Il Tribunale ordinario di Ancona è intervenuto in tema di suicidio assistito, a seguito del ricorso avverso il diniego dell’ASL di somministrare il farmaco che provoca rapidamente la morte a un uomo tetraplegico a seguito di un incidente stradale.
Il Tribunale ha, in un primo momento, confermato quanto deciso dall’Azienda Sanitaria con il diniego della richiesta, evidenziando una profonda distinzione tra scriminante di un reato e la sussistenza di un diritto: al riconoscimento di un diritto soggettivo del malato al suicidio assistito, sarebbe seguito il riconoscimento di un obbligo per il personale sanitario alla somministrazione del farmaco letale, in grado di causare “la morte rapida, efficace e non dolorosa”.
Anche nella decisione sul reclamo proposto il Tribunale afferma, invero, che non è presente nell’ordinamento un “diritto di poter scegliere quando e come morire”, mancando nell’ordinamento un riconoscimento esplicito a tale diritto: si ricorda, nella motivazione, come anche la Consulta ha affermato che non è presente nella Carta fondamentale un diritto inviolabile di ottenere la morte dallo Stato o da terzi. Il Collegio ricorda, poi, che il riferimento alla somministrazione del farmaco atto a provocare la morte, presente nell’ordinanza n. 208 del 2018, è invece assente nella sentenza n. 242 del 2019.
Il Tribunale nella pronuncia chiarisce che si tratta di stabilire “fino a che punto possa essere valorizzato e garantito il diritto all’autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, nel caso in cui il quadro patologico sia ormai irreversibile” e si chiede se tra le libertà contemplate nel combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione sia desumibile “il diritto alla liberazione dalle sofferenze nel più breve tempo possibile ovvero il diritto a morire rapidamente e con dignità”.
Nell’ordinanza si menziona, inoltre, l’importanza dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente e l’assenza di qualsiasi obbligo di procedere all’aiuto al suicidio da parte del sanitario (in particolare per gli artt. 3, 8 e 17 del Codice Deontologico dei medici). Il riferimento sul punto è anche al documento ufficiale sul suicidio assistito della World Medical Association del 2017, che ha riaffermato che la medicina non è un’attività meramente tecnica e neutrale ma che è una pratica basata su un’etica e una deontologia “che pone al centro la vita, la cura e il prendersi cura del paziente”.
Anche nel giudizio sul reclamo il Tribunale esclude, così, l’esistenza di un diritto soggettivo, azionabile in giudizio, ad essere assistiti nel suicidio, attraverso la prescrizione/somministrazione del farmaco letale. A differenza della prima fase del giudizio, tuttavia, il reclamante ha circoscritto l’oggetto del giudizio: secondo il Collegio ad essere richiesto è il riconoscimento del diritto ad ottenere dalla struttura sanitaria (l’ASL competente) l’accertamento della sussistenza dei requisiti previsti dalla Consulta con la sentenza n. 242, nonché la verifica, attraverso il coinvolgimento del Comitato etico, dell’adeguatezza al caso concreto del farmaco prescelto, per quanto riguarda le quantità e le modalità della somministrazione, per garantire una morte rapida, efficace e non dolorosa (“rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa”).
È su queste due verifiche che il Collegio del Tribunale decide diversamente rispetto alla prima fase, imponendo all’ASL l’accertamento della sussistenza delle condizioni previste dalla Consulta per la non punibilità in caso di aiuto al suicidio e la verifica dell’adeguatezza del farmaco rispetto alla finalità (la morte rapida nel caso concreto).
Nella pronuncia non è riconosciuto il diritto di richiedere il suicidio assistito all’azienda sanitaria, ma certamente la strada intrapresa può portare a una nuova applicazioni, per via giudiziaria, delle statuizioni della Consulta in merito alla non punibilità per il reato di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p., per dare la morte a persone malate che la richiedono.
In Parlamento sono state presentate diverse proposte di legge e alla Camera lo scorso mese è stato presentato un testo base di alcune delle proposte (Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia - C. 2 d’iniziativa popolare, C. 1418 Zan, C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan, C. 1875 Sarli, C. 1888 Alessandro Pagano e C. 2982 Sportiello).
Il testo base prevede la facoltà della “persona affetta da una patologia irreversibile o con prognosi infausta” di richiedere “assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita” (art. 1). Ad essere disciplinata sarebbe la “morte volontaria assistita”.
Per quanto riguarda l’iter, il testo base prevede che sia il medico che riceve la richiesta di morte volontaria a redigere un rapporto sulle condizioni cliniche del richiedente e sulle sue motivazioni da inoltrare al Comitato per l’etica nella clinica territorialmente competente, istituito con regolamento del Ministero della Salute presso le Aziende Sanitarie Territoriali, al fine di garantire la dignità delle persone malate e sostenere gli esercenti le professioni sanitarie nelle scelte sul fine vita
Il Comitato entro sette giorni dal ricevimento della richiesta dovrebbe esprimere un parere motivato sulla esistenza dei presupposti e dei requisiti e trasmetterlo al medico richiedente e alla persona interessata. Il parere favorevole sarà trasmesso dal medico alla Direzione Sanitaria dell’Azienda Sanitaria Territoriale o alla Direzione Sanitaria dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera di riferimento, che dovrà attivare le verifiche necessarie a garantire che il decesso avvenga nel rispetto delle modalità previste dalla legge (nel rispetto della dignità della persona malata, “senza provocare ulteriori sofferenze ed evitando abusi”). Nel testo è assente il riferimento alla libertà e al diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario.
Il testo base oltre a intaccare inevitabilmente alle sue radici l’indisponibilità della vita umana, mina profondamente le relazioni umane e la vicinanza umana, stravolge il rapporto di cura ed accoglie, dandola come dato scontato, un’interpretazione (parziale) della dignità della persona, che “naufraga” nel soggettivismo. Con il riconoscimento del diritto a morire volontariamente e rapidamente attraverso il suicidio assistito, non si tiene conto della persona malata, della sua piena dignità anche nella malattia, e ignorato il reale bisogno di cura di tanti malati oggi, nella pandemia, ancora più isolati e non curati.