancora largamente disattese nel nostro Paese.
I risultati acquisiti attraverso il Censimento 2007 consentono di formulare alcune considerazioni conclusive:
– tutte le attività delle Strutture di Genetica Medica denotano un significativo gradiente in riduzione a partire dalla regioni del Nord verso il Sud e le Isole;
– l’aumento temporale del numero dei test genetici è relativamente contenuto, rispetto al trend registrato in altri Paesi;
– il numero dei (strutture) laboratori diagnostici è in continuo ingiustificato aumento e il loro numero complessivo (388) non ha un corrispettivo in nessun altro Paese che abbia una popolazione sovrapponibile a quella italiana; la necessità di razionalizzare i costi delle diagnosi e di elevare la loro qualità richiede una seria riflessione sulla riorganizzazione di questa rete diagnostica;
– il numero delle strutture certificate/accreditate con un sistema ISO (circa 40%) è basso, al pari del numero delle strutture che partecipano ai programmi per il controllo esterno della qualità;
– la diagnosi prenatale basata sulle tecniche invasive (amniocentesi, villocentesi, cordocentesi) ha raggiunto un plateau nel nostro Paese, con oltre una gravidanza ogni 5 mediamente monitorata;
– l’analisi di 10 geni occupa oltre i 2/3 di tutta l’attività dei test di genetica molecolare; questo dato invita ad una seria riflessione sulla necessità di riorganizzare e coordinare i servizi;
– l’analisi molecolare dei geni che conferiscono suscettibilità alle malattie complesse (e che in molti casi hanno una scarsa/assente rilevanza clinica), ha ancora nel nostro Paese una limitata rilevanza, rispetto a quanto si sta verificando in altre parti del mondo, soprattutto oltre oceano;
– l’uso di nuove piattaforme tecnologiche ad alta risoluzione (alcuni arrays), che già hanno invaso il delicato campo della diagnosi prenatale, merita particolare attenzione e raccomanda l’impegno delle Società Scientifiche allo sviluppo di linee-guida condivise e degli organi di controllo a vigilare sulla razionalità e sulla affidabilità del loro uso;
– l’appropriatezza dei test, valutata attraverso lo studio di 6 malattie, documenta una preoccupante bassa capacità del medico ad orientarsi nella diagnosi clinica di alcune malattie genetiche relativamente comuni;
– è molto basso il ricorso alla consulenza genetica collegata ai test genetici (<13%), in disaccordo con le raccomandazioni che emergono dalle linee-guida nazionali (Conferenza Stato-Regioni, 15 luglio 2004) e internazionali (OCSE, 2007).
Prof. Bruno Dallapiccola
Ordinario di Genetica Medica, Università la Sapienza, Istituto CSS-Mendel, Viale Regina Margherita, 261 – 00198 Roma – Tel 06-44160573, Fax 06-44160548, dallapiccola@css-mendel.it
La diffusione del Cytotec pone tanti inquietanti interrogativi
“L’ALTRO” ABORTO CLANDESTINO
QUELLO CON LE COMPRESSE ANTIULCERA
di Bruno Mozzanega *
Il Cytotec (misoprostolo) è un farmaco per la terapia dell’ulcera gastrica, ma viene usato in tutto il mondo per indurre l’aborto grazie alla sua capacità di provocare le contrazioni uterine.
Il Cytotec è già usato nei protocolli di Ivg farmacologica in associazione alla RU-486, ma induce l’aborto anche da solo. E’ inoltre disponibile nelle farmacie dietro presentazione di ricetta medica non ripetibile.
Ad usarlo per l’aborto clandestino sembrano essere le straniere, ma stupirebbe che il “mercato” italiano ignorasse un metodo così “sicuro” sia per la donna che per il medico.
I dati scientifici sono concordi: il sito della Fda (http://www.fda.gov ) ne descrive gli effetti abortivi prima ancora di quelli terapeutici e Pub Med, rassegna delle maggiori riviste internazionali (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed ), segnala 330 articoli sul tema “Misoprostol and first trimester abortion” e 233 su “Misoprostol and second trimester abortion”. Ne emerge un’efficacia superiore al 90% nei primi tre mesi e del 70-80% fino al sesto mese di gravidanza.
