Seppellire i morti Carlo Bellieni

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Là sotto le palme della Palestina, Gesù in una calda serata forse primaverile, riceveva l’ennesimo appello: “Ti seguirò dovunque”: era uno dei tanti che incontrava per strada o nelle case, emerso tra uno dei tanti che invece lo cacciavano: era appena passato da un paese della Samaria dove gli avevano preparato il pranzo, ma quando avevano saputo che lui stava andando nella vicina Gerusalemme gli avevano chiuso le porte in faccia. Dunque era avvezzo a bruschi cambiamenti nelle promesse e nelle fedeltà umane. All’appello “Ti seguirò ovunque”, il poveraccio che aveva incontrato Gesù aggiungeva: “Però prima dovrei seppellire mio padre”, che di per sé non indicava che il padre fosse morto perché magari intendeva dire che finché il padre era vivo non avrebbe seguito Gesù; oppure voleva dire semplicemente che doveva andare al funerale e poi prendere e seguirLo. E Gesù -che risponderà in maniera simile anche all’altro postulante chi gli dice che vuole seguirlo ma deve prender tempo per congedarsi dai suoi – risponde con la famosa frase “Lascia che i morti seppelliscano i morti”. Dunque dal vangelo arriva l’ordine di non eseguire un’opera di misericordia? No, se pensiamo che sia un alibi per la nostra trascuratezza; Sì, se usiamo l’”opera di misericordia” per comportarci senza misericordia, per non seguire la Misericordia, come alibi per non sostenere uno sguardo di misericordia, che per sua natura non si limita alle leggi terrene.
Guai alla misericordia doveristica, auto-assolutoria o compiaciuta, fatta forse per riempire il tempo, perché “così fan tutti”, perché non si ha altro da fare, perché si ha solo paura delle conseguenze. Ma ben venga la misericordia che unisce cuore e ragione. Seppellire un corpo non è riverire un corpo, ma riverire il disegno buono che Dio ha fatto usando quel corpo. E seppellire un corpo può non essere un imperativo primario se c’è un vivo da salvare. Se non si capisce questo, si venera un cadavere. Ma se si capisce, si ama ancor più l’uomo o la donna padroni di quel corpo ormai polvere. E si può capire che la misericordia cui siamo chiamati non è quella di seguire le leggi scolpite sulla pietra, ma di seguire una persona viva.
Ecco il primo punto: che la misericordia o “i principi” non diventino di pietra.
Ma comunque il precetto, se non pietrificato e marmorizzato, se insomma non si segue per onorare il precetto, ma per onorale Dio in primis e poi l’uomo, va seguito. Dunque, seppellire i morti è un precetto da seguire perché il corpo che un tempo era vivo, anche dopo la morte non cessa di risentire del suo compito speciale di accompagnamento di un essere umano, e perciò non può essere trattato in maniera trasandata, non deve essere mortificato perché era “compagno della vita”.
Una postilla: in realtà oggi vale la pena di dire “seppellite i morti”, perché qualche volta accade di veder se non proprio seppellire dei vivi, almeno preparare in troppo anticipo le esequie a chi magari sarebbe vissuto ma per incuria, abbandono, cattiva sanità, viene indotto a chiedere la morte; che poi sia una morte autorizzata dallo Stato o eseguita nella solitudine dal singolo che ha perso ogni speranza, la differenza non è grande. Occorre mettere un freno all’abbandono e invece di aprire le porte al suicidio, spalancare i cancelli alla compagnia, alla buona sanità, all’assistenza sociale (che non sia più un assistenzialismo ma sia il primo punto di ogni nuova legge finanziaria, senza cui non si va avanti). Tra quelle palme della Palestina, Gesù dava la sua compagnia, la sua assistenza, insegnando a chi lo incontrava a fare altrettanto, per osmosi; a non abbandonare e non abbandonarsi. La parola misericordia ce lo ricorda: non seppellire nella solitudine chi può ancora vivere.

Carlo Bellieni
Neonatologo, Università di Siena
Vicepresidente nazionale S&V

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