UN NUOVO IMPEGNO IN TEMA DI ABORTO – Consiglio Centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani

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Il rinnovato dibattito in merito alla legalizzazione dell’aborto, che sta occupando le pagine dei giornali italiani dall’inizio del nuovo anno, sollecita i Giuristi cattolici italiani a rinnovare le lo-ro riflessioni in materia, peraltro ampiamente esplicitate fin dal lontano 1972, quando l’UGCI dedi-cò il proprio convegno nazionale al tema Difesa del diritto alla nascita. Queste riflessioni vengono qui riassunte nei punti seguenti.

1. L’UGCI è consapevole del fatto che l’aborto è prassi umana tragica e antica, presente in tutte le culture, in genere condannata, spesso ignorata, alcune volte avallata (almeno implicitamente) e solo nella più recente modernità legalmente legittimata, fino al punto da acquisire in alcuni or-dinamenti un presunto rango di diritto insindacabile delle donne. Ancora non abbiamo a dispo-sizione un’adeguata riflessione storica, sociologica e culturale in materia; dai migliori studi fin’ora condotti emerge comunque con chiarezza come la legalizzazione dell’aborto abbia signi-ficativamente alterato il rilievo comunemente attribuito alla difesa della vita umana. Ne è segno, tra tanti altri, il diffuso e freddamente burocratico uso linguistico di chiamare prodotto del con-cepimento la vita umana prenatale e l’eufemistico ricorso all’acronimo IVG (interruzione volon-taria della gravidanza) per alludere all’aborto.

2. L’UGCI è altresì consapevole che nessuna pratica sociale, per quanto estesa nel tempo e nello spazio possa essere, possiede in quanto tale la propria giustificazione (l’esempio più evidente che può farsi al riguardo è quello della guerra, la pratica sociale più diffusa nella storia dell’ umanità e nel medesimo tempo la più crudele e la più aberrante). Di conseguenza, la sistemati-ca presenza dell’aborto nella storia degli uomini non rileva per quel che attiene alla sua valuta-zione morale e giuridica. La pratica dell’aborto chiede quindi di essere valutata indipendente-mente dalle dinamiche sociali che la contraddistinguono, anche se la presa d’atto di tali dinami-che resta comunque indispensabile per valutazioni ulteriori della pratica e in particolare per la sua qualificazione giuridica.

3. In quanto soppressione intenzionale di un essere umano innocente, l’aborto non può evidente-mente avere mai alcuna legittimazione etica. E’ possibile discutere se un c.d. aborto terapeuti-co, posto cioè in essere in situazione di necessità (e l’unica necessità da prendere in considera-zione in questo caso potrebbe essere solo quella di salvare la vita della madre) possa o no essere ritenuto giuridicamente non sanzionabile; resta comunque fermo che neppure alla ipotizzata li-ceità di un aborto terapeutico potrebbe attribuirsi un qualche valore morale intrinseco, mentre, all’opposto, è da ritenere moralmente ammirevole la scelta di una donna che, pur vivendo situa-zioni patologiche, che potrebbero portarla a richiedere un aborto legale, decida di portare co-munque a compimento la gravidanza.
3.1. Primo corollario di quanto sopra affermato è che le motivazioni di carattere strettamente sociale che possono indurre all’aborto (condizioni demografiche, economiche, professiona-li, familiari, di “onore”, e soprattutto di controllo delle nascite ecc.) non possono costituire valida giustificazione dell’aborto stesso.
3.1.1. La pratica dell’aborto come mezzo di controllo delle nascite è formalmente vietata dalla legislazione italiana, ma è purtroppo ampiamente diffusa sia nel nostro paese che nel resto del mondo: in alcuni paesi viene addirittura favorita da ingiustificabili legisla-zioni di contenimento demografico, che giungono perfino a rendere, in alcuni contesti, obbligatoria la pratica stessa. E’ dovere di tutti e dei giuristi in particolare denunciare e condannare simili aberrazioni, che vanno contro il diritto alla vita, il diritto alla salute delle donne, i diritti delle generazioni future e che sono il segno più preoccupante dello smarrimento morale di una umanità che, rifiutandosi alla procreazione, nega, per dir così, il proprio stesso futuro.
3.2. Né a maggior ragione può giustificare l’aborto qualsiasi considerazione eugenetica. E’ particolarmente grave il fatto che si sia consolidata l’ eufemistica espressione aborto tera-peutico per indicare le interruzioni volontarie di gravidanza giustificate dall’interesse di non mettere al mondo bambini gravati da handicap. Questa distorsione linguistica rivela con chiarezza la cattiva coscienza che si nasconde dietro questa pratica. E’ preoccupante rileva-re come le nuove possibilità offerte dalle diagnosi prenatali (peraltro sempre di valore pro-babilistico) non vengano il più delle volte utilizzate per promuovere pratiche di medicina prenatale, ma per favorire pratiche abortive.
3.2.1. E’ peraltro appena il caso di avvertire che nelle situazioni ordinarie del mondo di og-gi sono divenute numericamente irrilevanti, anzi praticamente inesistenti, le situazioni che esigano la pratica degli aborti terapeutici in senso stretto, quelli cioè giustificati dalla necessità di salvare la vita della gestante.