La divulgazione del metodo in rete è ampia: siti stranieri spiegano come procurarsi e usare il farmaco (http://www.womenonwaves.org/set-274-en.html ), ma altrettanto esplicito è il sito dei radicali italiani (http://www.lucacoscioni.it/cytotec_legittima_difesa ).
Nel Congresso del 2006 a Roma (www.fiapac.org ), la Federazione internazionale operatori di aborto e contraccezione ha definito il Cytotec “farmaco salvavita” data la sicurezza per la salute della donna. I delegati italiani erano un migliaio: una rete capillare di operatori in grado di usare il farmaco per indurre l’aborto.
Solo pazienti straniere, però, ne ammettono l’uso. Lasciate sole con la raccomandazione di espletare l’aborto a casa e prive di medici “di fiducia” collegati al Servizio sanitario nazionale, in caso di complicanze si rivolgono all’ospedale e rivelano l’assunzione del Cytotec.
E le italiane? E’ improbabile che il medico italiano che pratica l’aborto clandestino ricorra ancora alla tecnica chirurgica che richiede un coinvolgimento diretto, lascia tracce e lo espone al rischio di denuncia, quando invece dispone di metodi che lo tengono al di fuori di tutto.
Gli aborti clandestini – è bene ricordarlo – sono ancora una realtà quantificata in 20mila casi all’anno; ad essi si aggiungono 73mila aborti spontanei, aumentati, rispetto al 1982, di 17mila casi all’anno (Istat, 2008): un incremento medio del 30% che però nelle minorenni sfiora il 70%.
Se questo surplus di aborti spontanei rappresentasse anche solo in parte gli insuccessi (5-10%) del Cytotec ne emergerebbe un sommerso di aborto illegale di dimensioni inimmaginabili a carico soprattutto delle giovanissime, le stesse che già abusano della “pillola del giorno dopo”.
Per ricorrere all’aborto farmacologico clandestino la donna deve trovare un medico “di fiducia” e certamente esiste in Italia una rete di sanitari in grado di assisterla. Dopo la diagnosi di gravidanza, che è un fatto privato grazie ai test reperibili in farmacia, la donna si rivolge al medico prescelto; un’ecografia confermerà la presenza di un embrione vivo. L’utilizzo del Cytotec sarà autogestito: 4 compresse inserite profondamente in vagina più eventualmente altre 4 il giorno successivo. Il farmaco si ottiene con facilità: ogni medico può prescriverlo, o acquistarlo da sé e fornirlo; una confezione contiene 50 compresse.
Se tutto procederà senza complicanze, il medico resterà disponibile e alla fine, con un’ecografia, accerterà l’assenza di materiale in utero. Di questa gravidanza non resterà traccia. Esce da ogni contabilità. E’ quanto succede in oltre il 90% dei casi.
Nel caso di complicanze, la paziente sarà ricoverata per “aborto spontaneo” e sottoposta a revisione della cavità uterina. La donna italiana, attentamente seguita, non ha motivo di rivelare l’assunzione del farmaco.
I quesiti aperti però sono inquietanti. Il Cytotec è disponibile nelle farmacie. I medici abortisti tacciono: nessuna opposizione ad un aborto ormai libero, autogestito e sicuro. Ma il nostro mondo, che si oppone ad una RU-486 che ancora non c’è (ma se introdotta sarà di esclusivo uso ospedaliero) non può tacere sul Cytotec che è da anni nelle farmacie.
*Dipartimento di Scienze Ginecologiche e della Riproduzione Umana – Università di Padova
Laici e cattolici insorgono contro il medico dell’eutanasia neonatale
DIETRO QUEL NO A VERHAGEN
IL SEGNO DI UN’ITALIA MIGLIORE
di Carlo Valerio Bellieni *
Si è svolto il 30 e il 31 ottobre all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze il convegno “Le sfide della neonatologia alla bioetica”. L’iniziativa e’ stata organizzata per sottolineare ‘le buone ragioni della Carta di Firenze’, documento nel quale dal 2006 alcuni neonatologi italiani intendevano individuare linee teoriche di non intervento per i bambini estremamente prematuri, ad alto rischio di morte o di disabilità. Ricorderemo questo convegno per la presenza di Eduard Verhagen, ideatore del Protocollo di Groningen sull’eutanasia neonatale e di una relazione dal titolo “Il neonato è una persona?”.
