S&V | LA RICHIESTA DI SUICIDIO ASSISTITO DA PARTE DEI DETENUTI. LA CARCERAZIONE A VITA È SOFFERENZA INSOPPORTABILE GLI APPROFONDIMENTI DI SCIENZA & VITA | FRANCESCA PIERGENTILI

facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Bioethics affronta il tema del suicidio assistito per detenuti in Svizzera. Lo studio afferma che mentre le questioni etiche e giuridiche sul suicidio medicalmente assistito e sull’eutanasia sono state ampiamente discusse nel dibattito scientifico, sarebbe, invece, scarsa l’attenzione rivolta al problema dei detenuti che richiedono di poter accedere alla cd. “morte volontaria assistita” a causa della sofferenza insopportabile dovuta dalla carcerazione a vita.

Il tema, in realtà, non è nuovo. Nel 2015 un detenuto 52enne belga, Frank Van Den Bleeken, richiese di poter accedere al suicidio assistito, dopo 30 anni di reclusione a Bruges, dal momento che l’istituto dove era detenuto aveva negato la possibilità di trasferirlo in Olanda in un penitenziario che avrebbe potuto fornirgli le cure psichiatriche dallo stesso richieste.

Il caso aprì un dibattito sulla opportunità o meno di consentire ai detenuti di accedere alle procedure eutanasiche. Le autorità del Belgio inizialmente rifiutarono tale richiesta; in un secondo momento accordarono quanto chiesto dal momento che l’uomo risultava affetto da disturbi psichiatrici, afflitto da sofferenze insopportabili dovute alla condizione di carcerato e alla coscienza di non poter essere curato. Il Ministro della giustizia del Belgio fece però sapere che la richiesta eutanasica non sarebbe stata accordata.

Nel 2018 una istanza simile venne avanzata da un detenuto svizzero che presentò la richiesta di morte alla clinica EXIT, motivando la propria decisione sull’essere affetto da una malattia polmonare incurabile e da una malattia mentale. Il detenuto sosteneva che il negargli la morte sarebbe stato equivalente al praticargli una tortura psicologica. Anche in questo caso le autorità giudiziarie competenti affermarono l’assenza di una normativa in merito alla richiesta di morte dei detenuti e negarono l’accesso alla procedura: venne, in quel caso, affermato che la richiesta di morte del detenuto non poteva essere una forma di evasione dalla pena detentiva.

Anche in Italia, nel 2017, un ampio numero di ergastolani di diverse carceri d’Italia si è rivolto con una lettera al Garante Nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale per annunciare la decisione di avviare una proposta di legge popolare per permettere a chi sta scontando la pena dell’ergastolo, e in particolare dell’ergastolo ostativo, di ricorrere all’eutanasia[1].

Nell’articolo pubblicato su Bioethics si evidenzia come il problema stia oggi riemergendo dal momento che la popolazione carceraria sta invecchiando costantemente, rendendo la morte in carcere una realtà sempre più concreta che legislatori, politici e bioeticisti dovrebbero affrontare.

Ma quali sono le principali problematiche sollevate dalla richiesta di morte dei detenuti?

In primo luogo, nello studio si sottolinea che la condizione di carcerazione può influire sull’autonomia dei richiedenti: la decisione di porre fine alla propria vita potrebbe non essere affatto libera ma compromessa, almeno nei casi in cui la sofferenza insopportabile è direttamente causata dall’incarcerazione.  Altra preoccupazione riguarda il pericolo di reintrodurre, per tale via, la pena di morte “sotto mentite spoglie”. Infine, si evidenzia quanto già espresso dalle Autorità giudiziarie svizzere e cioè che la procedura eutanasica possa essere considerata “una forma di evasione” dalla pena che il richiedente sta scontando.

Tra le motivazioni, invece, per concedere ai detenuti l’accesso al suicidio assistito si rileva il principio “di equivalenza delle cure” (“principle of equivalence of care”): le autorità carcerarie dovrebbero fornire lo stesso livello di “assistenza sanitaria” fornito alla popolazione in generale.

