Il 9 marzo sono state depositate le motivazioni di due nuove sentenze in materia di procreazione medicalmente assistita, la n. 32 e la n. 33 del 2021, con le quali la Corte ha deciso due diverse questioni di legittimità costituzionale che hanno riguardato la legge n. 40 del 2004, recante Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, dichiarandone l’inammissibilità di entrambe.
In tutti e due i giudizi di legittimità costituzionale ad essere al centro dell’attenzione del Giudice costituzionale è il riconoscimento del c.d. “genitore intenzionale”, soggetto che non ha legami biologici con il bambino ma che ha con lo stesso legami “sociali” avendo partecipato al progetto di procreazione assistita con l’altro genitore. In tutti e due i giudizi la coppia che ha avuto accesso alle tecniche di PMA era formata da persone dello stesso sesso e si era recata all’estero per la procreazione, visto il divieto di accesso alle tecniche per le coppie omosessuali previsto nel nostro Paese dall’art. 5 della l. n. 40 (che indica tra i requisiti di accesso alla PMA quello di essere la coppia formata da soggetti di sesso diverso), confermato anche dalla Consulta nel 2019.
Ad essere differente, nelle vicende alla base del giudizio principale, è il tipo di tecnica di PMA utilizzato: nella prima, la coppia dello stesso sesso femminile ha fatto ricorso a tecniche di tipo eterologo, nella seconda la coppia maschile ha fatto ricorso alla maternità surrogata.
Nel dettaglio, con la prima sentenza, la n. 32 del 2021, la Consulta ha deciso in merito alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova che lamentava un vulnus di tutela nella l. n. 40 per quanto riguarda il mancato riconoscimento del legame del nato attraverso tecniche di fecondazione eterologa con il genitore di intenzione in caso di crisi della coppia: il dubbio di costituzionale riguardava l’art. 8 e l’art. 9 della l. n. 40 e l’art. 250 c.c., in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 117 Cost., là dove, sistematicamente interpretati, “non consentono al nato nell’ambito di un progetto di procreazione medicalmente assistita eterologa, praticata da una coppia di donne, l’attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche della donna che, insieme alla madre biologica, abbia prestato il consenso alla pratica fecondativa, ove non vi siano le condizioni per procedere all’adozione nei casi particolari e sia accertato giudizialmente l’interesse del minore”.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 32 ha ricordato la rilevanza dei diritti del minore e, in particolare, il principio posto a tutela del miglior interesse del minore affermato nell’ambito del diritto internazionale. In particolare, ha fatto riferimento a quanto stabilito nella Dichiarazione delle Nazioni Unire sui diritti del fanciullo del 1959 e, cioè, che “nell’approvazione di leggi e nell’adozione di tutti i provvedimenti che incidano sulla condizione del minore, ai best interests of the child deve attribuirsi rilievo determinante (“paramount consideration”).” Il principio è stato, anche “ribadito nella Convenzione sui diritti del fanciullo, in cui, all’art. 3, paragrafo 1, si fa menzione del rilievo preminente (“primary consideration”) da riservare agli interessi del minore”. Per quanto riguarda il diritto UE, la Corte ricorda l’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che afferma essere “preminente” la considerazione dell’interesse del minore in tutti gli atti che lo riguardano.
La Consulta ha ricordato la centralità dei diritti del minore nelle vicende che lo riguardano e, nel caso di specie, ha posto attenzione alla tutela dell’identità del minore, “quale componente della sua vita privata”, protetta anche dalla Corte Edu. Quest’ultima, come ricorda la Corte, ha difeso in più occasioni la permanenza e la stabilità dei legami che si instaurano tra il bambino e la sua famiglia e ha tutelato il “diritto a beneficiare di relazioni e contatto continuativo con entrambi i genitori”.
Per garantire la stabilità dei legami e la genitorialità “sociale” (e non solo biologica), la Consulta ritiene che andrebbe in qualche modo riconosciuta la relazione di filiazione tra nato e genitore intenzionale anche in caso di crisi della coppia di genitori. Vi sarebbe, pertanto, un vuoto di tutela per il minore nato all’estero attraverso fecondazione eterologa in caso di crisi della coppia. La Corte ha, anche indicato, in via esemplificativa, alcuni ambiti entro i quali “potrebbe svolgersi l’intervento del legislatore per assicurare adeguata tutela ai minori”.