Ci ha fatto piacere che – finalmente – da parte dei media – la Carta di Firenze sia stata correttamente presentata come “documento di alcuni neonatologi italiani”, mentre anni prima era passato come un documento delle Società scientifiche italiane. In margine al convegno e alle polemiche che ne sono seguite, con interrogazioni parlamentari, e articoli di stampa, pensiamo opportuno sottolineare alcuni punti che mostrano una sorta di vera e propria rivoluzione generazionale.
Infatti, anni fa questo tipo di riunioni non avrebbe fatto altrettanto scalpore, portando come invece ora è successo a dissociazioni e forti critiche. L’Italia evidentemente è cambiata e il lavoro di questi anni ha favorito questo processo. Oggi non è più accettabile che si metta in discussione l’essere persona del neonato: anni di lavoro hanno portato a prese di posizione del Comitato nazionale di bioetica, del Consiglio superiore di sanità, di decine di ginecologi e neonatologi, con il risultato che finalmente si sta invertendo la tendenza ad erodere il “diritto di cittadinanza” per qualcuno, che caratterizzava gli ultimi anni. Già: perché per un fenomeno che possiamo definire postmoderno, si sta andando verso un’elargizione di un numero sempre maggiore di supposti diritti di cui faremmo pacificamente a meno (es. droga, eutanasia, aborto) ma avendo un numero sempre minore di individui che sono riconosciuti tali e che dunque ne possono usufruire. Si è infatti iniziato col non riconoscere come persona il bambino non ancora nato, e si è passati a non riconoscere tale il neonato, e ora si discute se anche il grave disabile mentale lo sia, prospettando un allargamento progressivo della sfera dei non-persona.
Eppure qualche cosa sta cambiando. Vediamo di capire cosa.
In primo luogo finalmente non sono stati i movimenti pro-life o la Chiesa a doversi giustificare e scusare, ma è toccato a tanti prendere le distanze dalle conclusioni e dagli invitati al convegno. Corsi questi ultimi, affannosamente, ai ripari. Non era mai successo. E sono stati i giornali laici (vedi “Repubblica”) che sono insorti indignati. In fondo, se si facesse un convegno con un intervento dal titolo “Gli indios sono persone?” (questo per non citare altre etnie violentate nei secoli) succederebbe giustamente il finimondo, mentre ci si sente autorizzati a farne uno in cui ci si domanda se “il neonato è persona?”; e fortunatamente la risposta non si è fatta attendere. Ora ci aspettiamo la ovvia conseguenza: tanti bambini non ancora nati (quelli chiamati con l’orrendo e stigmatizzante termine di “feti”) sono addirittura più sviluppati e maturi dei prematuri cui è stato finalmente riconosciuto il diritto di cittadinanza: vogliamo trarre le conseguenze anche per loro o pensiamo che magicamente l’aria che entra nei polmoni li trasformi da “cose” in “persone”?
Il secondo punto nuovo è stata la voce dei malati e dei loro familiari che si è fatta sentire. Purtroppo è stata una voce in sordina, ancora ovattata, timorosa per gli anni di violenta discriminazione cui i disabili sono stati fatti oggetto e ovviamente censurata, senza respiro sulle pagine dei giornali, mentre si parlava in fondo proprio di loro. Ma, se andiamo al portale www.superando.it, per esempio, troviamo esempi di genitori feriti nel sentimento sacro di sentir trattare il proprio figlio da non-persona, di sentir parlare del malato con spina bifida come candidato all’eutanasia. Ricordiamo il sorgere dei “Collectifs contre l’handiphobie”, cioè di comitati di disabili contro la discriminazione, in Francia nel 2000 all’indomani del “decreto Perruche” che sosteneva l’introduzione nella legislazione del concetto di “vita non degna di essere vissuta”. La voce dei disabili, considerati dai media solo quando diventano ”casi pietosi”, è in prospettiva la grande novità e non possiamo non far di tutto per appoggiarla.
Insomma, l’Italia sta cambiando, in meglio; ed è un incitamento ad andare avanti non solo nella difesa di valori fondamentali, ma soprattutto della ragione che impone di riconoscere nell’essere umano, soprattutto in quello malato o discriminato, una persona alla pari degli altri.