4. Sono essenzialmente due le motivazioni giuridiche che in Italia vengono fornite dell’aborto vo-lontario.
4.1.1. La prima di esse fa riferimento alla necessità di contrastare efficacemente la pratica dell’ aborto clandestino, di alta rischiosità per la salute della donna e ritenuta presso-ché inestirpabile con altri mezzi: una legislazione abortista costituirebbe quindi una saggia scelta per il male minore. Per dare credibilità a questa tesi, sarebbe quanto meno necessario da una parte che la legge prevedesse la liceità dell’aborto solo per situazioni estreme, per le quali il ricorso alla clandestinità della pratica potrebbe in effetti rivelarsi socialmente incontrastabile e dall’ altra che la legge garantisse efficacemente tutti quelle misure sociali e familiari, capaci di prevenire le decisioni abortive, distogliendo le donne dalla loro decisione (ad es.: rigorose garanzie di assistenza sanitaria, efficaci sostegni economici, concreta predisposizione di procedure adottive, forte coinvolgi-mento della figura paterna, in specie quando l’aborto venga invocato facendo riferi-mento a motivazioni economiche).
4.2. La seconda e più consistente motivazione fa riferimento alla pretesa insindacabilità giu-ridica (e ad avviso di molti anche morale) della decisione abortiva, da rispettare come deci-sione personale e individuale della donna. Coloro che condividono questa prospettiva non negano, in genere, che sia assolutamente opportuno attivare politiche sociali che contrastino l’aborto e che favoriscano la maternità, ma nello stesso tempo ritengono ingiusta sul piano teorico e inapplicabile sul piano della prassi sociale una scelta legislativa volta a precludere alla donna la libera scelta di interrompere la gravidanza.
4.2.1. Da una parte si sostiene che il nascituro, ove nascesse un “contrasto di interessi” tra lui e la gestante, non avrebbe titolo a una specifica protezione da parte del diritto: se-condo la semplicistica linea interpretativa fatta propria dalla Corte Costituzionale, sa-rebbe infatti da ritenere prevalente l’interesse a interrompere la gravidanza di chi è già persona (la donna) rispetto all’interesse a nascere di chi persona dovrebbe ancora di-ventare (il nascituro). A questa linea di pensiero si deve obiettare:
4.2.1.1. in primo luogo che va contro il dato scientifico, che non evidenzia alcun sal-to “ontologico”, ma solo una linea di sviluppo biologico tra vita prenatale e vita post-natale, tra il feto e il neonato;
4.2.1.2. in secondo luogo il fatto che essa valuta –contro la verità delle cose- la gravi-danza come esperienza biologica non relazionale, riferibile esclusivamente al vis-suto femminile. Il diritto deve riconoscere la singolarità della situazione esisten-ziale della gravidanza, ma non fino al punto di misconoscere il carattere relazio-nale che la contraddistingue (a diversi livelli: la gestante ha peculiari rapporti re-lazionali che non possono essere né minimizzati né a maggior ragione negati non solo con il bambino, ma con il di lui padre). In quanto custode della relazionalità, e particolarmente dei soggetti relazionalmente deboli (come appunto il nascituro) il diritto non può che ritenere particolarmente fragile questa argomentazione.
4.2.2. Altra argomentazione è quella di chi sostiene che le nuove tecniche abortive (in par-ticolare quelle farmacologiche) renderebbero di fatto impensabile e comunque non produttivo di effetti la pretesa del diritto di sottoporle a un controllo sociale di tipo re-pressivo. Anche dando per ammesso che divengano obsolete le pratiche chirurgiche abortive e ci si avvalga in futuro esclusivamente di sostanza farmacologiche, finalizza-te o a impedire l’impianto dell’embrione in utero e alla sua espulsione dall’utero, resta il fatto che la rischiosità obiettiva dell’uso di tali sostanze per la salute delle donne ne rende inimmaginabile un uso strettamente “privato”, cioè non controllato dal diritto. Tale controllo, ove riconosciuto indispensabile, potrebbe essere configurato come e-sclusivamente tecnico, solo nel caso in cui si fosse previamente reso legale sul piano etico e/o giuridico l’aborto stesso.
Sotto questo profilo appare fondata, e degna di essere sostenuta, l’iniziativa recente di quanti – proprio in Italia – hanno proposto di aggiungere all’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948 (“Ogni individuo ha diritto al-la vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”) la precisazione “dal con-cepimento fino alla morte naturale”, e hanno voluto con questo proporre un testo di cosiddetta “moratoria” delle politiche pubbliche incentivanti l’aborto.

