Sylvie Menard, sessant’anni, nata a Parigi, già direttore del Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto dei tumori di Milano, allieva di Umberto Veronesi, si dice "laica" e non credente.
Del suo maestro ha condiviso l’impostazione filosofica. E sull’eutanasia è sempre stata d’accordo con lui. Fino a quando non si è trovata, malata, dall’altra parte della barricata. Allora tutto è cambiato.
«Ciò che da sani non si capisce, è che i pazienti sono una popolazione diversa.»
“Anche io, prima, parlavo di ‘dignità della vita’, una dignità che mi sembrava intaccata in certe condizioni di malattia. Da sani si pensa che dovere essere lavati e imboccati sia intollerabile, ‘indegno’. Quando ci si ammala, si accetta anche di vivere in un polmone di acciaio.
Ciò che si vuole, è vivere.”
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