La Consulta non ha, tuttavia, accolto la questione e non è stata dichiarata l’illegittimità della disciplina prevista dalla legge n.40: essa ha dichiarato, infatti, l’inammissibilità della questione in virtù della discrezionalità del Legislatore in una materia caratterizzata da ampia discrezionalità. Solo il Parlamento potrebbe, infatti, colmare un vuoto di tutela, in una materia tra l’altro così delicata ed eticamente sensibile, nel pieno rispetto del suo potere discrezionale.
Con la seconda sentenza, la n. 33 del 2021, la Consulta ha dichiarato l’inammissibilità della questione anche nell’altro giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 99 del 2000. Il giudizio riguardava il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale era accertato il rapporto di filiazione tra un minore, nato all’estero tramite ricorso alla maternità surrogata, e il genitore di intenzione italiano.
La vicenda oggetto del procedimento principale riguardava un bambino nato nel 2015 in Canada da una donna nel cui utero era stato impiantato un embrione formato con i gameti di una donatrice anonima e di un uomo di cittadinanza italiana. Quest’ultimo si era sposato in Canada – con atto trascritto in Italia nel registro delle unioni civili – con un altro uomo, anch’esso cittadino italiano, con il quale aveva condiviso il progetto genitoriale. I due uomini chiedevano il riconoscimento dell’efficacia della sentenza canadese con la quale il bambino era stato iscritto come figlio di entrambi gli uomini nel registro locale dello stato civile.
Al vaglio di costituzionalità era, nello specifico, l’art. 12, comma 6, della legge n. 40, dell’art. 64, comma 1, lettera g), della l. n. 218 del 1995 e dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri (cosiddetta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico».
Le questioni di legittimità riguardano, allora, lo stato civile dei bambini nati attraverso la pratica della maternità surrogata, vietata, come ricorda anche la Consulta, nel nostro ordinamento dall’art. 12, comma 6, della l. n. 40.
Anche in questa diversa questione la Consulta ha posto al centro della sua motivazione la tutela dell’interesse del minore, ritendendo necessario il riconoscimento giuridico del rapporto del minore con entrambi i componenti della coppia che ne ha “programmato” la nascita e che lo ha accudito.
Per la Corte, infatti, “l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita (nel caso oggetto del giudizio a quo, ormai da quasi sei anni) da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata”.
In particolare, la Consulta fa riferimento, anche in questo caso, all’identità del bambino “che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico”: tali legami rilevano per la vita del bambino stesso (“dalla cura della sua salute, alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari”).
Dopo aver ricostruito la giurisprudenza della Corte Edu sul punto, la Consulta ha affermato che “ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata”. Il compito di operare il bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso ala maternità surrogata e la necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori “non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco”.
La Corte ha così anche in questo caso dichiarato inammissibile la questione, per la discrezionalità del Legislatore in materia.
In tutte e due le sentenze sembra avere un ruolo principale l’interesse del bambino e la tutela della sua identità. È però contraddittorio non considerare in tale identità anche il dato biologico e il legame genetico e naturale che viene stravolto con le tecniche di PMA. Per la Consulta il minore ha diritto a veder riconosciuto il legame di filiazione per l’incidenza della stessa sulla costruzione dell’identità personale: una identità che riguarda la sfera affettiva, relazionale e sociale, fondata anche sulla cura ma non sulla biologia!
L’interesse del minore sembra essere così considerato solo dopo alcuni anni dalla nascita in poi, tralasciando il momento della nascita e, nel caso della maternità surrogata, il distacco dalla madre.
Il bambino è, così, considerato mero prodotto di un “progetto” di procreazione al quale partecipano un diverso numero di soggetti: chi con i gameti, chi con l’utero, chi con la volontà!
Sono, infatti, proprio le tecniche di procreazione artificiale a provocare, inevitabilmente, una “frammentazione” delle nozioni tradizionali di «maternità», di «genitorialità» e di «filiazione» e a determinare il vuoto di tutela dei diritti del bambino. Non sembra, allora, possibile considerare e tutelare l’interesse del bambino senza intervenire sulle cause che hanno provocato tale mancanza. Il monito al legislatore di intervenire nella materia non può non riguardare allora proprio la tutela del bambino rispetto a tali pratiche lesive della dignità del nascere dell’essere umano.