5. Passando a considerare la L. 194/1978, va rilevato che l’art. 1 sostiene enfaticamente che “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana fin dal suo inizio”.
5.1. Per la parte in cui detta legge autorizza le pratiche abortive, appare evidente il suo carat-tere compromissorio: per quel che concerne i primi novanta giorni di gravidanza, essa è stata da una parte redatta formalmente come una legge volta a tutelare la salute fisica o psi-chica della donna (art. 4), ma dall’altra (art. 54) essa consente alla donna di sostituirsi al medico nel diagnosticare il “serio pericolo” per la sua salute fisica o psichica e di ottenere in tal modo l’autorizzazione all’aborto. E’ evidente come in tal modo si sia di fatto svuotata completamente la giustificazione “sanitaria” della pratica abortiva. Per il periodo susse-guente ai primi novanta giorni, la legge (art. 6) prevede che venga accertato a) un grave pe-ricolo per la vita della donna, oppure b) anomalie e malformazioni del nascituro “che de-terminino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”: una condizione, quest’ultima, che ove venisse intesa rigorosamente (cioè per quello che la legge espressa-mente dice) sarebbe da ritenere esistente solo in circostanze assolutamente di eccezione. In-vece, come è ben noto, l’art. 6 della legge viene utilizzato per introdurre surrettiziamente nel nostro ordinamento l’aborto eugenetico.
5.2. E’ invece da rimarcare la parte in cui la legge (art. 73) prevede il dovere di salvare la vita del nascituro, qualora l’aborto venga richiesto quando sussista la possibilità di vita autono-ma del feto. E’ indispensabile che tale norma venga rigorosamente applicata, tenendo in considerazione gli sviluppi più recenti della neonatologia.

6. Dalle considerazioni sopra svolte, l’UGCI trae le seguenti conclusioni:
6.1. una giusta e doverosa tutela delle donne non passa oggi, più che mai, attraverso ulteriori avalli ad una legislazione abortista, ma attraverso l’attivazione di politiche sociali a favore della maternità, politiche che la crisi demografica che il mondo occidentale sta oggi attra-versando rende oltre tutto non solo eticamente, ma anche socialmente opportune e improro-gabili;
6.2. la legalizzazione dell’aborto, ammesso e non concesso che abbia contrastato la depreca-bile pratica dell’ aborto clandestino, non ha certamente costituito un passo avanti nella ma-turazione morale del genere umano, favorendo piuttosto nell’opinione comune un indebo-limento della percezione del valore intrinseco e non funzionale della vita umana, soprattutto se malata;
6.3. l’Unione valuta con apprezzamento il nuovo e vivace dibattito in tema di aborto sorto nel nostro paese, riconoscendo il forte valore etico e simbolico che esso possiede. Non spet-ta all’Unione valutare le concrete possibilità politiche di una revisione della L. 194, ma è suo dovere denunciarne con fermezza i limiti ed auspicare l’attivazione di ogni possibile misura di prevenzione degli aborti eugenetici, selettivi o comunque posti in essere ai fini di controllo delle nascite;
6.4. l’UGCI ritiene di conseguenza doveroso riconoscere che la legge 194/1978 è rimasta purtroppo (e colpevolmente) non applicata per la parte che prevede efficaci forme di soste-gno a decisioni non abortive e che essa è stata interpretata in modo indebitamente estensivo per quel che concerne le cause di richiesta legale di aborto. E’ perciò indifferibile una ap-plicazione dei dispositivi di legge, che renda effettivamente operante quell’equa politica so-ciale a sostegno della maternità, che essa fino ad ora ha invano promesso, non escludendo per altro l’urgenza che sia riconosciuto un giusto spazio alla figura del padre del bambino e che precluda le aberranti interpretazioni che hanno reso possibili pratiche abortive che a norma della legge stessa non avrebbero mai dovuto essere legittimate.
6.5. l’UGCI rileva infatti la colpevole, intenzionale disapplicazione (quando non stravolgi-mento) di quelle parti della legge 194/1978 che – al di là delle affermazioni programmati-che – stabiliscono precise linee di condotta e obblighi a tutela della vita: l’art. 2, che preve-de specifiche funzioni per i consultori famigliari; l’art. 5 che esplicitamente così dispone: “Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accerta-menti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interru-zione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepi-to, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi propo-sti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia du-rante la gravidanza sia dopo il parto”.
6.6. Non possono essere dimenticati, d’altronde, tutti quelli che – in parallelo con la diffusio-ne dell’aborto legale in Italia – hanno dato tempo, risorse, intelligenza, amore, scienza per aiutare le madri ad amare i propri figli in grembo, e i bambini a nascere e a vivere e cresce-re. Se i Centro di Aiuto alla Vita e tutte le altre iniziative hanno salvato circa centomila bambini, hanno anche (crediamo) aiutato circa centomila madri a superare le difficoltà che le avevano portate sull’orlo dell’aborto. E’ stata questa la risposta faticosa, impegnativa ma altresì forte e gioiosa del popolo cristiano e di tutti quanti credono nella vita e nel diritto a nascere e a vivere. Ed é questa – anche da giuristi – la nostra speranza.

Roma, 3 febbraio 2008, 30ª giornata della vita

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