In un laboratorio statunitense, alcuni topi geneticamente modificati hanno iniziato a sviluppare un’insolita e folta pelliccia. Non si tratta di un semplice esperimento di genetica (pubblicato come “preprint” sulla piattaforma bioRxiv), ma di uno dei primi passi verso uno dei progetti più ambiziosi e controversi della scienza contemporanea: il ritorno del mammut lanoso, scomparso migliaia di anni fa. I geni responsabili del pelo folto, recuperati dal DNA di mammut conservati nel permafrost, sono stati inseriti nel genoma di alcuni roditori, per testarne la funzionalità. È solo una piccola anticipazione di ciò che Colossal Biosciences, la società americana pioniera nella cosiddetta “de-estinzione”, spera di ottenere nei prossimi anni: un vero e proprio ibrido tra elefante asiatico e mammut, capace di sopravvivere nelle distese artiche.
Il passo pesante di questi grandi erbivori contribuirebbe, infatti, a compattare la neve, facilitando la penetrazione del freddo nel suolo e favorendo la crescita di praterie artiche, con effetti potenzialmente positivi sul bilancio climatico globale.
Eppure, dietro questa narrazione che intreccia biotecnologia e conservazione, emergono enormi interrogativi etici. E non si tratta solo di benessere animale, benché anche questo aspetto sia tutt’altro che secondario: l’idea di utilizzare elefanti asiatici, specie già in pericolo, come madri surrogate per portare a termine gravidanze sperimentali, solleva serie obiezioni. Il tasso di fallimento di questi esperimenti è altissimo, con aborti, malformazioni e sofferenze fisiche e psicologiche per gli animali coinvolti.
Ma le implicazioni più profonde riguardano proprio noi esseri umani, la nostra relazione con la natura e la nostra visione del progresso scientifico. In primo luogo, c’è il rischio di una pericolosa illusione di onnipotenza. La de-estinzione si inserisce in una visione tecnocratica in cui l’uomo, armato di tecnologie avanzate, si arroga il diritto di riscrivere la storia naturale, manipolando la vita a proprio piacimento. Si tratta di una “hybris tecnologica”, un atto di arroganza in cui la complessità della biosfera viene ridotta a un semplice “problema ingegneristico”, risolvibile con un po’ di editing genetico e investimenti miliardari.
Questa mentalità rischia di ridurre la biodiversità a un catalogo di risorse manipolabili, dove ogni specie diventa potenzialmente un prodotto brevettato, un organismo che può essere ricreato, alterato e persino commercializzato. Il mammut ibrido diventa così un artefatto biotecnologico, non un individuo con un valore intrinseco, ma un simbolo della capacità umana di piegare la vita a fini economici e mediatici. Questa logica potrebbe estendersi, un domani, anche all’uomo stesso, aprendo scenari inquietanti di “bioprogettazione umana”, dove la selezione genetica non serve più solo a prevenire malattie, ma a creare individui su misura.
Un altro aspetto etico riguarda la nostra memoria collettiva. Riportare in vita specie estinte rischia di alterare la nostra percezione storica della “responsabilità ecologica”. Se la tecnologia ci permette di correggere l’estinzione, potrebbe diffondersi l’idea che non sia poi così grave distruggere habitat e portare specie sull’orlo della scomparsa, tanto poi potremo rimediare con la genetica. Questa mentalità rischia di svuotare di significato la conservazione preventiva, sostituendola con una visione tecnofila e consolatoria in cui la scienza aggiusta tutto. Il ritorno del mammut diventa così una sorta di “revisionismo ambientale”, che riscrive la storia della vita come una successione di errori umani sempre riparabili.
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ultimo aggiornamento il 7 Marzo 2025