Nell’articolo si afferma che i detenuti sono tenuti in carcere dallo Stato e che quest’ultimo avrebbe un obbligo positivo di cura nei loro confronti: il suicidio medicalmente assistito, in quanto forma di assistenza sanitaria, dovrebbe essere consentito anche a loro. In Canada, proprio sulla base di tale ragionamento, e cioè considerando il suicidio assistito una procedura sanitaria, si è riconosciuta tale facoltà ai detenuti. Nello studio l’unica obiezione sollevata rispetto a questo ragionamento è il contesto normativo della Svizzera: la normativa in materia esclude solo la possibilità di suicidio “per motivi egoistici”, consentendolo per ragioni “altruistiche”. Non vi è, allora, in Svizzera alcuna procedura medica e l’accesso non è limitato alle malattie terminali: non si tratta di assistenza sanitaria.

Per l’autore non è, pertanto, possibile far ricorso in Svizzera al principio di equivalenza delle cure, ma sarebbe possibile, invece, concedere l’accesso alla morte volontaria assistita anche ai detenuti, ritenendo il suicidio assistito non tanto un diritto sociale (che impone obblighi allo Stato), quanto piuttosto un diritto di libertà (che impone allo Stato la non ingerenza): il suicidio assistito sarebbe così una libertà di cui dovrebbero godere tutti cittadini svizzeri, anche i detenuti, in virtù della cittadinanza.

Nell’articolo si rifiuta, inoltre, la distinzione tra il detenuto che richiede il suicidio assistito a causa di una malattia terminale, fonte di sofferenza insopportabile, e il detenuto che lo richiede per la sofferenza insopportabile dovuta dalla carcerazione a vita (e non dalla malattia). Per l’autore, pertanto, è indifferente il motivo della sofferenza del detenuto: in presenza della stessa non vi sarebbero ragioni, né sul piano legale né su quello morale, per negare il suo diritto al suicidio assistito.

L’articolo offre l’occasione non solo per evidenziare la necessità di trattare il tema dell’esecuzione penale detentiva, vista la particolare difficoltà – aggravata dalla pandemia – vissuta negli Istituti da parte di chi vi è ristretto e da parte di chi in essi opera, ma anche per ricavare riflessioni ulteriori in tema di fine vita, utili anche per il dibattito sui lavori parlamentari sulla c.d. “morte volontaria medicalmente assistita”.

In particolare, mette in evidenza i rischi nel considerare il suicidio una “procedura medica” e una forma di assistenza sanitaria offerta dal Servizio sanitario nazionale: sarebbe, infatti, configurabile per lo Stato un obbligo di cura e di assistenza – di procurare, cioè, ad altri la morte su richiesta, stravolgendo la missione di cura del servizio sanitario stesso – potenzialmente azionabile da un numero sempre più elevato di soggetti. Il criterio della “sofferenza insopportabile” per l’accesso al suicidio assistito è, infatti, effettivamente in grado di estendersi ad ogni forma di sofferenza umana.

  1. Della Croce, Assisted suicide for prisoners: An ethical and legal analysis from the Swiss context, Bioethics, maggio 2022
  1. Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Nel 2022 un suicidio ogni 3 giorni nelle carceri, Comunicato Stampa, 25.01.2022
  1. Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, È giunto il momento di aprire una discussione senza timori e senza pregiudizi sulla pena perpetua, Comunicato del 12 aprile 2017
  1. Consiglio d’Europa, Anti-torture committee calls for setting a limit to the number of inmates in every prison and promoting non-custodial measures, European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT), 21.4.2022

[1] Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Comunicato del 12 aprile 2017, È giunto il momento di aprire una discussione senza timori e senza pregiudizi sulla pena perpetua

 

image_pdf
facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Pubblicato in Attività & News, News & Press, Uncategorized