*Neonatologo, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita, membro del Consiglio Esecutivo di Scienza & Vita
Bari, iniziativa del Dipartimento materno-infantile del "Di Venere"
DONARE IL SANGUE DEL CORDONE OMBELICALE
IN PUGLIA QUALCOSA SI MUOVE
A Bari nel Palazzo della Provincia nei giorni 27 e 28 novembre si terrà un corso sulla donazione del sangue del cordone ombelicale a cura del Dipartimento materno-infantile dell’ospedale “Di Venere”.
Ancora una volta il Dipartimento si fa propulsore di tematiche socio-culturali in area sanitaria, per il conseguimento dell’efficacia, dell’efficienza e dell’appropriatezza dell’assistenza, con corretti comportamenti etici, che sottendono l’esigenza di un sempre maggiore rispetto dell’uomo bisognoso di cure, per il riconoscimento e la promozione della sua dignità e dei suoi diritti.
Come? Con un Progetto formativo aziendale rivolto agli operatori sanitari, secondo il dettato normativo regionale, e ai cittadini, alle istituzioni, agli organismi pubblici e privati. Il messaggio che scaturisce dall’intero Progetto è “con una nuova vita nasce anche una possibilità di cura”.
E proprio con questo messaggio il Progetto formativo aziendale intende richiamare l’attenzione e nel contempo sottolineare l’importanza di donare il sangue del cordone ombelicale, poiché in esso sono contenute cellule staminali in grado di generare globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, utili a curare malattie del sangue e del sistema immunitario, ma anche a rigenerare tessuti umani compatibili e a riparare consistenti guasti e patologie.
Le potenzialità sono enormi e la ricerca si orienta sempre verso spazi innovativi e da essi discenderanno nuovi protocolli terapeutici di salvezza per nuove malattie del bambino e dell’adulto.
Nella stragrande maggioranza dei casi, mancando un’adeguata sensibilizzazione alla donazione, questo sangue non viene utilizzato ma addirittura gettato via, scartato assieme alla placenta dopo il parto. Basta però una scelta della donna, maturata durante la gravidanza, per fare in modo che venga raccolto e destinato al trapianto in persone ammalate, in particolare bambini.
Nel caso di donazione solidale il Servizio sanitario regionale se ne fa carico, senza alcun onere per la donatrice, e garantisce la qualità di tutte le procedure connesse alla donazione, alla conservazione e alla distribuzione del sangue cordonale. Le sacche di sangue cordonale, dopo essere state analizzate, vengono tipizzate per stabilirne le compatibilità con eventuali destinatari del trapianto e conservate nella “Banca regionale del sangue cordonale” che ha sede nell’ospedale “Casa Sollievo della Sofferenza” di San Giovanni Rotondo, che provvede poi alla loro distribuzione secondo precisi protocolli internazionali clinici e organizzativi. E’ importante sottolineare che la donazione non comporta alcun rischio né per le mamme né per i neonati.
Ecco l’opportunità di questo evento scientifico che parla anche il linguaggio della gente comune per fare in-formazione alla comunità sociale, per rispondere alle molteplici domande che un tale gesto suscita, per favorire la promozione socio-culturale della donazione del sangue del cordone ombelicale, e per far sì che le future mamme abbiano le informazioni necessarie per fare una scelta serena e consapevole sapendo che con il loro gesto gratuito e generoso offrono una possibilità di cura ad altre persone.
__________________________________________________
Per ottenere ulteriori informazioni sulla propria scelta di donare, rivolgersi al ginecologo di fiducia oppure contattare:
ASL BA – Ospedale “Di Venere” – Dipartimento Materno-Infantile
Centro Raccolta Sangue Cordone Ombelicale (C.Ra.S.C.O.)
Responsabile Dr. Gennaro Volpe
tel. 080.5015333 e-mail
Scelte e contraddizioni nella produzione seriale. Il caso “Dawson’s creek”
NEI TEEN DRAMA ANGLOSASSONI
SDOGANATA LA “BUONA MORTE”
di Daniela Delle Foglie
Che la serialità americana non si risparmiasse nell’affrontare i grandi temi etici, dalla vita alla morte, non è certo una novità. Il lido privilegiato per disquisizioni televisive bioetiche è però sempre stato rappresentato dai “medical drama”, che attraverso i diversi casi clinici proponevano, e tutt’oggi propongono, spunti di riflessione rivolti a un pubblico adulto e maturo. Non è quindi inusuale assistere, in tv show del calibro di House, ER, Grey’s Anatomy, giusto a volerne citare i più noti, a toccanti storie colme di dilemmi morali e scelte difficili.
