BAMBINI

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Definizione
Fase dello sviluppo dell’individuo non ancora autonomo, che segue quella di feto e precede quella di giovane, senza un chiaro confine e senza nessuna sostanziale differenza di stato.

Realismo
La parola bambino è di derivazione onomatopeica da versi labiali tipici dell’età infantile. Il termine inglese child viene dall’old english cild che significa « feto », « infantile », e questo sottolinea la artificiosità della differenziazione tra vita prenatale e postnatale. Per bambino si intende l’essere umano nelle prime fasi dello sviluppo, in particolare tra la nascita e l’adolescenza. Il bambino è sotto la tutela dei genitori o del tutore in assenza dei primi, che dovranno agire esclusivamente nell’interesse del tutelato.

Ragione
Perché ci interroghiamo su « cosa » è il bambino? Perché nella società postmoderna, in cui si divide il genere umano in « persone » e « non persone » a seconda della capacità di autodeterminarsi, il bambino resta fuori del novero delle « persone » finché almeno non assume la capacità di autonomia, dunque perde diritti, perde status sociale rispetto ai decenni precedenti in cui finalmente questi erano stati riconosciuti.
Questo fatto subordina anche i suoi interessi a quelli degli adulti, per esempio nelle scelte sul fine-vita per le quali alcuni filosofi apertamente parlano di fetalizzazione del neonato, cioè di far valere per chi è già nato la subordinazione dei diritti di chi non è ancora nato rispetto a chi è adulto, presente in molte legislazioni.

Definire « persona » solo chi è « autonomo », porta a una interpretazione della società come fatta su misura solo per chi può vantare e avvalersi di un’assenza di vincoli con gli altri, per via dello stato fisico, economico e mentale. La giovinezza viene appunto identificata con l’«autonomia» tanto da indurre chiunque a « travestirsi da giovane » per essere accettato: anziani e bambini sono indotti a tenere comportamenti, atteggiamenti e abbigliamento « da giovane » per non essere emarginati, subordinando le proprie esigenze agli standard esplicitati dai programmi televisivi. Dividere la società in « persone » e « non persone » non risponde al senso comune di giustizia: è giusto subordinare la cittadinanza a ciò che si sa fare, e dividere in categorie gli esseri umani? Come vive il bambino questa perdita di status? Ricevendo una specie di marchio psicologico negativo: è figlio unico, supposto perfetto, ottenuto dopo diagnosi prenatali che lo hanno fatto passare al setaccio, che lo hanno sottoposto al primo esame della vita e questo peserà per sempre perché saprà che è nato/a perché corrispondeva ai desideri dei genitori. È un vigilato speciale che non deve correre nessun rischio, che deve essere tenuto al riparo ossessivo da tutto, e che nemmeno si può sporcare e dunque fare esperienze orali, tattili, gustative; che, in quanto figlio unico, non si può permettere di sapere cosa è un fratello, un cugino, che non vede più allevare i bambini più piccoli (le mamme non ne fanno più e ne parlano con spavento) e dunque non impara ad allevarli quando toccherà a lui/lei. Il bambino è visto solo dal punto di vista degli adulti, che non capiscono che diritto del bambino non è solo quello di avere una scuola dove andare, ma anche di avere una società basata sui suoi ritmi, che non ti lascia tra quattro mura scolastiche per oltre metà della giornata, quando ormoni e olfatto ti porterebbero a correre dietro agli uccellini o ad arrampicarti sugli alberi (uccellini e alberi sono off-limits). Perché nessuno ripensa al fatto che la scuola dovrebbe essere al servizio del bambino e non il contrario? E i bambini soffrono nell’essere soli e sono anche a rischio per questo: è aumentata la paura verso aggressori pedofili dell’infanzia, criminali pericolosi. Questa paura oggi si acuisce perché un tempo c’era un controllo sociale dei bambini: il ragazzino che andava in strada era conosciuto, e se un malintenzionato gli si avvicinava tutti sapevano dove era andato e con chi; oggi con l’idea che la libertà è non farsi gli affari degli altri, i bambini sono sempre più soli e dunque in preda al primo malvagio che passa.

Empatia
Chi capisce meglio cosa e « chi » è un bambino è la sua mamma; e non è un modo di dire, ma è la realtà. Se le leggi sui bambini fossero fatte dalle mamme, quanta attenzione in più avrebbe la politica verso la gravidanza, la scuola, gli asili, l’inquinamento. Perché le mamme sanno capire un bambino e « i bambini ». E le mamme realmente vogliono figli, non vogliono essere relegate al ruolo di sceriffi genetici che fanno la guardia allo spauracchio del tasso di crescita della popolazione: reclamano la rimozione della censura e delle barriere che impediscono alle donne di pensare ai figli come e quando vogliono, e le obbliga a pensare che il figlio è un optional tra gli altri o un lusso che non ci si può permettere.

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