Il telefilm che ha rivoluzionato il modo di parlare ai giovani attraverso la narrativa seriale, si è sempre distinto per una volontà coraggiosa di affrontare insieme al pubblico temi scottanti e difficili: aborto, problemi coniugali, omosessualità, fino appunto alla scelta dell’eutanasia.
Il serial, creato da Kevin Williamson, che ha accompagnato la crescita dei teen ager di tutto il mondo dal 1998 al 2003, raccontando le vicende di un gruppo di ragazzi della provincia americana dell’East coast, ha iniziato subito, dalla prima stagione, ad accennare il dibattito sulla scelta di porre fine all’esistenza di un malato terminale. Questione delicata che poi sarebbe stata ampiamente ripresa, con maggior approfondimento nel quarto ciclo di episodi.
Nella settima puntata (“Convivenza forzata”) della prima stagione i quattro protagonisti si ritrovano tutti insieme a passare un sabato pomeriggio a scuola, in punizione, tutti per diversi episodi di “cattiva condotta”. E’ però la biondina Jen, newyorkese cresciuta in fretta, che viene punita a causa di una discussione avuta con il suo professore, che aveva assegnato, come compito a casa, la lettura di un articolo sull’eutanasia che sarebbe poi stato commentato in classe. “Se un medico può aiutare qualcuno a morire con dignità, è pazzesco arrestarlo” afferma la giovane, che riversa la sofferenza causata dalla vicinanza del nonno malato terminale in quello scontro dialettico. L’ autoritario professore, poco aperto al dialogo così risponde: “Morire con dignità? Non è un eufemismo per omicidio o suicidio?”. La discussione si riscalda e quando il docente afferma a gran voce che la vita è un dono di Dio, la giovane conclude con parole scurrili affermando che la vita è tutt’altro che un dono per chi giace sul letto di morte. Mentre tutto ciò causa all’anima ribelle della serie la severa punizione, al pubblico di teen ager viene offerto tra le righe uno spunto di riflessione importante.
Se la tematica della “buona morte” nella prima serie sfiora un personaggio secondario, nella quarta stagione è Dawson, il protagonista, ad aver a che fare con la scelta più difficile di tutte, in un età in cui anche le scelte più semplici sembrano insormontabili.
Nell’episodio “La decisione di Joey”, Dawson, aspirante regista, accanito fan di Spielberg, si trova suo malgrado ad esser tutore del signor Brooks: un anziano ex regista di Hollywood, diventato in pochi mesi suo mentore e amico fedele. L’anziano malato, senza famiglia, aveva fatto firmare al ragazzo, una delega per la sua assistenza che sarebbe servita all’acquisto dei medicinali per suo conto, un documento che però, secondo le leggi dello stato del Massachussetts, a condizioni di salute aggravate, aveva reso il giovane amico suo tutore effettivo.
Se i genitori del ragazzo reagiranno male all’assurda responsabilità piombata sul loro figlio, sarà anche la nonna (donna di stampo cristiano) della newyorkese Jen, vicina all’anziano, a seguire Dawson nel processo decisionale.
“Come faccio a sapere cosa è meglio?” chiede il ragazzo. Il padre risponde “Non lo puoi sapere figliolo. Non è quel tipo di scelta”.
Quando però un vecchio signore si presenta all’ospedale per dare l’ultimo saluto al suo migliore amico di una vita (sebbene l’amore per la stessa donna li avesse separati), Dawson capisce che il tempo del signor Brooks è giunto a termine: aveva aspettato di dire addio al compagno di gioie e dolori, poteva morire in pace.
Dawson sceglie la “buona morte” per il suo mentore e fa staccare la spina.
Quando l’amico dell’anziano malato gli aveva detto che in situazioni come la scelta tra il mantenimento in vita e la morte, tutto ciò che serviva fosse un po’ di fede, Dawson aveva esclamato di non averne, di non sapere neanche cosa fosse. “Fede è credere in qualcosa quando il buon senso ti dice di non crederci” citando Miracolo nella 34th strada l’anziano aveva ricordato al ragazzo che il loro comune amico era solito pensare che le migliori risposte alle domande della vita fossero nei film, cosa che lo stesso ragazzo aveva sempre sostenuto. Il vecchio e il giovane, due anime affini.
Quale messaggio emerge da questa succinta narrazione? Innanzitutto che temi così complessi e delicati pervadano ampi settori della produzione seriale americana. E poiché quello che accade negli States prima o poi arriva anche in Europa, è altamente probabile un riallineamento contenutistico nella produzione di fiction anche nel Vecchio Continente e in Italia in particolare.
In secondo luogo appare sempre più evidente che le domande dei teen ager sulla vita troveranno sempre più risposta nella serie tv prodotte nel mondo anglosassone e protestante molto più orientato ad intervenire drasticamente sul fine vita di quanto non sia nei Paesi di cultura “cattolica”. Un problema in più, non solo per le tv di casa nostra, ma anche per quanti hanno a cuore un approccio più responsabile al fine vita, improntato al cosiddetto “favor vitae”.
Piero Damosso e Francesca Giordano raccontano una storia esemplare
DANIELA ZANETTA, ALLE RADICI
DELLA VITA DI UN “EROE CIVILE”
di Emanuela Vinai
In questi giorni qualcuno si è affrettato a definire Beppino Englaro un “eroe civile”. La battaglia che ha portato avanti in questi anni per consentire la morte della figlia Eluana, lo rendono un’icona ideale per le prime pagine dei giornali. Con il massimo rispetto possibile per il dolore di quest’uomo, troppo solo nel portare un fardello così gravoso, credo si possa affermare che i veri eroi siano altri. Gli “eroi civili” sono coloro che con dignità e silenzio, portano la loro sofferenza non come una bandiera, ma come una forma di servizio verso gli altri. Sono molti, per lo più nascosti, sorretti dall’amore delle famiglie e dal sostegno dell’amicizia.
Appena nata, Daniela mostra i segni di una malattia grave, devastante, che le segnerà il corpo negli anni a venire: l’epidermolisi bollosa. Una malattia rara e con prognosi infausta, estremamente invalidante e dolorosa, che coinvolge tutte le mucose e causa ulcere e lacerazioni della pelle. I medici, convinti che abbia appena qualche giorno di vita davanti a sé, la mettono in quarantena insieme alla madre. Ma, contro ogni evidenza medica, la bambina sopravvive e la notte di Natale, dieci giorni dopo la sua nascita, si attacca al seno materno e succhia il latte per la prima volta. E’ il primo segno di una tenace volontà che, unita alla fede e all’amore della sua famiglia, l’accompagnerà per tutta la vita. Gli autori, Piero Damosso e Francesca Giordano, raccontano con delicatezza e partecipazione la biografia di questa ragazza straordinaria, nella sua semplicità, senza mai indulgere né al pietismo, né all’agiografia.
Daniela cresce consapevole che la sua vita non sarà mai uguale a quella dei suoi coetanei (quante cose può insegnare la lettura dei capitoli sull’accettazione del “diverso” da parte dei suoi compagni di classe) e non per questo lei fa del suo handicap un motivo di compassione. Strenuamente difende il suo essere se stessa e il suo crescere ragazza tra i ragazzi, non volendo essere considerata semplicemente una “malata tra i sani”.
Un puntello importante, abbiamo detto, oltre che dalla sua bella e unita famiglia, Daniela lo riceve dalla fede. Una fede che si sviluppa negli anni, che si disvela nel “dire sì” alla sofferenza e nel mettersi quotidianamente al servizio degli altri, che affronta anche gli inevitabili momenti di dubbio che non mancano neppure ai grandi mistici.
Questo non è un romanzo a lieto fine, nel senso stretto del termine, ma non si può nemmeno negare che un lieto fine vi sia. Daniela muore alle 20,10 del 14 aprile 1986, a 24 anni, ma la narrazione, invece di interrompersi, continua nel racconto dei frutti del passaggio nel mondo di questa ragazza così intensa: l’associazione che la ricorda, i progressi della ricerca, le testimonianze di coloro che sono stati trasformati dall’incontro con lei.
“Salto verso l’alto. Ritratto di Daniela Zanetta”, Piero Damosso e Francesca Giordano, Ed. Città Nuova, 2008